I Maestri del Colore (11-20)

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I Maestri del Colore (11-20)

I MAESTRI DEL COLORE (11-20)

11

(Olio su tavola, 20×23, 1562)

Due scimmie

Margherita e Rolando sedevano sul davanzale della stanza più alta della torre, incatenati.
Da un angolo, il fetore delle loro feci aveva ormai saturato l’aria. Erano deboli per i giorni senza cibo e se non erano morti di sete era solo per l’umidità che trasudava dai muri, leccata avidamente. La parete, di grandi blocchi di granito, era sconnessa e piena di appigli: era stato facile per Rolando arrampicarsi e infilarsi in quel pertugio. E sarebbe stato altrettanto facile scendere, senza quella imprevista zavorra.
Margherita aveva urlato fino a che la voce s’era fatta sterile squittio, ma Saverio, dopo averli bastonati, li aveva rinchiusi ugualmente e pareva essersi dimenticato di loro. “Così vi passerà la voglia di copulare come vogliose scimmie senza pudore!”, aveva sentenziato suo marito.

12
Raffaello (1483-1520)
(Olio su tavola, 31×27, 1505)

La pietà di Giorgio

Al castello, quando ne videro la sagoma, da lontano, salda sul cavallo candido, l’incredulità portò subbuglio e fermento. Era l’unico partito per volontà, coraggio, fede e non uno dei tanti mariuoli obbligati da una condanna. Ed era il primo a tornare. 
Giorgio aveva il volto duro, arso dal sole, indecifrabile. L’armatura, intatta, sbiadiva nella polvere.
«L’avete… l’avete ucciso?», balbettarono i primi, già genuflessi davanti alla sua cavalcatura.
E lui? Che poteva dire, lui, di quel rettile cieco, molle, pacifico, intento a masticare scarafaggi, celato dall’umido fetore della grotta? Poteva forse narrare di una salamandra ornata di scaglie e corna, tanto enorme quanto innocua? O di una grotta che permetteva la fuga oltre il deserto? E della pietà, per quell’animale rarissimo, forse unico, poteva forse dire? 
Mostrò un grande osso scheggiato, che aveva raccolto in terra. «Ho avuto pietà di lui», tuonò senza arrestare il passo. «Questo è il suo artiglio più minuto».

13
Raffaello (1483-1520)
San Giorgio e il drago (Whashington)
(Olio su tavola, 28.5×21.5, 1505)
La bestia
I due dipinti giacevano davanti suoi occhi, splendidi, ma lui scuoteva la testa, sconsolato.
Aveva modificato il volto, rendendolo pietoso; la postura del drago, meno aggressiva, volta alla difesa, alla fuga; e aveva attenuato la violenza del gesto: ora azione rassegnata e incerta, senza rabbia o foga. Aveva permesso alla cavalcature di voltare la testa in uno sguardo interrogativo, quasi compassionevole. Persino la sognante preghiera della principessa, sullo sfondo, che pareva sorridere, lo infastidiva. C’era qualcosa di cattivo, in quell’opera, una morte ingiusta che poco si addiceva alla sua idea di santità, lui che di quella aveva avuto segnata la vita, dalla nascita ai natali.
Decise che avrebbe consegnato il secondo: il peggiore, artisticamente, ma il più sopportabile, nei labirinti complessi della sua percezione. Senza alcun motivo razionale, crebbe in lui l’odio per quell’incolpevole committente… prese la tavolozza, rabbioso, e tracciò una cresta sull’elmo del Santo, sotto l’aureola: una cresta di drago! Chi era dunque, la bestia?

14
Gauguin (1848-1903)
(Olio su tela, 92×68, 1992)
Rossori
L’infido Taharu gonfiava gli occhi, sconcertato dal color porpora, intorno ai piedi della giovane Vanina; pareva lo stesso rossore della sua vergogna. Eppure l’aveva insidiata per mesi, aveva calcolato tutto: le parole dolcissime imparate a memoria e sussurrate, dopo averle rubate ai poeti; l’auto chiesta in prestito al ricco amico Ra’ita; le ore passate in palestra e i vestiti costosi, rubati dagli spogliatoi. E poi tutte le piccole bugie e gli inganni sottili, fili di una ragnatela sapientissima che aveva sprofondato Vanina tra i gemiti, inghiottiti dalle sue lenzuola. E adesso che era di nuovo nuda e sconfitta davanti a lui, proprio nell’attimo in cui una sensuale curva del ventre gli confermava d’averla fatta sua per sempre, ora la perdeva già, in rivoli sanguigni sciolti nell’acqua.
E lei ormai sapeva, l’avrebbe capito subito lui, da quel sorriso lieve, che ancora gli dava le spalle.
15
Giorgione (1477/78-1510)
Doppio ritratto (Venezia)
(Olio su tela, 80×75, 1502circa)
Melangolo

Ma guardalo lì, vestito come un deficiente, che sogna a occhi aperti… che poi, si può intitolare una poesia in modo più idiota? E riempirla di cuooore ammmore… ma dimmi te, neanche ai maiali piace quel frutto che sa di piscio! E lui è convinto che la bionda tettona della quinta B ne vada pazza. Portamene una cesta e sarò tua, gli ha scritto Matteo, sarai il poeta dei miei lombi, ha aggiunto Giovanni, assaporerai l’asprigno afrore del mio bocciolo, ha rincarato Paolo, che mica fa il classico per nulla. E Luca ha convinto Maria a baciare la carta, col rossetto da baldracca. Io che ho una bella calligrafia ci ho messo la firma: Maddalena… un nome un programma! E due gocce di profumo, okay… il tocco del genio. Non vedo l’ora sia domani notte, ai giardinetti, nel buio, quando col reggiseno imbottito rubato a mia madre gli chiederò di mettermi la mano nelle mutande. Frocio di qua, frocio di là… gliela faccio ben passare io la voglia… o venire, magari.
16
Duccio (1255/60-1318/19)
(Tempera su tavola, 211×426, 1308-1311)

Invidie

Ma guardala lì, quella bugiarda, quella falsa! Vanesia e spocchiosa che non è altro! Ma perché proprio lei, doveva essere la prescelta! Fosse bella, almeno! Con quella faccia da santarellina… e poi ne sa una più del diavolo! Tutta casa e chiesa… see. Se glielo chiedi quella è capace di dirti che è ancora vergine! E lui? Oh, sembra un dio, certo… ma guardalo lì: nemmeno ieri era in fasce e già mette la faccia di un vecchio! Maledizione anche a lui… Come non ce ne fossero state, di donne degne! Maddalena, per esempio, che è sempre stata la più bella… o Micol, o Noemi, che almeno era ricca! E Ruth? Lei sì, che sarebbe stata la donna perfetta… O me, perché non ha scelto me? Cos’ha Maria più di me? E adesso devo anche fingere di essere contenta per lei. Ah… ma staremo a vedere, staremo. Se sei davvero l’uomo che dici di essere, vedremo come andrà a finire tra qualche anno…


18

Toulouse-Lautrec  (1864-1901)
(olio su cartone, 79.4×59, 1892)

Amiche

Stai su! Vieni di qua! Visto? Quello t’ha già guardata… E quello? Che maschio! E via così, a gonfiarle le orecchie di bisbigli, per coprire il can can furioso della musica, Yvette e Marcelle, vestite apposta di nero per lasciarle tutta la piazza. L’avevano fatta uscire a forza, lavata, profumata, pettinata, tolti gli occhi di pianto con un vestito, che se non le avessero fatto bere così tanto adesso starebbe lì, a tener le mani davanti ai capezzoli, pronti a fuggire a ogni passo. Dove siamo? Non siamo al Rouge? Chiedeva lei, scombussolata, incrociando gli occhi, bella a modo suo, sotto il trucco pesante. Non ti conosce nessuno qui! Nessuno sa che lavoro facciamo. Le avevano detto, e sì, quelle due erano pazze, erano pazze e le volevano bene e a lei, per la prima volta da quando Henry non c’era più, da dentro, a sentirsi donna, dopo tanto, e non puttana, era arrivato qualcosa che si era affacciato alle labbra.
Ah, finalmente un sorriso! aveva esclamato Yvette, stringendola più forte.

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