I Maestri del Colore, 12: Raffaello (I)

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I Maestri del Colore, 12: Raffaello (I)

Ecco, c’è una cosa che mi dispiace aver smesso di fare, oltre che leggere i vecchi dylan dog, la notte, quando non riesco a dormire, con il non lavorare più per biblio. Leggere i Maestri del colore, usandoli come spunto per aggiornare il blog e scriverci un racconto.
Che poi sono utili anche per imparare qualcosa da spendere nella categoria Arte e cultura di Quizduello.
Ed ero rimasto al numero 11 ma non credo che andrò avanti per ordine, ma questi sì, me li sono andati a prendere in biblio… e il 12 e il 13 sono entrambi dedicati a Raffaello, la tartaruga ninja e il mio quasi omonimo. E allora, adesso, in breve, ma in breve eh, gli do una letta, al primo, mentre aspetto il secondo caffè da mangiarmi coi muffin mini e di andare a portare a pedalare la vecchia al parco, che oggi c’è il sole bello, quello fresco, degli inverni che non sono più tali.
E quindi apriamolo, questo coso, mentre mi ascolto il nuovo smashing.
Che mi dice subito che il buon Raffaello nacque di venerdì santo, alle tre di notte, nel 1483, da un pittore pure lui, Giovanni ‘de Santi. E poi è chiaro che dipingeva solo santi, con tutte queste citazioni bibliche ancor prima di nascere. Orfano presto, a dieci anni, già a 18 – allievo del perugino – si trova commissionata una pala (no, non l’attrezzo, maligni) da eseguirsi con Evangelista di Piandimeleto, ma lui fa quasi tutto da solo e l’altro pittura soltanto e quindi, sta pala, che poi commemora il beato Nicola da Tolentino ed è andata perduta, dicevo, con questa pala è già conscio dei propri mezzi e si lancia.
Comincia a fare mille cose, a prendere commissioni, e si sposta qua e là inventando praticamente il multitasking. Ovviamente va a Firenze, pur continuando a lavorare in Umbria (è nato a Urbino eh) perché aveva sentito delle meraviglie del Da Vinci e di Michelangelo, e infatti finisce per viaggiare e lavorare di continuo tra Perugia e Firenze
In tutti i primi del ‘500 fa altre pale, e tra il 1504-1508 una serie di capolavori, tipo, la Dama con l’unicorno, e una serie di Madonne: Connestabile, del Granduca, Cowper, del Belvedere, del Cardellino, d’Orleans.
Pare poi che nel 1507 non sia riuscito a beccarsi i lavori del Palazzo Vecchio, a Firenze, interrotti in modo definito dai due genietti di prima, e quindi se ne va a Roma, dove sappiamo che è pittore di palazzo nel 1509.
Qui fa faville e piace a tutti, dai Papi all’Aretino, dal Bembo ad altri letterati. Insomma… super successo e fama a bizzeffe.

Ecco perché nell’11 un banchiere gli chiede “la Galatea” un affresco per la sua villa.

E insomma… dal 1511 al 1514 si becca molte ricche commissioni, continua a sfornare capolavori, e non disdegna molti olii su tavola. Non mancano, tra l’altro, i ritratti. Diciamo pure che è stressato, va, perché gli incarichi cominciano a essere troppi e lui non rifiuta mai tanto che diventa Architetto galattico di Roma e arriva a disegnare dei meravigliosi cartoni che avrebbero decorato arazzi che avrebbero decorato le pareti della cappella Sistina…
Da qui, finalmente, comincia a fare come tutti, ovvero a non eseguire più i suoi dipinti personalmente ma a progettargli soltanto lasciandoli ai suoi giovanotti, tra i quali, per dire, Giovanni da Udine.
Tutto questo stress, però, mi sa che bene non gli ha fatto, perché schiatta già nel 1520, a 37, dico, 37 anni! e sempre sotto Pasqua, se non proprio di venerdì santo, almeno così si riporta.  (Ma il Vasari, si sa, ogni tanto le spara grosse, e dice che è morto pure alla stessa ora, quella del lupo)
E le note biografiche le possiamo chiudere con le parole di Pietro Bembo, che era uno che ci capiva, di esprimere sentimenti:
Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire.
E insomma… avete capito.
Ma basta vita, e vediamo di vedere qualcosa d’altro, tipo la datazione delle opere. Nel 1955, e solo in quell’anno, si arrivò a collocare con più precisione alcuni suoi lavori, dando alla sua carriera un senso di crescente miglioramento, e non, come si credeva, d’alti e bassi.
Curioso, per esempio, che quando arrivò a Firenze, già tributato del titolo di maestro e di grandi onori, si rese conto di quanta strada ancora avea da fare, per arrivare ai livelli di Michelangelo e Leonardo. E la fece eh.
Mi si dice, qui, nella critica del Longhi e del Vasari, che benché molta è l’impronta del maestro Perugino, i suoi lavori umbri sono migliori, l’uso degli spazi, dei chiaroscuri, la dolcezza delle linee, la potenza dei sentimenti evocati, aggiungo io.
Non puoi non riconoscere parole come pietà, commozione, superbia. E non solo da Leonardo e Michelangelo, imparò, ma anche da un terzo maestro, poco citato, un tal Fra’ Bartolomeo, Sotto questi acquisisce pienezza e vivacità, la sua opera, e si libera dai lacci suadenti del Perugino, con un respiro compositivo più fluido, qualunque cazzo di cosa voglia dire ciò.
E’ proprio in questi periodi che compone il quadro che già ho deciso di usare come spunto per la mia storia dall’arte: il San Giorgio.
Anyway, nel periodo fiorentino più che mai, ma non solo: in tutta la sua opera, c’è un continuo affidarsi alle proporzioni, a disposizioni simmetriche, al trittico rimato di armonia, simmetria euritmia.
E poi?
Non so… poi basta, secondo me. Si parla molto di cose tecniche, e io dopo un po’ mi stufo e leggo a vuoto, quindi le ultime righe praticamente le salto.
Vi lascio ancora qualche quadro famoso, o comunque dove si vede che veramente era un qualcosa di unico e geniale, benché io, per natura mia, le opere cinquecentesche non riesco ad apprezzarle più di tanto.
Qui di seguito vediamo che vi lascio…
Il ritratto di Agnolo Doni, lo Sposalizio della vergine, la madonna Connestabile e boh… le tre grazie, grazia, graziella e…
E per il raccontino? Allora, siccome ci sarà anche un’altra puntata, su Raffaello, perché ha pitturato talmente tanta robba buona che non bastava un solo numero de I Maestri del colore, allora ho deciso di scrivercela su uno dei suoi quadri più celebri a livello iconografico, anche se non tra i capolavori a livello artistico. Vi dico anche che ce n’è due, di San giorgi e i draghi. Questo di questa volta è quello che dovrebbe essere il migliore, basato su altri bozzetti di cavalieri e cavalli, con un san giorgio dal volto sprezzante, sicuro, e un drago aggressivo

La pietà di Giorgio

Al castello, quando ne videro la sagoma, da lontano, salda sul cavallo candido, l’incredulità portò subbuglio e fermento. Era l’unico partito per volontà, coraggio, fede e non uno dei tanti mariuoli obbligati da una condanna. Ed era il primo a tornare. 
Giorgio aveva il volto duro, arso dal sole, indecifrabile. L’armatura, intatta, sbiadiva nella polvere.
«L’avete… l’avete ucciso?», balbettarono i primi, già genuflessi davanti alla sua cavalcatura.
E lui? Che poteva dire, lui, di quel rettile cieco, molle, pacifico, intento a masticare scarafaggi, celato dall’umido fetore della grotta? Poteva forse narrare di una salamandra ornata di scaglie e corna, tanto enorme quanto innocua? O di una grotta che permetteva la fuga oltre il deserto? E della pietà, per quell’animale rarissimo, forse unico, poteva forse dire? 
Mostrò un grande osso scheggiato, che aveva raccolto in terra. «Ho avuto pietà di lui», tuonò senza arrestare il passo. «Questo è il suo artiglio più minuto».

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