"L'enigma" di John Fowles**
Dunque. Oggi c’era Lovecraft, in edicola col Sole 24 Ore.
Lo dico solo per quelli che magari interessa e fanno ancora in tempo a. Quattro racconti: La strana casa nella nebbia, Il tempio, Aria fredda e La musica di Erich Zann.
Tipo l’altro ieri, però, mi sono letto quello della settimana scorsa. Ho gli altri da recuperare, ma siccome ormai leggo bene solo durante la fisioterapia di mia mamma, ché c’è un’ora da aspettare e sono sicuro che, in quell’ora, lei non può rompere i coioni con strane richieste (anche se, riesce a fare le magie e a farsi aiutare dalla fisioterapista, per mandarla fuori a chiedermi di fare qualcosa tipo al bar, allo sportello ticket o all’edicola), comunque, vi dicevo, venerdì ero tardi e non ho avuto tempo di prendere in mano altro che questo “L’enigma” di John Fowles, perché era appoggiato vicino al PC ancora da domenica scorsa.
E devo dire, che un pregio davv’ero ce l’ha: è avvincente. Perlomeno nella prima metà. Vuoi sapere perché, il protagonista, è scomparso.
Il protagonista è John Marcus Fielding, siamo nel ’73, e ha 57 anni, con una vita che è una somma totale e totalizzante di stereotipi della vita di una persona di successo, anche se non enorme. Il mistero è questo.
Un terza persona ti parla con toni molto formali di come il signor Fielding scompaia e di come non vi siano motivazioni, né ragioni di sospettare omicidi, suicidi o rapimenti. Anche la via dell’amnesia e dell’incidente accidentale finisce ben presto per non dare risultati. L’indagine è importante ma se nulla cambia nulla si trova e allora ecco che se ne occupa un investigatore privato in carriera, bravo, bello e abile, che ti aspetti diventare protagonista ma che non lo diventerà.
Fin qui, detta così, vi dico che tutto era costruito abbastanza bene.
E mi andava bene anche l’onda di stereotipi che invadeva le indagini. Il figlio problematico, la moglie irreprensibile, la segretaria perfetta e fedelissima, i colleghi politici finti e la morale intoccabile del marito, il fatto che nella City degli anni ’70, è molto più grave che gli altri sappiano o pensino che hai fatto, piuttosto che fare veramente una cosa. L’apparenza, questo il filo conduttore del mondo in cui la scomparsa di Fielding ha fatto un buco, una irregolarità.
Nessuno può pensare che ci sia sotto qualcosa.
Forse solo la giovane fidanzata, gran quaglia, di Peter, è un po’ diversa, è qualcuno che non appartiene a quel mondo e che vi si è immersa, per tuffarsi fuori, sembra, al più presto.
E in effetti, l’indagine è una palla galattica. Non c’è niente che non va, nessun movente, nessun elemento nuovo. Nella seconda metà di libro mi sono cominciato a stufare. Altri eventi, uno soprattutto, prendono il posto delle domande che il tenente Jennings fa a tutti, per scoprire dove diavolo si è ficcato il buon Robert.
Però ve lo dico subito.
A me il finale, o meglio, la parte finale, mi è stata davvero sulle scatole.
E anche qualche aspetto della scrittura, qualche struttura ripetuta, è stata un po’ fastidiosa. Per dire, vi faccio un esempio. Mi continui a dire che tutti, ma tutti, ogni riga del racconto, dicono un gran bene di Robert e descrivono questa figura perfetta, e non nel senso di ineffabile, ma una persona normale, equilibrata, riuscita, positiva, buona, corretta entusiasta con qualche piccolo difetto ma niente di che, nel bilancio completo del tutto. Okay, però, a pagina 41 mi si dice che “un gruppetto selezionato di vicini, [che] gli offrirono un punto di vista leggermente diverso sull’oggetto della sua indagine”; poi, 20 righe dopo mi dici che “Una persona soltanto gli offrì una visione di Fielding leggermente diversa” e poi, 4 pagine dopo, al successivo interrogatorio, la figlia minore “aggiunse una prospettiva leggermente diversa, in contrasto con le altre informazioni“. E allora, dico io, anche ammettendo che il traduttore abbia uniformato, resta il concetto che non mi puoi continuare a dire che un soggetto è del colore X ma poi, chiunque lo vede, vede un po’ di Y, di K, di Z, di M, ecc e alla fine, del colore X non c’è nulla.
E poi, sì, in due tre occasioni mi ha proprio lasciato col fastidio. Una me la sono persino segnata, aspettate… ecco: “Tuttavia, anche se era ben sicuro che é [lei] aveva già parlato con Peter e certo non avrebbe cambiato linea, il sergente insistette.
Ma bioparco, un “avesse” ci stava male? No, magari sono io che mi sono rincoionito, perché ne ho trovati altri 2 o 3 di congiuntivi lanciati come un dado, però mi hanno lo stesso lasciato interdetto.
Quindi?
Quindi basta. E’ una lettura molto, molto agevole. Due ore e la fate fuori, anche meno. Però a me il finale, non in quanto a fatti, ma rispetto alla gestione, mi ha lasciato del tutto insoddisfatto e pure un po’ infastidito. Non vi spoilero, no, ma diciamo pure che a me il miele non piace, e il forse, pare, non si sa, piace solo quando mi si lasciano abbastanza elementi per costruirmelo da solo senza forse, senza pare e senza non si sa.
E benché sia chiaro che gli intenti di Fowles siano mettere sotto accusa una classe sociale londinese ricca, agiata, agguerrita, fortunata, apparentemente iper felice, siamo lontani dai graffi che sa dare un Ballard, nelle sue guerre migliori. E ci mancherebbe, direte voi, okay, dico io, ma se ti metti su un terreno di guerra di un certo tipo, dove il giallo lascia il posto al sociale, aspettati di essere confrontato con quelli che ci sono già passati.
Molto, ma molto, molto molto lontanamente, questo racconto mi ha fatto tornare in mente “Un gioco da bambini” ma là dove aveto trovato la perfezione del piano criminale immersa nella critica sociale, qua non l’ho trovata. Tutto qua. Al prossimo raccontino soleventiquattrorico!
gigi
Ma Fowles non è quello de "La donna del tenente francese"? L'ho letto talmente tanti anni fa che non ne sono sicura.
gelo stellato
Sì sì, ho guardato
è quello, libro del 69.. già il titolo sa di una palla, ovvio che non te lo ricordi ;D