Intorni di canzoni

Intorni di canzoni

Ascolto questa canzone di Kiwanuka. Shazam mi dice che si intitola Love and hate, ma forse è una risposta a un’altra domanda, che ho fatto senza schiacciare tasto alcuno. È bellissima. La canzone, ma anche la risposta. Mi chiedo quante volte è riascoltabile. Costruisco persino, dentro me, una classifica in base alla riascoltabilità delle cose. Indice di ripetibilità, lo chiamerei. E misurerebbe la bellezza delle arti dinamiche e ripetibili. Un libro, un film, una poesia, una canzone. Bevo un sorso di vodka e zenzero. Brucio altra legna. Leggo una storia, me la faccio raccontare. Non è la stessa cosa, io lo so. Parla di amore e di morte. E di una fessura fra due muri in cui si vede un universo. L’universo in cui stanno i morti. Quando la vita muta in pertugio atterrisce, è sempre così. E io ho riempito la notte scorsa di incubi, ma ricordo solo gli ultimi due: mio padre col cancro, senza decine di chili e noi che gli negavamo d’esser dimagrito; nell’altro c’ero io che dicevo di amare e di soffrire di mancanza. Così ho smesso, ho lasciato andar via la canzone. È finita la storia, e ne è finita un’altra. Sono uscito per due passi al freddo. Stanotte è la domenica dei sacchi di plastica azzurri e dei bidoni verdi del vetro. Sembrano tracciare le vite. Voi passerete di qui, dicono. E di qui, e poi di qui. Parlano ogni due settimane, giudicano, ineluttabili. Io dovrei andare a dormire, mettere fuori la plastica, forse anche il vetro. Invece comincio un’altra storia. Torno indietro. Love and hate. Ancora, Cerco il tasto repeat. Non è cosa che uso spesso. Anzi mai. Forse è la prima volta. La storia che verrà, me la farò raccontare.

C’è questa canzone di Birdy zeppa di archi. Parla di onestà e solitudini in modo impavido e tenero, ed è meravigliosa, ma non me ne sono accorto subito. Né del fatto sia meravigliosa, né di ciò che dice. È come con le pozzanghere ghiacciate, sì, che non sai quanto sono spesse, e lo spessore cambia a seconda dell’ora e delle ombre, del freddo che ha fatto e che farà. E non possiamo farne a meno, pensavo, di cercarci le lastre ghiacciate, di metterci sopra un piede, a volte due. Camminarci. Siamo sempre su qualche lastra ghiacciata, in ogni stagione. Molte si rompono. E la canzone, lunga, è di quelle che buca le cose che fai, entra senza bussare, si impone per bellezza. Anche tra le persone c’è chi fa così. Canzoni trasparenti, senza colore, che all’improvviso si lasciano accorgere, magari con una lunghissima coda di archi, come quella che sto ascoltando adesso. Archi che tornano e non vanno via e tornano ancora. Il ghiaccio si spezza e cambia colore, così ha fatto la canzone. Così le persone. Persone che con un gesto, un sorriso, una postura, un suono, ci appaiono per la bellezza che sono, per quanto ci mancheranno, presto, per quanto diamo per scontato, di loro. Quante ne ho? Quante ne conosco? E tu? Ci pensi? Le conti? Contiamole.
La canzone si chiama Comforting sounds e mi fa pensare al suono del preparare la moka, del frigo che si apre, del   brusio del caldaia, piuttosto a questi archi maestosi, che meritano si smetta di fare altro, almeno fino agli ultimi archi che vanno via.

Le cover sono come le persone. O meglio, le persone sono canzoni, ma noi le conosciamo come interpretazioni e forse qualche volta, nel nostro sentire, pensiamo di conoscere ‘l’originale’ e siamo poco disposti a considerare le cover, le altre interpretazioni. Ma non è così. Sono sempre cover. Sempre. Nell’istante in cui conosciamo qualcuno ne conosciamo l’interpretazione. Sua, nostra, del momento, dell’intorno. Pensavo questo ascoltando Dave Gahan e i Soulsavers, il loro disco di cover. E due, in particolare. A man needs a maid che era una canzone di Neil Young di un tempo, e Shut me down, che è di un tale che non conoscevo. Trovo entrambe stupende, riuscite. Eppure… La prima la conoscevo. Harvest è un disco che ho ascoltato spesso. Eppure era più bella, da tanto che era stata raffinata e arrotondata, da non riconoscerla. E non ti capita spesso di riuscire a interpretare persone in modo così diverso pur riconoscendele già per bellezza.  L’altra invece era uguale, anzi… In tipo che la canta ricorda pure gahan. Insomma… Cover che non lo sono davvero, perché non esiste un originale. Ho pensato che c’è la scordiamo spesso, ‘sta cosa, con le persone che conosciamo. Dovremmo dare sempre la possibilità di essere altro, di diventare cover di originali che non sono mai esistiti ma crediamo che. E anche noi, dovremmo saperci interpretare meglio. Dimenticarci che non siamo né cover, né originali, né tutto quello che sta in mezzo.

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