“La Tregua” di Primo Levi****(*)

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“La Tregua” di Primo Levi****(*)

E’ venerdì, è tardi, sono al 5° giorno di dieta, e al 5° con più di metà ore rubate dall’altrove. Ho cercato qualcosa da ascoltare, per ripensare a questo libro, e alla fine l’ho trovato in Damien Rice, nell’ultimo, attesissimo, sofferente Rice, che non sembra uscirne più, dal suo baratro. E tutto questo non mi ha permesso di parlarne prima, benché avessi voluto, benché fosse necessario.
La tregua… è un PEM, lo sarà, deve esserlo. 
La cosa dei libri PEM l’ho accantonata, ci ritornerò appena trovo la forze e i tempi per allargare le cose, ma resta che tra quei libri che ti rendono persona migliore non posso non pensarci questo lavoro di Levi. 
Vi ho già detto di quello famoso, di Se questo è un uomo, che io ho trovato perfetto non tanto per il suo contenuto storico biografico, quanto per un’analisi della natura umana lucida e fredda, emotivamente distaccata, impensabile in altri contesti meno straordinari.
La Tregua è diverso. E’ il sequel, per chi non lo sapesse. Non è celebre come il precedente, io stesso lo avevo sempre sentito citare, ma mai avevo colto il suo carattere di seguito. E così ve lo dico, che magari nemmeno voi. 
E anche in questo libro c’è una poesia. Una poesia iniziale, discussa, scritta nel 1946, che è sia intro, sia chiusura del libro, e che Levi spiega anche, dando il senso al titolo. Vi lascio le parole di Primo…

“[…] il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa e si identifica con la morte, a cui nessuno si sottrae. Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal “comando dell’alba”, temuto ma non inatteso, dalla voce straniera (“Wstawać” significa “Alzarsi”, in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono. Questa voce comanda, anzi invita alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz”

E vi lascio la poesia…

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba;
«Wstawać»;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
il nostro ventre è sazio.
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawać»

Lo so… sarà famosa, per qualcuno, ma ha senso rileggerla. Ti mette nel mood del libro.
Ci sono due cose estremamente forti, in questo libro, oltre al concetto di Tregua. Due cose che non si trovano spesso, e non i questo modo, non con questo realismo.
La prima è semplice, ma tanto semplice quanto rara: La tregua ci racconta ciò che succede a Levi, e a tutti i sopravvissuti, prigionieri e meno prigionieri, dal momento della liberazione a quando rivedono casa. Passano mesi, e quel che gli succede è un’odissea quanto mai strana, folle, che va dal malinconico al comico, con momenti che non si sapesse che sono autentici sarebbero incredibili.
In questo senso è estremamente formativo. Abbiamo questa immagine, a volte, che finita la guerra tutti son tornati a casuccia, a rifarsi una vita e leccarsi le ferite… e invece no. La cartina che Levi mette, e doveva, verso la fine del libro parla da sola. Un giro assurdo, per le Culonie d’Europa, in mezzo all’insensatezza di ordini e contrordini, in mezzo al freddo, alle macerie, ma anche in una vita che rifiorisce, una primavera di animi che sembra a tratti rivendicare la sua bellezza. 
Vi lascio la cartina va.
E poi, la seconda cosa, quella che mi è entrata dentro, che forse non tutti colgono, ma che c’è, ti attornia, è la considerazione che il romanzo è un romanzo che parla delle lingue, del comunicare, del parlare tra gli uomini, di quel che è la lingua per un essere umano, le parole, il capire e sapersi far capire. 
Tedesco, italiano, polacco, russo, greco, inglese, francese, albanese, yiddish… è una babele complessa e meravigliosa, quella contenuta nel romanzo.
E magari non c’è, in questo libro, lo stesso impatto, la stessa forza del precedente, ma riguardo alle lingue ci sono momenti meravigliosi. Personaggi come Cesare, o come Il Greco, non vi possono lasciare indifferenti. Ora vi cerco un pezzo e ve lo dimostro…
Trovato! Cesare, personaggio indimenticabile, trafficone di prima categoria, viene in possesso di tre oggetti (una penna stilografica rotta, un contasecondi, e una camicia bucata) e va al mercato con Primo a venderli (siamo in Polonia). Eccovi il pezzo, è lungo, ma vale la pena, e vi scanno solo questo, tranquilli: 
Partii dunque per il mercato con Cesare, che si proponeva di rivendere (magari ai russi stessi) i tre oggetti sopra descritti. Il mercato aveva ormai perso il suo primitivo carattere di fiera delle miserie umane. Il razionamento era stato abolito, o piuttosto era caduto in disuso; dalla ricca campagna circostante arrivavano i carri dei contadini con quintali di lardo e di formaggio, con uova, polli, zucchero, frutta, burro: giardino di tentazioni, sfida crudele alla nostra fame ossessiva e alla nostra mancanza di quattrini, incitamento imperioso a procurarcene.
Cesare vendette la penna al primo colpo, per venti zloty, senza contrattazione. Non aveva assolutamente bisogno di interprete: parlava soltanto italiano, anzi romanesco, anzi ancora, il gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati. Certo non aveva altra scelta, perché altre lingue non conosceva: ma, a sua insaputa, questa ignoranza giocava fortemente a suo vantaggio. Cesare « giocava nel suo campo », per dirla in termini sportivi: per contro, i suoi clienti, tesi a interpretare la sua parlata incomprensibile e i suoi gesti mai visti, erano distolti dalla necessaria concentrazione; se facevano controfferte, Cesare non le comprendeva, o fingeva testardamente di non
 comprenderle.
L’arte del ciarlatano non è così diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c’era un buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c’era il buco), e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che si inventava sul momento. Si interruppe bruscamente (conosceva per istinto il valore oratorio delle pause), baciò la camicia con affetto, e poi, con voce risoluta e insieme commossa, come se gli piangesse il cuore a separarsene, e vi si inducesse solo per amore del suo prossimo, – Tu, panzone, — disse: — quanto mi daresti per ‘sta cosciuletta?
Il panzone rimase interdetto. Guardava la « cosciuletta » con desiderio, e con la coda dell’occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come « pingisci ». Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. – Che ha detto, quello? – mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) i numerali polacchi molto più prontamente di me.
– Tu sei matto, – disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze. Il panzone se ne stava a bocca aperta, dondolandosi come un orso da un piede all’altro. – Du ferìk, – riprese Cesare spietato (intendeva dire « verriickt »); indi, a maggior chiarimento, aggiunse: — Du meschuge —. Esplose un uragano di risa selvagge: questo l’avevano capito tutti. « Meschuge » è un termine ebraico che sopravvive nel yiddish, e pertanto è universalmente compreso in tutta l’Europa centrale e orientale: vale « matto », ma contiene l’idea accessoria di follia vuota, melanconica, ebete e lunare.
Il panzone si grattava la testa e si tirava su i pantaloni, pieno di imbarazzo. – Sto, – disse poi, cercando pace: — Sto ziotych, cento zloty.
L’offerta era interessante. Cesare, alquanto mansuefatto, si rivolse al panzone da uomo a uomo, con voce suadente, come a convincerlo di una qualche sua involontaria ma pur grossolana trasgressione. Gli parlò a lungo, a cuore aperto, con calore e confidenza, dicendogli: – Vedi? capisci? non sei d’accordo?
–  Sto zlotych, – ripetè quello, testardo.
– Questo è de Capurzio! — mi disse Cesare. Poi, come colto da improvvisa stanchezza, e in un estremo tentativo di accordo, gli mise una mano sulla spalla e gli disse maternamente: – Senti. Senti, compare. Tu non mi hai capito bene. Facciamo così, mettiamoci d’accordo. Te me dai tanto così – (e gli disegnò 150 col dito sul ventre), – te me dai Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene?
Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo, con gli occhi rivolti in giù; ma l’occhio clinico di. Cesare aveva colto il segno della capitolazione:  un movimento impercettibile della mano verso la tasca posteriore dei pantaloni.
– E dai! Caccia ‘ste pignonze! — incalzò Cesare, battendo il ferro finché era caldo. Le pignonze (il termine polacco, dall’ostica grafia ma dall’assonanza così curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate, e la camicia mollata; ma subito Cesare mi strappò energicamente alla mia ammirazione estatica.
— A compa: famo resciutte, sennò questi svagano er bùcio -. Così, per timore che il cliente si accorgesse prematuramente del buco, facemmo resciutte (ossia prendemmo congedo), rinunciando a piazzare l’invendibile contasecondi. Camminammo con dignitosa lentezza fino alla cantonata più vicina, poi svicolammo con la maggior rapidità che le gambe ci permettevano, e ritornammo al campo per vie traverse.
Ecco… io trovo pezzi come questo delle piccole perle, dei tesori. Solo la realtà può regalarti cose così, e questa realtà, prima di questo libro, non la conoscevo. Ora la conosco, e ne sono felice.
Poi che altro… Ah, sì, c’è più disorganicità, nei capitoli, si percepisce qualche slegatura, e grazialcazz, direte voi, li ha scritti tutti a intervalli di mesi! E infatti è così, avete ragione. Ma io penso anche che l’urgenza sia venuta meno, a dare tempo di ragionare, di fare di Levi uno scrittore, piuttosto che un internato, e il libro non perde, anzi, guadagna, in lessico e abilità narrativa, ma è meno di impatto, ha meno forza dirompente, immediatezza. 
Ci sono molti più personaggi, qui, più esseri umani, e molti sono meravigliosamente folli, o comunque poco allineati, quasi come la guerra avesse lasciato ciò che non era catalogabile nell’umana normalità. Mordo Nahum, il greco, che ha una visione del mondo tutta sua, estrema e affascinante, pura, anche per gli aspetti che si sopportano male. E poi la gente dei campi di raccolta, soprattutto Starye Doroghi, che è davvero l’emblema di una Culonia assoluta. Ci sono scene che a ricordarle vien coglia di rileggerle: Cesare che vuole comprare una gallina da gente che gli sparava addosso, i soldati russi che giocano a biglie a ogni fermata di treno, come bambini; il teatro organizzato per la festa; l’Armata Rossa; la partita a calcio che rischia di costare a Levi la ghirba, l’assalto degli italiani a un povero villaggio, le mucche macellate al volo… e insomma, tante altre piccole cose e tanti personaggi che formano davvero un circo originale e incredibile.
C’è, va detto, qualche momento di stanca, qualche passaggio, pochissimi, dove si fatica un po’, ma è soprattutto perché anche a chi legge pare impossibile che non si riesca in alcun modo ad andare verso casa, verso l’Italia. 
E io direi basta, perché è tardi+, il disco di Rice è finito da un po’ e io passo a Devics e mi metto a fare altro, anche se mica so cosa. Forse anche dormire, che ogni tanto serve.
Anzi no… voglio salutarvi con un altro pezzo. La partita di calcio… meravigliosamente assurda!
A voi… e al prossimo Levi, che so già quale sarà.
La partita si svolgeva su di un campo di periferia piuttosto lontano da Bogucice, e i russi, per l’occasione, avevano concesso libera uscita all’intero campo. Fu accanitamente disputata non solo fra le due squadre contendenti, ma fra entrambe queste e l’arbitro: poiché arbitro, ospite d’onore, titolare del palco delle Autorità, direttore di gara e segnalinee a un tempo era il capitano della NKVD, l’inconcreto ispettore delle cucine. Ormai guarito alla perfezione della frattura, sembrava seguisse il gioco con interesse intenso, ma non di natura sportiva: con un interesse di natura misteriosa, forse estetico, forse metafisico. Il suo comportamento era irritante, anzi estenuante, se giudicato col metro dei molti competenti presentì fra il pubblico; per altro verso, esilarante, e degno di un comico di gran scuola.

Interrompeva il gioco continuamente, a casaccio, con sibili prepotenti, e con una sadica predilezione per i momenti in cui erano in corso azioni sotto porta; se i giocatori non gli davano retta (e smisero ben presto di dargli retta, perché le interruzioni, erano troppo frequenti), scavalcava il parapetto del palco con le sue lunghe gambe stivalate, si cacciava nella mischia fischiando come un treno, e tanto faceva finché non riusciva a impadronirsi del pallone. Allora, a volte lo prendeva in mano, rigirandolo da tutte le parti con aria sospettosa, come se fosse stato una bomba inesplosa; altre volte, con gesti imperiosi, lo faceva mettere a terra in un determinato punto del terreno, poi si avvicinava poco soddisfatto, lo spostava di qualche centimetro, gli girava intorno a. lungo meditabondo, e infine, come convinto di chissà che, faceva cenno di riprendere il gioco. Altre volte ancora, quando gli. riusciva di avere il pallone fra i piedi, faceva allontanare tutti, e lo calciava in porta con tutta la forza che aveva: poi si volgeva radioso al pubblico che mugghiava di rabbia, e salutava a lungo stringendosi le mani al di sopra del capo come un pugile vittorioso. Era peraltro rigorosamente imparziale.

In queste condizioni, la partita (che fu meritata-mente vinta dai polacchi) si trascinò per oltre due ore, fin verso le sei di sera; e si sarebbe protratta probabilmente fino a notte se fosse dipeso solo dal capitano, che non si preoccupava minimamente dell’orario, si comportava sul campo come il Padrone dopo Dio, e da quella sua malintesa funzione di direttore di gioco sembrava ricavare un divertimento folle e inesauribile. Ma verso il tramonto il ciclo si oscurò rapidamente, e quando caddero le prime gocce di pioggia fu fischiata la fine.
La pioggia divenne in breve un diluvio: Bogucice era lontana, ripari per via non ce n’erano, e ritornammo in baracca fradici. Il giorno dopo stavo male, di un male che rimase a lungo misterioso.
Non riuscivo più a respirare liberamente. Sembrava che nella corsa dei miei polmoni ci fosse un arresto, un dolore acutissimo, una puntura profonda, localizzata da qualche parte sopra lo stomaco, ma dietro, vicino alla schiena; e mi impediva di attingere aria oltre un certo segno. E questo segno scendeva, di giorno in giorno, di ora in ora; la razione d’aria che mi era concessa si riduceva con una progressione lenta e costante che mi atterriva. Il terzo giorno non potevo più fare alcun movimento; il quarto, giacevo sulla branda supino, immobile, col respiro brevissimo e frequente come quello dei cani accaldati.

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