“Se questo è un uomo” di Primo Levi*****

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“Se questo è un uomo” di Primo Levi*****

Quando ho cominciato la cosa dei libri PEM, non avevo ancora letto “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Lo so… potreste giudicarlo come una grave mancanza, ma io non li ho letti quasi mai, i libri che ti consigliano a scuola. Qualcosa, forse… 2 o 3, ma poi basta. E devo dire che ne sono contento. Parecchio contento.
Alcuni di questi libri no, ma molti, di quelli appartenenti alle liste scolastiche, ecco, molti sbagliano target. 
Lo puoi leggere, ti può piacere, inorridire, lasciare indifferente… ma a leggerlo da piccoli, questo libro, non ci si arriva alla sua vera faccia.
Se questo è un uomo” è un’indagine sulla natura umana, vera e attendibile quanto lo sono i fatti accaduti e raccontati.
Seconda cosa, è un libro bellissimo, con una scrittura che cambia di registro con scioltezza, che sa farsi descrittiva e introspettiva nell’arco di una stessa pagina, che è elegante e ricercata, a tratti, ma mai pesante; una scrittura che sfugge i giudizi, il compiangersi, l’eccesso di descrizione, la voglia di stupire, accusare o incutere emozione.
Non significa che non lo faccia. 
Non sei più lo stesso dopo aver letto questo libro. E non solo perché la realtà di un campo di concentramento ti è stata srotolata davanti e ci hai camminato sopra. No, non per questo. Perché a leggere tra le righe, a leggere dentro, e poi a guardare il mondo intorno, soprattutto quello che si affaccia al web, quello dei commenti, quello delle persone che si professano tali ma. Ecco, a guardarti in giro ti accorgi che la natura umana, là in fondo, da qualche parte, sotto le sovrastrutture, i moralismi, la legge, il giudizio altrui… dietro a queste sbarre che l’ingabbiano, ecco, quella natura è quella che i tedeschi avevano liberato, creando il lager.
E non è una bella cosa.
E quindi, tornando ai libri che ti rendono migliore, libri che ti fanno vedere il mondo in un modo diverso, che ti fanno conoscere cose, ecco, se uno ha letto questo libro e non ha capito il concetto di libro PEM allora è un qualcuno che davvero non capisco io. Non è questione di saperne di Auschwitz, o di saperne di guerra o di campi di concentramento. Non è una questione informativa, ma emotiva e indagativa. E letteraria, anche, perché c’è modo e modo di dire le cose, ma questo modo è estremamente e maledettamente efficace. 
Quindi… torniamo al libro e diciamo qualcosa, sia per chi lo ha letto (che ricordare è sempre fondamentale, e secondo me chi lo ha letto lo ha imparato) e sia per chi non lo ha letto, perché forse vale la pena che lo faccia… indipendentemente dalle sue credenze letterarie, politiche, sociali e altro.
Vi posso dire e mostrare due cose, prima di cominciare.
Una è questo video che ho trovato in rete che spezza (non una ma) cinque lance a favore della lettura. Sono cose che uno che legge sa, ma che a volte non riesce a vedere o considerare, anche se se le sente dentro. Però sono dette bene, fate uno sforzo, dai. Anche perché è proprio ciò che intendevo io come pemmitudine dei libri. Chi non legge mai ovviamente farà fatica a credere a queste cose, ma chi non legge mai non c’è motivo che passi su questo blog 🙂

La seconda cosa è una mostra che c’è adesso, a padova, o giù di lì. Sono i disegni degli internati. 

Ma avevano tempo di fare disegni? Vi chiederete… suvvia, vuol dire che non avete letto “Se questo è un uomo” e siete ancora legati all’idea di lager come campo di tortura, mentre ci si viveva, purtroppo. E dove si vive, si fanno cose, e tra queste può starci benissimo anche il disegnare.
Ma adesso vi saluto e vi lascio che vado a pranzo, che i miei fanno quarant’anni di matrimonio.
Ecco fatto. Dicevo… ah, sì, l’altra cosa che vi volevo lasciare, oltre a quel video là, sulla letteratura, è una mostra che c’è adesso a padova, una mostra di disegni, quelli degli internati.
Sono belli. Angoscianti ma belli. Ne ho trovato qualcuno in rete, e ci condisco il post, così viene più a tema. Forse ci vado, a padova a vederla. 
Ma veniamo al libro.
Primo Levi era di Torino, era ebreo, per quanto anche lui non vi vedesse questa gran cosa nell’essere ebreo, nel senso che non sapeva l’ebraico, non conosceva la Torah, ed era in tutto e per tutto un perito chimico di torino, che viveva tranquillo e beato.
Finché non l’hanno preso e internato in Polonia.
Un anno circa, ci racconta, dal giorno in cui è stato caricato sul treno, assieme ad altri, ai giorni della liberazione, quel 27 gennaio che abbiamo festeggiato – si fa per dire – pochi giorni fa come giornata della memoria. Stavo leggendo proprio le ultime pagine del libro, in quei giorni. E’ stato bello.
Ora, tanto per dire, dopo aver fatto pausa con un altro libro molto bello, ho cominciato “La tregua” che in pratica è il sequel di questo. Non so se ho fatto bene, penso di sì. 
Certo è che, già adesso, che ho letto solo un capitolo, una cosa mi è già saltata addosso. Manca l’urgenza. E’ la prima parola chiave del libro. Urgenza nel raccontare, nel dire, nel parlare, nel liberarsi parlando. Urgenza di far sapere agli altri, al mondo, che poi la vedete anche qui in questi disegni, e che, a quanto pare, non ha salvato Levi, forse morto suicida, ma secondo me… boh, non ci credo tanto. Dovrei leggere altre cose sue, e le leggerò.

Ma a fianco dell’urgenza, nel libro, c’è la meditazione e la freddezza. Io non so come ha fatto, o forse è proprio perché in quel periodo, nel 46 e 47, le forze per tornare a essere un uomo erano così poche che poteva tenere lontano da sè l’emotività. Perché credo sia questa una delle grandi doti del libri.

Ci racconta l’internamento per come è e per le piccole cose che sono tortura e vergogna.
Quasi vola veloce quando si tratta di parlarci di cumuli di cadaveri, di pestaggi, di uccisioni. Mentre si dilunga a spiegarci come fosse difficile vivere senza un cucchiaio, come fosse gratuitamente crudele fare prendere ai prigionieri una scarpa sola, anziché un paio, e in fretta e guai a sbagliare numero, che senza scarpe si moriva, che provate voi a lavorare camminando nella neve per un giorno.
Ci sono pezzi, nel libro, in cui si definiscono concetti sociologici in modo sorprendente. Davvero… Ve ne voglio lasciare uno. Avete presente, per dire, la scala dei bisogni di Maslow? Ecco… ora vado a cercarvi un pezzo e vi faccio leggere. Il capitolo si intitola “Una buona giornata

La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice.

Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta. Al mattino, quando, in fila in piazza dell’Appello, aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è ancor buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri; oggi un po’ più caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.
Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori dell’orizzonte di fango. E un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole.
— Das Schlimmste ist voruber, — dice Ziegler tendendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato. Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno prevalso, nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che cosa è il campo; ora stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene.
Felicio il greco mi conosce: — L’année prochaine a la maison! — mi grida; ed aggiunge: —… a la maison par la Cheminée! — Felicio è stato a Birkenau. E continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza, e si ubriacano di canzoni.
Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il campanile dì Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.
Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde.
La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi.
La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.
[…]
Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo Funl’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorride. Se non fosse della fame!
Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui così spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si da un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.
Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, così oggi diciamo: «Se non fosse della fame!…».
Ma come si potrebbe pensare di non aver fame? Il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente.

Al di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida, e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave, e ricomincia.
Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle floscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga.
Sigi ha diciassette anni, ed ha più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato. Aveva cominciato col parlare della sua casa di Vienna e di sua madre, ma poi è scivolato nel tema della cucina, e ora racconta senza fine di non so che pranzo nuziale, e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli. E tutti lo fanno tacere, e non passano dieci minuti, che Bela ci descrive la sua campagna ungherese, e i campi di granoturco, e una ricetta per fare la polenta dolce, con la meliga tostata, e il lardo, e le spezie, e… e viene maledetto, insultato, e comincia un terzo a raccontare…
Come è debole la nostra carne! Io mi rendo conto appieno di quanto siano vane queste fantasie di fame, ma non mi posso sottrarre alla legge comune, e mi danza davanti agli occhi la pasta asciutta che avevamo appena cucinata, Vanda, Luciana, Franco ed io, in Italia al campo di smistamento, quando ci è giunta a un tratto la notizia che all’indomani saremmo partiti per venire qui; e stavamo mangiandola (era così buona, gialla, solida) e abbiamo smesso, noi sciocchi, noi insensati: se avessimo saputo! E se ci dovesse succedere un’altra volta… Assurdo; se una cosa è certa al mondo, è bene questa: che non ci succederà un’altra volta.

Lo so, lo so, è lungo, ma saltatelo pure. Volevo solo condividere con voi una cosa bella. Letterariamente bella, intendo. Io lo trovo un gran pezzo, davvero. 
Ma non il migliore, comunque. Il migliore è più avanti, ed è quasi un’analisi umana, secca, molto chiara, con tanto di esempi chiarificatori. Una analisi di come si può suddividere il mondo degli umani, quando un esperimento come quello del lager viene effettuato. Tra l’altro, il titolo del capitolo è’ quanto mai icastico, tanto da essere poi ripreso da Levi per il suo saggio successivo, a tema di campi di concentramento.
Ah, già, perché non è mica che penserete che Levi abbia scritto solo roba di ebrei e tedeschi? No, macché. Ha scritto altri libri, anche racconti. Ne ho letto uno, per ora, credo tratto da un suo testo dove trattava il tema della fabbrica. Bello. 
Mi piacque. Infatti sono curioso di conoscere il Levi narratore breve. Lo farò. Ma vi stavo dicendo del titolo del capitolo: I sommersi e i salvati.
Ve lo scanno, almeno un pezzo, e anche se so che ne uscirà un post lungherrimo, pace, amen. Sopporterete. Tra l’altro, in questo capitolo, dopo aver descritto la categoria dei sommersi e quella di quelli che, in qualche modo, si salvano, vengono descritti tre individui, e uno di essi, un nano, è una figura meravigliosa, che non può non rimanervi impressa. Un personaggio da film, un freak, qualcosa che nella realtà sarebbe reietto e sconfitto, ma nel lager è chi invece ha le più ampie possibilità di uscirne, di esserne salvato. Dai, basta chiacchiere, eccovi il pezzo

Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria.

A questa domanda ci sentiamo di rispondere affermativamente. Noi siamo infatti persuasi che nessuna umana esperienza sia vuota di senso e indegna di analisi, e che anzi valori fondamentali, anche se non sempre positivi, si possano trarre da questo particolare mondo di cui nar-riamoì Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale.

Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.

Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo «Hàftling» non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio.

Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse.

Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune; in questa non accade spesso che un uomo si perda, perché normalmente l’uomo non è solo, e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza limiti in potenza, o discenda con continuità di sconfìtta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede di solito riserve tali, spirituali, fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale, che è legge interna; viene infatti considerato tanto più civile un paese, quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente.

Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo. Se un qualunque Null Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un «mussulmano» di più si trascini ogni giorno al lavoro; e se qualcuno, con un miscuglio di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento; diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a sopravvivere.

Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora quasi camerateschi, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità. Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero quello che mangiavano a casa loro. Tanto meno vale la pena di farsene degli amici, perché non hanno in campo conoscenze illustri, non mangiano niente extra-razione, non lavorano in Kommandos vantaggiosi e non conoscono nessun modo segreto di organizzare. E infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana non ne rimatrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno.

Il risultato di questo spietato processo di selezione naturale si sarebbe potuto leggere nelle statistiche del movimento dei Lager. Ad Auschwitz, nell’anno 1944, dei vecchi prigionieri ebrei (degli altri non diremo qui, che altre erano le loro condizioni), «Ideine Nummer», piccoli numeri inferiori al centocinquantamila, poche centinaia sopravvivevano; nessuno di questi era un comune Hàftling, vegetante nei comuni Kommandos e pago della normale razione. Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del campo; inoltre individui particolarmente spieiati, vigorosi e inumani, insediatisi (in seguito a investitura da parte del comando delle SS, che in tale scelta dimostravano di possedere una satanica conoscenza umana) nelle cariche di Kapo, di Blockàltester, o altre; e infine coloro che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte dei potenti del campo. Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini! ) finisce in breve mussulma-no. Una terza via esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento.

Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mus-sulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro, vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Muselmànner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla.

Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.

Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate.

Ecco… è lungo anche questo, ma è davvero un pezzo che merita essere letto, anche da chi non ha intenzione di leggersi il libro, e quindi, se lo fate, vi fa bene.
Poi?
Poi niente… io direi che si potrebbero dire migliaia di cose, ma che forse si possono anche non dire. “Se questo è un uomo” è tante cose. Pur essendo una autobiografia è, in ogni caso, un romanzo. Un bel romanzo, con una costruzione che non sarà narrativamente perfetta, ma che nonostante tutto è buona, accattivante, e anche se fosse stato scritto dopo, con più mestieri, non sarebbe migliorati di molto. Poi ovvio, ha il vantaggio competitivo di un nucleo narrativo reale unico e terribile, ma a poco val vivere le cose se non sai raccontare il come. E Levi è un gran narratore, e non so perché viene forse considerato meno, dalle scuole. Dovrebbe stare nelle antologie al pari dei grandi del Novecento. Forse gli gioca contro proprio quel suo essere romanzo cardine della letteratura sull’olocausto, che essendo vastissima quasi ne sminuisce (italicamente) il valore. Einaudi, per dire, lo rifiutò due volte prima di pubblicarlo. Vabbè… non ci pensiamo. L’ho letto e ne sono iper contento. Anche se vi posso confessare che ho faticato, in certe pagine, non parlo di sensibilità, non lo sono, su certe cose, parlo di densità. Prendete le pagine che vi ho scannato là sopra. Pensate di leggerle in un giorno solo? Io no. Due tre pagine di quello spessore bastano per la giornata, per riempirti la testa, e non hai spazio per leggere ancora. Puoi farlo, ma è uno spreco, ti scivolano addosso, quelle in più, sul mare ghiacciato di pensieri che ti hanno regalato le prime. E’ un gran pregio, secondo me.
E’ tutto, dai… Spero di aver scritto un bel post, ché questo libro se lo merita.

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