"Don Giovanni di Sicilia" di Vitaliano Brancati****

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"Don Giovanni di Sicilia" di Vitaliano Brancati****

Capita di scoprire delle cose belle… E io ve ne voglio fare scoprire una anche a voi, così: leggete queste righe:

Quando il cielo di Catania è fosco di scirocco, la luna vi si stempera come un’arancia disfatta; una polvere appena appena luminosa avvolge gli uomini e gli edifici, e l’intero universo sembra disegnato su un vetro sporco. Allora, se in una terrazza si svolge un ballo di gala, non c’è abito né gioiello che riesca a scintillare, e i visi cerei delle ragazze sono coperti di sonno.
Bandiera di questa città, che non sa più combattere la noia e la sonnolenza, e si arrende alle mosche e alle zanzare, per scacciare le quali nessuno ha la forza di levare una mano, ecco un lenzuolo bianco, che pende floscio da un alto torrino, ove, il giorno avanti, fu steso ad asciugare.
Ma quando il vento del settentrione, carico dei freschi odori della montagna, fuga e spazza le nebbie notturne, oh, allora, la luna estiva di Catania è più forte che non sia il sole di Germania nel pieno mezzogiorno.
Una luce purissima fa scintillare tutto quanto si muove, dallo specchio, che viaggia sopra un carro, al più piccolo verme che striscia nel fondo della polvere. Sulle imposte chiuse, colui che dorme vede appiccarsi un fuoco bianco, capace di fondere la pietra sebbene così silenzioso e privo di calore, e fin nella sotterranea dispensa, ove non è mai scesa altra luce che quella di una candela, il formaggio muffito e l’uva passa si affacciano piano piano alla vista in un leggerissimo albore di argento filtrato dalle mura e dai pavimenti. Anche le mosche, uscendo dalla finestra, brillano nell’aria, non più nere, ma bianche come perle.
Se, in una di queste notti, si svolge un ballo modesto entro un cortile, fra povera gente che ha messo fuori dell’uscio le panchette, gli occhi delle ragazze paiono fatti di una materia incorruttibile e destinati a scintillare nei secoli; le galline, accovacciate sulle scale a pioli, somigliano ai pavoni; le colombe, sulle tegole, ai cigni; il fango del cortile al velluto, e le vesti di scatarzo a veli preziosi. Il mondo cambia di qualità; il pregio delle cose sale a dismisura; e il passante, battendo con la punta del bastone un vecchio muro, può farne rotolare un sassolino che starebbe a meraviglia anche nel triregno di un papa.
Come il contadino, che da tanti anni accumula il suo denaro per acquistare un bel cavallo, giunto ad una fiera, e vedendo i più bei cavalli del mondo, decide che il suo denaro lo spenderà tutto qui, così gli uomini di Catania, che da tanti anni non fanno nulla e non godono nulla, confortati dal pensiero che essi risparmino le piccole occasioni per una migliore, giunti a una notte di luna di tale splendore, gridano, in cuor loro, che questa è la volta di spendere, senza rimorsi, tutta la propria vita! Ma come, dove, in che? Ed errano, scintillando dai bottoni, nel fulgore lunare, mai paghi di camminare alla ricerca di un minimo pretesto per commettere una follia. Gli scapoli caparbi, che hanno rifiutato la mano di ricche e nobili Eleonore ed Elene, sposerebbero, questa notte, la prima Agatina che trasparisse dai vetri di una casa a pianterreno. Gli avari, che hanno conservato nel corpo le pietre più dolorose, per non pagare il chirurgo, ora spenderebbero mille lire per vedere un ubriaco saltare su un solo piede o una guardia municipale affacciarsi in mutande al balcone.
Coloro che hanno paura dei viaggi, e la cui unica valigia è ormai trasformata in un’angoliera, che non si può sottrarre al salotto senza farne cadere uno specchio e spegnere la luce, ora entrerebbero, sguazzando coi piedi, in una barca, che, pur facendo acqua, li portasse in Egitto.
Quello che succede agl’innamorati in una notte simile, rimane un mistero, perché la tacita luna insegna ad essi soli un silenzio profondo come quello in cui naviga da millenni; ma chi guarda la loro mano, al mattino, vi trova, ancora rossa, la traccia dei denti (parecchie volte durante la notte, per non gridare di delizia e di sconforto, essi si sono morsi).
Giovanni Percolla ebbe in sorte questa luna in un momento tanto delicato della vita. Naturalmente, le sue smanie crebbero. E crebbero a tal punto che l’occhio bieco del servitore si storceva, al mattino, davanti al viso, marcio d’insonnia, del padrone; si storceva e contorceva, quasi volendo accogliere la pietà. Giovanni non dormiva un solo istante durante la notte; egli riposava due o tre minuti ogni mezz’ora, seduto e anche in piedi, abbassando le palpebre come un cavallo al sole.

Non è meraviglioso? No, suvvia. Non è una bellissima fusione di lingua, stile, emozione, vissuto, descrizione di luoghi interni e di paesaggio? Non la vorreste, voi, una luna così? Viverla, o trovarla, o vederla soltanto? Non so… forse sono io che mi faccio trascinare dalla meraviglia e vedo bellezza come un fiume vede il mare, ma resta che quando sono arrivato a queste righe, che sono l’inizio del capitolo VII, di questo Don Giovanni in Sicilia, di Vitaliano Brancati, be’… sono rimasto di sasso. 
Uh, che belle. Ma cazzo che bel passaggio! 
E ora che le ho rilette, per lasciarvele, le ho ritrovate altrettanto belle, anzi, di più, perché dopo che, una settimana fa o più, ho finito il libro, che mi ha soddisfatto assai, ecco, insomma, so anche di quell’innamoramento cieco e lunare di Giovanni, per Ninetta, figlio di una luna così, che porta alla pazzia d’amore, diciamo. Bene… ora io vado a strafogarmi di cibo, che è una cosa che mi mette molto in sintonia con questo libro, ché fa molto Giovanni Percolla, il protagonista, che nulla ha a che vedere con il Don Giovanni storico, se non il nome, e l’inenarrabile passione per la donna (ma non andrei molto lontano dalla giustezza se avessi scritto “figa”, visto che questa passione, prima di questo innamoramento, è molto carnale, anche se mai con successo ottenuta, se non pagando)
E quindi boh… a dopo. Mentre aspettate potete rileggervi il pezzo, che vi ho lasciato. 🙂
Eccomi qua. Mangiato troppo, tentato pure di fare una corsa, che c’era una luna sorridente e un tramonto aranciato che correva sotto i fili dell’alta tensione e io che poco ci mancava mi cagassi addosso, che correre con ‘sto freddo e dopo mangiato non è mai una buona scelta e insomma, dopo una doccia un caffè una forchettata di ricotta fresca e due cioccolatini e venti minuti a nudeggiare nel letto col coccolo e il libro di Silone ecco, voglio finire di parlarvi di questo piccolo gioiello.
Facciamola breve, per la trama.
Siamo a Catania, avete capito, e io non avevo troppa voglia, inizialmente, di decicarmi a questo libro della collana dei classici del Novecento di Repubblica che sto via via raccogliendo, non perché non mi ispirasse, anzi, mi ispirava assai, essendo corto, ma perché ero appena uscito dal bellerrimo A ciascuno il suo, di Sciascia, e volevo staccare.
E infatti ho staccato con Scerbanenco, che mi è piaciuto un sacchissimo, e poi, dopo essere andato al nord, ecco che sono tornato qua, nella Trinacria.
Una Sicilia diversissima, da quella sciasciana (lo sapevate, che ci sarei ricascato, nell’aggettivazione, è più forte di me, la tentazione di dire sciasciano 🙂 perché all’apparenza questo sembra un libro molto meno impegnato, molto meno sociale, riguardo ai temi.
Eppure,,, eppure è degli anni ’40 (1941, prima pubblicazione), ed è scritto da un autore che è stato inizialmente fascista – con tanto di ricevimento giovanile dal duce – e poi, invece, fortemente antifascista, quando ha preso le distanza da. E allora ti chiedi se forse, questa sua collateralità, questo suo evitare i temi storici e politici, non sia solo una facciata, se questa figura di Percolla Giovanni, protagonista e fulcro dell’opera, non sia qualcosa di più, che un latin lover decadente e mammone.
Ma aspettate, vi dico un po’ di trama (e vi prego, non andatevi a leggere la quarta l’aletta, se per caso vi capita fra le mani questa versione, che svela troppo e pure in modo arbitrario e fallace).
Giovanni, e i suoi amici, Scannapieco e Muscarà soprattutto, amano e bramano la donna. La donna nella sua essenza, essere e corpo, tanto da riempire tutto il tempo delle loro discussioni di quest’essere detentrice di patata. Che non toccano, o toccano solo pagando, ben si badi, che non conoscono come innamorati, ma come fan sfegatati, mettiamola così.
Sono quelli che sbirciano sulla spiaggia per ore le donzelle per scorgere un lembo di carne in più, o elucubrano per ore su cosa farebbero a tizia e caia, perdendosi in fantasie folli e sconclusionate, che vanno a perdersi nel fumo delle loro sigarette, spesso proprio a casa del Percolla.
E insomma… tutto fila così, fino ai 40anni di Giovanni, che li trascorre non facendo un emerito cazzo, fingendo di lavorare, mangiando come maiale, ronfando ogni pomeriggio, parlando di donne, e facendosi tutt’al più, manodopera personale. Insomma… penserete, detta così, a uno sfigato, e invece, vi dirò, che c’è davvero della poesia, a tratti del rispetto, per la donna femmina, per la donna carne, per l’oggetto dei desideri che dà un senso a tutto.
Poi arriva lei, Ninetta, e prende l’iniziativa. E Percolla s’imborghesisce, non capisce più niente, è timido peggio che uno yeti e non riesce a spiccicar parola in presenza dell’amata, che per fortuna si dimostra donna di polso e fa tutto lei. Fino al matrimonio, fino a portarlo a Milano.
Qui, lui cambia, e in mezzo a passaggi ironici e spietati, che prendono in giro tanto gli isolani, tanto i continentali, che giocano sul contrasto e strappano più di qualche risata (a denti stretti, of course) ecco che la metamorfosi si compie.
Bene… questa la trama. Scritta, soprattutto nella seconda parte, con picchi di divinità letteraria come quelli là sopra, che avete letto. 
E così, insomma, mi continuo a chiedere se non vi sia una lettura più profonda, più simbolica, per questo personaggio, questo Percolla, pigro, mammone, svogliato, arrogante a tratti, rurale e gretto, ma anche elegantemente introverso, timido, non stupido, e dotato di slanci e volontà, se proprio vuole, e che, spesso, fa tenerezza.
Che sia solo un Don Giovanni in Sicilia, quello che ci vuole presentare il libro?
Non lo so, e vi dirò, non lo voglio sapere. Il libro va goduto per quei momenti spassosi ed esilaranti, ma che non fanno mai ridere, ma solo sorridere, e benché sia a tratti lessicalmente impegnativo, con una forma che è a volte pomposa e complessa, più da Ottocento, che Novecento, ecco, resta che qualche fatica la si fa solo all’inizio, e poi no, si vola. Bellissima, per dire, la parte dove Giovanni conosce i suoi amici nuovi, letterati, scrittori, gente di cultura della Milano bene, con le donne che invece son troiette e lui che, quando apre bocca e parla come uno del secolo scorso, (paesano, rurale, coloratissimo, vero) viene praticamente preso d’assalto… e fatica a non volere e respingere quello che fino a pochi anni prima bramava.
Insomma… la faccio finita… no, no, che avete capito, quello più avanti, intendevo con la recinzione. Mi è piaciuto, questo libro, e non è escluso che – prima o poi – possa capitarmi per le mani il bell’Antonio, la sua opera più celebre. Tra l’altro, è pure morto giovano, il Brancati, per sfiga, più che altro, con un’operazione mal riuscita, e per altro, se volete, io non lo ricordo, ma c’è pure il film, con Lando Buzzanca, se non erro, che in effetti ce lo vedo proprio bene nei panni di questo amatore siciliano. Che altro dirvi? Non so… Il mio consiglio, se vi capita di affrontarlo, è di non badare all’inizio, forse un po’ farraginoso,e meno vivace, ma andare a avanti, ché dal capitolo che vi ho messo in poi è tutta goduria. Vi posso dire di non pensare a chissà quali sotterfugi simbolici: è un libro da godere, e sembra essere un buonissimo modo per dire che si può fare altissima letteratura anche parlando di una storia del caz. 

E ora torno a pensare alle mie storie, che oggi voglio scrivere pure io.

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