“La prima sorsata di birra…” di Philippe Delerm***
È l’unica che conta. Le altre, sempre più lunghe, sempre più insignificanti, danno solo un appesantimento tiepido, un’abbondanza sprecata. L’ultima, forse, riacquista, con la delusione di finire, una parvenza di potere…
Ma la prima sorsata! Comincia ben prima di averla inghiottita. Già sulle labbra un oro spumeggiante, frescura amplificata dalla schiuma, poi lentamente sul palato beatitudine velata di amarezza. Come sembra lunga, la prima sorsata. La beviamo subito, con un’avidità falsamente istintiva. Di fatto, tutto sta scritto: la quantità, né troppa né troppo poca che è l’avvio ideale; il benessere immediato sottolineato da un sospiro, uno schioccar della lingua, o un silenzio altrettanto eloquente; la sensazione ingannevole di un piacere che sboccia all’infinito… Intanto, già lo sappiamo. Abbiamo preso il meglio. Riappoggiamo il bicchiere, lo allontaniamo un po’ sul sottobicchiere di materiale assorbente. Assaporiamo il colore, finto miele, sole freddo. Con tutto un rituale di circospezione e di attesa, vorremmo dominare il miracolo appena avvenuto e già svanito. Leggiamo soddisfatti sulla parete di vetro il nome esatto della birra che avevamo chiesto. Ma contenente e contenuto possono interrogarsi, rispondersi tra loro, niente si riprodurrà più. Ci piacerebbe conservare il segreto dell’oro puro e racchiuderlo in formule. Invece, davanti al tavolino bianco chiazzato di sole, l’alchimista geloso salva solo le apparenze e beve sempre più birra con sempre meno gioia. È un piacere amaro: si beve per dimenticare la prima sorsata.
È inverno per sempre, nell’acqua delle bocce di vetro. Ne prendiamo in mano una. La neve fiocca al rallentatore, in un turbinio che parte dal suolo, prima opaco, evanescente, poi i fiocchi si diradano, il ciclo turchese riacquista la sua fissità malinconica. Gli ultimi uccelli di carta rimangono sospesi qualche secondo prima di cadere. Una pigrizia ovattata li invita a raggiungere il suolo. Riappoggiamo la boccia. È cambiato qualcosa. Nell’apparente immobilità dello scenario, ormai si sente come un richiamo. Tutte le bocce sono simili. Un fondale marino popolato di pesci e di alghe, la torre Eiffel, Manhattan, un pappagallo, un paesaggio montano o un ricordo di Saint-Michel, la neve danza e poi pian pianino smette di danzare, si dirada, si spegne. Prima del ballo invernale non c’era niente. Dopo… sull’Empire State Building è rimasto un fiocco, ricordo impalpabile che l’acqua dei giorni non cancella. Qui il suolo rimane cosparso dei petali leggeri della memoria.
Le bocce di vetro ricordano. Sognano in silenzio la tormenta, il vento glaciale che forse tornerà o forse no. Spesso resteranno sullo scaffale; e noi dimenticheremo tutta la gioia che possiamo far nevicare tra le mani chiuse, lo strano potere di risvegliare il lungo sonno di vetro.Dentro, l’aria è acqua. All’inizio non ci pensiamo. Ma a guardar bene, sulla sommità c’è sempre una bollicina. Lo sguardo cambia. Non si vede più la torre Eiffel in un ciclo azzurro di aprile, la fregata veleggiante sul mare calmo. Tutto diventa di una pesante chiarezza; dietro il vetro, galleggiano correnti in cima alle torri. Regni di grandi solitudini, meandri lenti, impercettibili movimenti nel silenzio fluido. Il fondo è dipinto di azzurro latte fino al soffitto, al ciclo, alla superficie. Azzurro di una dolcezza fittizia che non esiste e la cui beatitudine alla fine rende inquieti come il presentimento di un trabocchetto del destino in un primo pomeriggio oppresso di siesta e di assenza. Prendiamo il mondo tra le mani, la boccia presto è quasi calda. Un turbinio di fiocchi cancella di colpo l’angoscia latente delle correnti. Nevica dentro di noi, in un inverno inaccessibile dove la leggerezza vince la pesantezza. È dolce la neve in fondo all’acqua.
Si torna sempre nello stesso posto, lungo la stradina, al limitare del bosco. Ogni anno i rovi diventano più fitti, più impenetrabili. Le foglie sono di un verde opaco, profondo, i gambi ele spine di una sfumatura vinaccia che richiama i colori della carta vergata con cui si ricoprono libri e quaderni […]
Sono piccole, le more, di un nero brillante. Ma cogliendole preferiamo gustare quelle che hanno ancora qualche granello rosso, un sapore acidulo. Le mani si macchiano presto di nero, ce le puliamo in qualche modo sull’erba bionda. Sul limitare del bosco le felci si fanno rossicce, e pendono ricurve sopra perle violette di erica. Si parla del più e del meno. […]Abbiamo colto le more, abbiamo colto l’estate. Alla curva dei nocciòli, andiamo erso l’autunno.