“La prima sorsata di birra…” di Philippe Delerm***

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“La prima sorsata di birra…” di Philippe Delerm***

C’era una volta, su radio 2, Dispenser, un dispensatore automatico di stimoli quotidiani. Era una trasmissione bellissima, tra le migliori, credo, che possano essere esistite in radio. L’ascoltavo poco, ma quando mi capitava, non me ne staccavo.
Inutile che andiate a cercare d’ascoltarla ancora, non va più in onda dal luglio 2010. (mi pare si possano recuperare i podcast, però)
Per conto mio, aveva una grande qualità, oltre a quelle normali. Spartiva bellezza. E a volte la creava. Matteo Bordone e in generale il modo con cui erano montati i servizi, come piccole pastiglie, riuscivano a fissare indelebilmente alcune cose nella corteccia cerebrale di chi ascoltava, se eri interessato.
Dispensava musica, letture, iniziative, stranezze di ogni genere, e in generale un mix fra le parole cultura, odd, weird e beauty.
Ecco. Alcuni libri, io li conosco per una puntata, pochi minuti, una lettura ispirata, dedicata da dispenser. Anche dopo anni, me li ricordo, e se li vedo, li considero.
E questo primo successo di Philippe Delerm (che poi ha scritto una valangata di cose), forse in italia sarebbe stato un po’ meno successo se non ci fosse stato dispenser.
Ecco perché quando mi è capitato sotto mano l’ho subito rubato e messo nella biblioteca di scuola, non perché penso sia utile ai ragazzi – in realtà è molto ben scritto, ma non è quello che mi interessava – quanto perché ho pensato che quando volevo prendere un libro a caso, avendo magari uno o due minuti liberi, mi faceva comodo averne uno dove i pezzi durano una o due pagine. Al massimo tre.
La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita è proprio questo.
Un elenco di momenti felici, descritti in modo poetico, romantico, direi, a volte azzeccati e a volte un po’ meno condivisibili, ma in generale quasi tutti leggibili senza fastidio.
Mi sembra doveroso, per cominciare e farvi capire, lasciarvi un esempio di come questo libro tratta i momenti di felicità (non trascurabile, come nel libro di Piccolo, che è molto simile a questo). Vi lascio quello che dà il titolo al libro, e che per me è e resta abbastanza vero, anche se non condivido la grande perdita di utilità dopo la prima sorsata, se proprio hai sete, e se le condizioni ambientali sono giuste. Tipo ieri notte, per dire, che era l’una, e sono andato nell’altra casa a bagnare i peperoni, che non mi stanno nascendo, e a lavare due piatti, che avevano il pelo lungo sennò, e a buttare due ceci, e a vedere quando mi scadeva la pancetta, e insomma… dopo aver fatto tutto mi sono seduto sulla panca, e faceva fresco, e mi sono messo la birra, quella del Papa, la Franziskaner, nel bicchierone da birra e me la sono goduta tutta, altro che il primo sorso, che forse era troppo gelato, a dirla tutta, ma insomma… eccovi come lo descrive Delerm (io questo pezzo lo trovo molto riuscito): 

È l’unica che conta. Le altre, sempre più lunghe, sempre più insignificanti, danno solo un appesantimento tiepido, un’abbondanza sprecata. L’ultima, forse, riacquista, con la delusione di finire, una parvenza di potere…
Ma la prima sorsata! Comincia ben prima di averla inghiottita. Già sulle labbra un oro spumeggiante, frescura amplificata dalla schiuma, poi lentamente sul palato beatitudine velata di amarezza. Come sembra lunga, la prima sorsata. La beviamo subito, con un’avidità falsamente istintiva. Di fatto, tutto sta scritto: la quantità, né troppa né troppo poca che è l’avvio ideale; il benessere immediato sottolineato da un sospiro, uno schioccar della lingua, o un silenzio altrettanto eloquente; la sensazione ingannevole di un piacere che sboccia all’infinito… Intanto, già lo sappiamo. Abbiamo preso il meglio. Riappoggiamo il bicchiere, lo allontaniamo un po’ sul sottobicchiere di materiale assorbente. Assaporiamo il colore, finto miele, sole freddo. Con tutto un rituale di circospezione e di attesa, vorremmo dominare il miracolo appena avvenuto e già svanito. Leggiamo soddisfatti sulla parete di vetro il nome esatto della birra che avevamo chiesto. Ma contenente e contenuto possono interrogarsi, rispondersi tra loro, niente si riprodurrà più. Ci piacerebbe conservare il segreto dell’oro puro e racchiuderlo in formule. Invece, davanti al tavolino bianco chiazzato di sole, l’alchimista geloso salva solo le apparenze e beve sempre più birra con sempre meno gioia. È un piacere amaro: si beve per dimenticare la prima sorsata.

Vi voglio poi lasciare un altro pezzo non tanto per me ma per Elisa, che mi è venuta in mente lei, quando l’ho letto, con la sua collezione imperfette di neve in bolla di vetro, che poi, pure mia mamma, che fa collezione di presepi, ne ha tantissimi, di questi soprammobili che ci danno la gioia del’incanto. Eccovelo qua, ve lo copio.
È inverno per sempre, nell’acqua delle bocce di vetro. Ne prendiamo in mano una. La neve fiocca al rallentatore, in un turbinio che parte dal suolo, prima opaco, evanescente, poi i fiocchi si diradano, il ciclo turchese riacquista la sua fissità malinconica. Gli ultimi uccelli di carta rimangono sospesi qualche secondo prima di cadere. Una pigrizia ovattata li invita a raggiungere il suolo. Riappoggiamo la boccia. È cambiato qualcosa. Nell’apparente immobilità dello scenario, ormai si sente come un richiamo. Tutte le bocce sono simili. Un fondale marino popolato di pesci e di alghe, la torre Eiffel, Manhattan, un pappagallo, un paesaggio montano o un ricordo di Saint-Michel, la neve danza e poi pian pianino smette di danzare, si dirada, si spegne. Prima del ballo invernale non c’era niente. Dopo… sull’Empire State Building è rimasto un fiocco, ricordo impalpabile che l’acqua dei giorni non cancella. Qui il suolo rimane cosparso dei petali leggeri della memoria.

Le bocce di vetro ricordano. Sognano in silenzio la tormenta, il vento glaciale che forse tornerà o forse no. Spesso resteranno sullo scaffale; e noi dimenticheremo tutta la gioia che possiamo far nevicare tra le mani chiuse, lo strano potere di risvegliare il lungo sonno di vetro.
Dentro, l’aria è acqua. All’inizio non ci pensiamo. Ma a guardar bene, sulla sommità c’è sempre una bollicina. Lo sguardo cambia. Non si vede più la torre Eiffel in un ciclo azzurro di aprile, la fregata veleggiante sul mare calmo. Tutto diventa di una pesante chiarezza; dietro il vetro, galleggiano correnti in cima alle torri. Regni di grandi solitudini, meandri lenti, impercettibili movimenti nel silenzio fluido. Il fondo è dipinto di azzurro latte fino al soffitto, al ciclo, alla superficie. Azzurro di una dolcezza fittizia che non esiste e la cui beatitudine alla fine rende inquieti come il presentimento di un trabocchetto del destino in un primo pomeriggio oppresso di siesta e di assenza. Prendiamo il mondo tra le mani, la boccia presto è quasi calda. Un turbinio di fiocchi cancella di colpo l’angoscia latente delle correnti. Nevica dentro di noi, in un inverno inaccessibile dove la leggerezza vince la pesantezza. È dolce la neve in fondo all’acqua.

Poi come libro, che vi devo dire, che non tutti i pezzi, visto che sono passati decenni, sono attuali, anzi, qualcuno è proprio datato e lo leggi sapendo che quel piccolo piacere della vita non ha più senso o è stato sostituito da altro. Come difetto, almeno per me, c’è che ho notato un certo manierismo, nelle descrizioni, un voler descrivere in modo bello, più che descrivere il bello. E okay, ci può stare, ma nel momento in cui si cercava la bella frase, il bel lessico, la romanticheria forzata, ecco, il concetto però veniva meno, sembrava meno sincero. E’ successo poche volte però, perché in linea di massima è stata una lettura piacevole, anche se non mi resterà un segno indelebile, visto che i piaceri sono piuttosto soggettivi. E tra l’altro, qui, ve n’è alcuni molto francesi (croassaint, per esempio, o il metrò a Montparnasse)
E infatti la chiudo qua… anzi no, visto che ho ancora il libro sottomano, vado a sfogliare e vi cerco un piacere che condivido, e mi è piaciuto… trovato! Andare per more, si intitola, e io per more ci vado, ci faccio le marmellate e a volte pure le caipirine, che son cose galattiche.
Si torna sempre nello stesso posto, lungo la stradina, al limitare del bosco. Ogni anno i rovi diventano più fitti, più impenetrabili. Le foglie sono di un verde opaco, profondo, i gambi ele spine di una sfumatura vinaccia che richiama i colori della carta vergata con cui si ricoprono libri e quaderni […]

Sono piccole, le more, di un nero brillante. Ma cogliendole preferiamo gustare quelle che hanno ancora qualche granello rosso, un sapore acidulo. Le mani si macchiano presto di nero, ce le puliamo in qualche modo sull’erba bionda.  Sul limitare del bosco le felci si fanno rossicce, e pendono ricurve sopra perle violette di erica. Si parla del più e del meno. […]
Abbiamo colto le more, abbiamo colto l’estate. Alla curva dei nocciòli, andiamo erso l’autunno.

bene. è tutto… ah, magari volete sapere quali sono questi piaceri della vita… vi saluto elencandovene alcuni. Un coltello in tasca, sgranare i piselli, odore delle mele, rumore della dinamo, autostrada di notte, croissant per strada, prendere un porto, un romanzo della Christie, il caleidoscopio, bocce per neofiti, bagnarsi le espadrillas, tour de france, leggere sulla spiaggia… 35 in tutto. E io vedrò di mettere in pratica – tra un’ora – il “fare una corsa davanti al mare e poi fermarsi a bere e mettere i piedi dentro l’acqua e farli gelare”. E magari mi riesco a leggere un racconto di Montague che da tanto spero di. 

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