"Momenti di trascurabile felicità" di Francesco Piccolo***

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"Momenti di trascurabile felicità" di Francesco Piccolo***

Questo è stato il mio libro del primo dell’anno.
No, non è perché Piccolo ha vinto lo Strega.
Non è nemmeno perché l’abbia comprato il 30 o 31, come succede. E non è nemmeno che me l’abbiano regalato con quello scopo. Semplicemente, il libro del primo dell’anno, non l’ho trovato.
Ho fatto un’oretta il 30, in Feltrinelli (ricordandomi perché non ci vado più e non ci compro più niente, non trovando mai niente da comprare), un’altra mezzora il 31 nella libreria di Pineta, sempre gradevole, visto che alla fine ci sarebbero stati molti più libri lì, da volere, che altrove.
Ma non ho trovato un libro piccolo, di dimensioni e pagine, e nemmeno di autore sconosciuto, che mi ispirasse, o insomma… non ho trovato quell’alchimia che cerco per scegliere il libro del primo dell’anno. E mi sono dovuto adattare.
(tra l’altro, vedevo solo libri PEM dappertutto)
Lo avevo rubato dal banco lib(e)ro, questo, qualche mese fa, e non perché pensassi che avrebbe vinto lo strega, ma perché mi ricordavo di un suo libro della Minimum fax che parlava di scrittori e scrittura, Scrivere è un tic, si intitolava, e mi piacque, allora, anni fa, quando ero sicuramente molto meno smaliziato, come lettore.
Ce l’ho ancora, là, vicino ai Carver, ma non vado a riprenderlo in mano. Semplicemente ne serbavo un buon ricordo, e mi pareva che avesse qualcosa da dire, l’autore, e così mi son detto, okay, son raccontini, pensierini, il libro è piccolo di nome e di fatto e allora… sia lui, il libri del primo dell’anno.
Non mi ha soddisfatto del tutto, ma alla fine, qualche cosa carina, dentro, l’ho trovata.
Diciamo che è un libro che si potrebbe, in certi frangenti, odiare, perché è, come dicono nella città d’adozione dell’autore, Roma, presentissima in questi piccoli pensieri, dicevo, è piacione.
Ti butta lì le cose come si aspettasse tu debba fare per forza ohhh, e ridere un pochino, con un riso accennato, di chi è stato colto in flagrante.
Altri frangenti però sono migliori, più veri, meno piacioni, meno qualunquisti. E lì riesci ad apprezzare, vorresti che non fosse autobiografico, anche se invece, la sensazione netta è che lo sia. Non è un problema, eh, intendiamoci, ma è un po’ come quando uno scrittore ti desrivere perfettamente qualcosa che non ha vissuto, e tu pensi, Wow. (pensa a quante altre cose belle potrebbe raccontarmi, questo qui) mentre se poi scopri che la cosa l’ha vissuta è bella lo stesso, chiaro, ma inconsciamente sai che non potrà – o sarà molto difficile – che te ne racconti altre allo stesso modo.
Ma a parte questo, direi che alla fine, non è stata poi una scelta sbagliata, questa, per un mio primo dell’anno insolito, non intimo e senza fine come il solito, il che lo ha reso di second’ordine. C’era il sole, bello, freddissimo, ma non avevo voglia.
Non avevo voglia di pensare a troppi buoni propositi, né di usare il solito giubbottone di pelle. E avevo i guanti, e il berretto, perché non avevo nemmeno voglia di prendere freddo. Credo l’unico pensiero degno l’ho fatto davanti a una grossa medusa. 
Mi veniva in mente la poesia di Baudelaire, quella famosa, sull’uccellaccio metafora del poeta, e pensavo che ha sbagliato tutto e che non è l’albatros, l’animale che doveva usare, ma la medusa. Okay… okay, fuori dall’acqua stan solo morte, o quasi, ma è molto più vivido il contrasto fra la loro bellezza ineffabile in acqua, e la poltiglia inutile che sono se gliela togli.
Ma di che stiamo parlando?
Ah sì, il libro di Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità, che è titolo e filo conduttore, nel senso che lui quello descrive, a volte con una frase, a volte che qualche pagina.
Il gioco sta nel trovare empatia con chi legge, con noi tutti, e qualche volta riesce, e qualche volta no.
Che ne so… il momento in cui dietro lo scaffale trovi un prodotto con la scadenza lontana, che avevano nascosto di proposito, o quello in cui in macchina, dietro le chiappe, non trovi un imbecille ma uno che capisce che hai messo la freccia per parcheggiare in retro e si ferma prima, ecco, questi li viviamo, sì, e sono anche i nostri, momenti di trascurabile felicità.
Ma poi ce ne solo altri che sembrano messi lì tanto per, gonfiati, sofisticati, piacioni appunto. Niente di male, eh, è letteratura, mica vita, ma questi lasciano un po’ meno il segno, dopo il sorriso.
Tipo questo, del retro copertina:
«Entro in un negozio di scarpe, perché ho visto delle scarpe che mi piacciono in vetrina. Le indico alla commessa, dico il mio numero, 46. Lei torna e dice: mi dispiace, non abbiamo il suo numero.

Poi aggiunge sempre: abbiamo il 41.
E mi guarda, in silenzio, perché vuole una risposta.
E io, una volta sola, vorrei dire: e va bene, mi dia il 41».

No, dico… pure io ho il piedone, ma queste commesse non le trovo. Punto. Anche perché ci litigherei, immagino, e poi perché mi pare che la maggior parte sia lì a lavorare e lo sappia fare, il proprio lavoro. Non la vivo, questa situazione, anche se mi fa ridere e magari la trovo anche riuscita, come battuta. Però fa più zelig, che letteratura. Mi ha ricordato Sedaris, in queste cose un po’ lapidarie.
Vediamo che invece ve ne piglio qualcuna più lunga, per darvi un’idea e farvi leggere qualcosa.
Ecco, tipo questo, sul telecomando che si scarica.
Quando si scaricano le pile del telecomando, rimango per giorni seduto sul divano con in mano il telecomando, proteso verso il televisore con il braccio steso, che arriva fin quasi davanti allo schermo, e con un dito che preme ripetutamente e a lungo sul tasto del canale che vorrei vedere, con il polso che esegue varie torsioni per riuscire a trovare la posizione giusta in cui possa far incontrare le ultime energie delle pile esauste con i raggi infrarossi dello schermo. Qualche volta, poi, è necessario sbattere il telecomando sull’altra mano o su un piano di buona durezza, per costringerlo a risvegliarsi. È un’operazione irrazionale, è chiaro, ma il fatto è che riesce, alla fine riesce sempre; e poiché riesce, i colpi violenti verranno ripetuti innumerevoli volte, e di più man mano che le pile andranno verso la morte.

«Domani, giuro, compro le pile», dico. Ma domani resterò là, sul mio divano, intento a colpire il tavolino con il telecomando.
C’è gente che ha un atteggiamento reattivo: esce immediatamente e va dal rivenditore più vicino con una pila vecchia per indicare il tipo e si fa dare le pile nuove; torna a casa e inserisce le pile nuove; e tutto continua come prima. Non li capisco proprio.

E già che ci sono, vi lascio anche alcuni gesti insensati:
Soffiare su un pezzo di pane caduto a terra e poi mangiarlo come se fosse stato ripulito.

Quando la luce si è fulminata e continui a premere l’interruttore guardando in su la lampadina, aspettando il miracolo; e anche quando il gas è finito e continui a provare ad accenderlo.
Lasciare la luce accesa in cucina o nell’ingresso, perché così i ladri credono che tu sia a casa e non vengono a rubare (anche se i ladri ormai useranno altri cri-teri, visto che tutti lasciano le luci accese quando escono; e poi chi ci può credere che una famiglia passa tutta la serata nell’ingresso?)
Cercare di sbrogliare i fili intricati con un paio di colpì di polso, sbattendoli insomma; poiché non succede nulla, un po’ mi meraviglio.

Anche se su quella dei ladri e della luce accesa, mi è venuto l’istinto di telefonargli e dargli dell’idiota, ché la luce si lascia per illuminare l’uscio, che se proprio entrano da lì, magari qualcuno li vede. In ogni caso, avete capito dai… Finita qui.
133 pagine, di cui una decina bianche, di questi pensierini, e non valgono, questo no, i 12.50euri della copertina, quindi rubatelo come ho fatto io, nel caso. O ve lo do come libro prigioniero.
Che altro? Niente… guardatevi il mare, che fa bene.

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