
"Il grande Gatsby" di Francis S. Fitzgerald****
Dentro, la stanza cremisi splendeva di luce. Tom e la signorina Baker sedevano alle due estremità del lungo divano e lei gli leggeva forte il Saturday Evening Post: le parole sommesse e inespressive si confondevano insieme in un tono pacato. La luce della lampada, riflessa dagli stivali di lui e smorta sul giallofoglia d’autunno dei capelli di lei, faceva luccicare la carta quando la signorina Baker voltò la pagina con un fremito di muscoli snelli nelle braccia.
Quando entrammo, alzò una mano e ci fece tacere per un momento.
«Il seguito» disse, gettando il giornale sulla tavola «al prossimo numero.»
Il corpo le si impose con un movimento irrequieto del ginocchio e la fece alzare.
«Le dieci» disse con l’aria di legger l’ora sul soffitto.
A metà percorso tra West Egg e New York l’autostrada raggiunge bruscamente la ferrovia e la costeggia per quasi mezzo chilometro come per evitare una zona desolata. È la valle delle ceneri: una tenuta fantastica dove le ceneri crescono corrìe il frumento, creando alture e colline e giardini grotteschi; dove la cenere assume la forma di case coi camini e il fumo che ne esce, e infine, con uno sforzo di fantasia, di uomini grigio-cenere che si spostano confusamente e già in via di disfacimento nell’aria polverosa. Di quando in quando una fila di carri ferroviari grigi arriva strisciando su una rotaia invisibile, emette uno scricchiolio spettrale e si ferma; e subito gli uomini grigio-cenere sciamano con le vanghe di piombo, e sollevano una nube impenetrabile che nasconde le loro operazioni misteriose.
Ma sopra la terra grigia e sugli spasimi di polvere smorta che incessantemente vi viene sospinta, dopo un po’ si scorgono gli occhi del dottor T.J. Eckleburg.
Gli occhi del dottor T.J. Eckleburg sono azzurri e giganteschi: hanno una retina larga quasi un metro. Non guardano da un volto ma da un paio di enormi occhiali gialli, appoggiati su un naso inesistente. Qualche strambo oculista buontempone deve averli senza dubbio messi lì per aumentare la sua clientela nel sobborgo di Queens e poi è sprofondato nella cecità eterna o se n’è andato, dimenticandoli. Ma quegli occhi, un po’ sbiaditi da molti giorni trascorsi sotto il sole e la pioggia, senza una mano di vernice, continuavano a meditare sul solenne terreno pieno di rifiuti.
rratore che è stato scelto per raccontarcelo.
Un’ora dopo si aprì nervosamente il portone e Gatsby, vestito di flanella bianca, con la camicia color argento e la cravatta color oro, entrò di corsa. Era pallido e sotto gli occhi aveva i segni dell’insonnia.
«È tutto a posto?» chiese subito.
«L’erba è in ordine, se alludi a questo.»
«Che erba?» chiese assente. «Ah, l’erba nel giardino.» La guardò dalla finestra, ma a giudicare dalla sua espressione credo che non vedesse niente.
«Sembra molto bella» disse senza pensarci. «Un giornale ha detto che la pioggia sarebbe cessata verso le quattro. Credo che fosse il Journal. Hai tutto quello che ti occorre per il… il té?»
Lo condussi nella dispensa dove Gatsby guardò con lieve rimprovero la finlandese. Insieme esaminammo i dodici dolci al limone comprati in pasticceria.
«Vanno bene?» chiesi.
«Certo! Certo! Vanno benissimo!» E soggiunse con voce falsa: «… vecchio mio».
Verso le tre e mezzo la pioggia si trasformò in una nebbia umida nella quale vagava di quando in quando come rugiada qualche goccia sottile. Gatsby scorreva con occhio assente una copia dell’Economics, sussultando al passo della finlandese che faceva vibrare il pavimento della cucina e sbirciando di quando in quando dalle finestre appannate come se fuori stessero avvenendo fatti invisibili ma preoccupanti. Alla fine si alzò e mi disse con voce incerta che andava a casa.
«Ma perché?»
«Non verrà nessuno per il té. È troppo tardi!» Guardò l’orologio come se qualcosa di urgente lo reclamasse altrove. «Non posso aspettare tutto il giorno.»
«Non far lo stupido; mancano due minuti alle quattro.» Sedette con aria infelice, come se lo costringessi io a farlo, e contemporaneamente si udì il rumore di una macchina che svoltava nel mio viale. Balzammo tutti e due in piedi e, un po’ nervoso anch’io, mi avviai verso la porta.
Ah, un ultimo consiglio. Se proprio dovete leggerlo, vi prego, leggetevi una copia di quelle curate dalla Fernanda, e non quelle uscito pro-film.
Gian DeSteja
Concordo. Capolavoro!
Iguana Jo
L'ho letto anch'io da poco (in originale, perché era gratis e perché non mi riuscivo a decidere su quale traduzione far cadere la scelta). E anch'io l'ho apprezzato parecchio, per motivi simili ai tuoi, mi pare.
Riguardo al film, ho deciso di dare una possibilità a quello con Redford, che in effetti nei panni di Gatsby ci stava proprio bene (anche se il film è troppo lungo, e noioso). Quello con Di Caprio lo devo ancora a vedere, che temo un po' l'esagerazione tipica di Luhrmann (che in effetti fanno il paio con quelle altrettanto tipiche – almeno ultimamente – del suo protagonista).
Bel post, btw.
Riccardo Sartori
A me invece non è piaciuto proprio per i motivi che citi tu.
L'ho trovato noioso e inutile.
Ti lascio la mia recensione negativa, occhio che io il finale l'ho raccontato, alla fine, e arriva quando meno te lo aspetti.
http://pensieriusati.wordpress.com/2013/05/25/il-grande-gatsby/
gelo stellato
si si, tranquillo, già la lessi la tua 🙂 la vediamo in modo diverso, mi pare buona cosa 😀
Riccardo Sartori
Lo so che tu l'hai già letta, ma gli altri non so…
Visto che c'ero mi sono spammato.
Così, per non sbagliare 😀