"Il grande Gatsby" di Francis S. Fitzgerald****

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"Il grande Gatsby" di Francis S. Fitzgerald****

Allora.
Volevo cominciare questa rece con delle frasi, dei pezzi. 
Me ne ricordavo almeno due, bellissime, verso trequarti libro. 
Solitamente le ritrovo. Magari non subito, ma non mi spiace, rileggere.
Non mi spiace anche quando il libro è brutto, figuriamoci invece quando è un piccolo gioiellino come questo dei 100libri per sembrare fighi.
“Il Grande Gatsby” sì. Il di nuovo famoso masterpiece fitzgeraldiano, quello “che adesso c’è il film didicaprio” e pure il libretto a un euro della newton traduzioniaccazz compton.
Ma io non le ho trovate, quelle frasi.
Non lo so.
Rileggevo ieri.
Rileggevo poco fa.
Niente. boh. Erano descrizioni, ricordo.
Complesse e belle, una con una metafora. Ma niente.
Subito però faccio come sempre: apro a caso e vedo e vi lascio qualcosa, per capire come mai questo libro – nella traduzione della Pivano – sia comunque un libro bello, e scritto bene, con classe ed eleganza. E lo dico da lettore che, per una volta, ha riletto,
Sì, perché Gatsby l’avevo letto secoli fa, quand’ero piccolo e leggevo molto, tipo non so, boh, vent’anni o giù di lì. E ricordo che all’epoca l’avevo trovato bello. 
Adesso l’ho riletto e vi dirò di più, l’ho riletto ad altra voce.
Ed è una cosa diversa, sì. Leggere per qualcuno non è come leggere da soli. Non puoi distrarti e fingere, saltare, mollare. Se non capisci tu, non capisce nemmeno chi ascolta.
E poi c’è il ritmo, la musicalità.
Qualcosa che a tanti scrittori manca, che forse non so, manca anche a qualche traduttore. 
Quella cosa che “se lo leggi ad alta voce, suona bene.”
Dài, è venuta l’ora di tornare sul libro e cercare di aprire a caso.
Stavolta vado all’inizio…

Dentro, la stanza cremisi splendeva di luce. Tom e la signorina Baker sedevano alle due estremità del lungo divano e lei gli leggeva forte il Saturday Evening Post: le parole sommesse e inespressive si confondevano insieme in un tono pacato. La luce della lampada, riflessa dagli stivali di lui e smorta sul giallofoglia d’autunno dei capelli di lei, faceva luccicare la carta quando la signorina Baker voltò la pagina con un fremito di muscoli snelli nelle braccia.
Quando entrammo, alzò una mano e ci fece tacere per un momento.
«Il seguito» disse, gettando il giornale sulla tavola «al prossimo numero.»
Il corpo le si impose con un movimento irrequieto del ginocchio e la fece alzare.
«Le dieci» disse con l’aria di legger l’ora sul soffitto.

Bello, vero? A me piace. La trovo elegante, senza essere pomposa, come scrittura, e soprattutto con una gran capacità di descrivere, di mostrare. Mi verrebbe da dire, ma lo so che sto per dire una stronzata, carveriano senza essere simile a Carver. Dico così perché questa attenzione al dettaglio, che non appesantisce, la trovate in tutto il libro, ed è soprattutto quello che va notato, e non certo la trama poco sviluppata, per lo meno fino alla seconda metà, dove succede in effetti anche troppo.
No, okay. Non troppo… il giusto.
Dicevo, altro pezzo…
Ecco qua, come faccio a non farvi leggere una descrizione bellissima di un paesaggio che poi, più avanti, ritornerà e fa da colore e contorno ai fatti, dando una pennellata in più alla parola chiave del romanzo, che è TRAGICITA’. Eccola:

A metà percorso tra West Egg e New York l’autostrada raggiunge bruscamente la ferrovia e la costeggia per quasi mezzo chilometro come per evitare una zona desolata. È la valle delle ceneri: una tenuta fantastica dove le ceneri crescono corrìe il frumento, creando alture e colline e giardini grotteschi; dove la cenere assume la forma di case coi camini e il fumo che ne esce, e infine, con uno sforzo di fantasia, di uomini grigio-cenere che si spostano confusamente e già in via di disfacimento nell’aria polverosa. Di quando in quando una fila di carri ferroviari grigi arriva strisciando su una rotaia invisibile, emette uno scricchiolio spettrale e si ferma; e subito gli uomini grigio-cenere sciamano con le vanghe di piombo, e sollevano una nube impenetrabile che nasconde le loro operazioni misteriose.
Ma sopra la terra grigia e sugli spasimi di polvere smorta che incessantemente vi viene sospinta, dopo un po’ si scorgono gli occhi del dottor T.J. Eckleburg.
Gli occhi del dottor T.J. Eckleburg sono azzurri e giganteschi: hanno una retina larga quasi un metro. Non guardano da un volto ma da un paio di enormi occhiali gialli, appoggiati su un naso inesistente. Qualche strambo oculista buontempone deve averli senza dubbio messi lì per aumentare la sua clientela nel sobborgo di Queens e poi è sprofondato nella cecità eterna o se n’è andato, dimenticandoli. Ma quegli occhi, un po’ sbiaditi da molti giorni trascorsi sotto il sole e la pioggia, senza una mano di vernice, continuavano a meditare sul solenne terreno pieno di rifiuti.

Quel grigio, e quella polvere, e il non lasciar capire subito di come questo Eckelberg non sia altro che un cartellone pubblicitario. Questa metafora di un’America dove comincia a vedersi un mondo che oramai abbiamo assimilato, quella leisure class descritta da Veblen, in fin dei conti, dove mostrare è fondamentale. E’ un mondo tra comparse, attori, gente che appare e non è, eppure è solo quello che appare, perché di quasi nessuno, Gatsby compreso, riesce facile riuscire a capire cosa ci sia dietro la maschera. Daisy e Gatsby, della capricciosa Jordan e del prepotente Tom Buchanan, così come il nostro narratore, che curiosamente è una figura scelta per dare un minimo di valori, uno specchio che racconta rimanendo quasi ancorato ad alcune radici forti, che non lo fanno mai perdere del tutto nel turbinio folle dei ricchi dediti all’alcol e alle bugie, così come allo scialare e allo sfruttare. 
Ma io vi voglio lasciare anche un bel pezzettino di Gatsby.
Perché molto della bellezza di questo romanzo, secondo me, è nel modo in cui la figura di Jay è stata dipinta, un modo che – unito al titolo – rende pienamente l’idea di come solo la tragicità e la follia amorosa, in un’epoca come quella zona del ‘900 americano, possa definirsi “grandi”.
Ecco qua, un bel dialogo tra il nostro eroe e il filtro/na
rratore che è stato scelto per raccontarcelo.

Un’ora dopo si aprì nervosamente il portone e Gatsby, vestito di flanella bianca, con la camicia color argento e la cravatta color oro, entrò di corsa. Era pallido e sotto gli occhi aveva i segni dell’insonnia.
«È tutto a posto?» chiese subito.
«L’erba è in ordine, se alludi a questo.»
«Che erba?» chiese assente. «Ah, l’erba nel giardino.» La guardò dalla finestra, ma a giudicare dalla sua espressione credo che non vedesse niente.
«Sembra molto bella» disse senza pensarci. «Un giornale ha detto che la pioggia sarebbe cessata verso le quattro. Credo che fosse il Journal. Hai tutto quello che ti occorre per il… il té?»
Lo condussi nella dispensa dove Gatsby guardò con lieve rimprovero la finlandese. Insieme esaminammo i dodici dolci al limone comprati in pasticceria.
«Vanno bene?» chiesi.
«Certo! Certo! Vanno benissimo!» E soggiunse con voce falsa: «… vecchio mio».
Verso le tre e mezzo la pioggia si trasformò in una nebbia umida nella quale vagava di quando in quando come rugiada qualche goccia sottile. Gatsby scorreva con occhio assente una copia dell’Economics, sussultando al passo della finlandese che faceva vibrare il pavimento della cucina e sbirciando di quando in quando dalle finestre appannate come se fuori stessero avvenendo fatti invisibili ma preoccupanti. Alla fine si alzò e mi disse con voce incerta che andava a casa.
«Ma perché?»
«Non verrà nessuno per il té. È troppo tardi!» Guardò l’orologio come se qualcosa di urgente lo reclamasse altrove. «Non posso aspettare tutto il giorno.»
«Non far lo stupido; mancano due minuti alle quattro.» Sedette con aria infelice, come se lo costringessi io a farlo, e contemporaneamente si udì il rumore di una macchina che svoltava nel mio viale. Balzammo tutti e due in piedi e, un po’ nervoso anch’io, mi avviai verso la porta.

Voi dite quello che volete, ma io trovo il Gatsby dipinto in momenti come questi, timido e tendente allo spleen, eppure pronto ad accendersi e sognatore, come un bimbo, ecco, dicevo che trovo questi passaggi bellissimi. Tutti quei gesti, e il “vecchio mio” e la vita secondaria di Jay, che pian piano emerge, vuoi coi fatti, vuoi con la lunghissima analessi finale. Insomma… non lo si salva, Jay, ma alla fine, preferiamo di gran lunga la sua utopia bizzarra da contrabbandiere all’arrendevolezza di Daysi, la volubilità di Jordan o la cattiveria di Buchanan. (Già, perché non si riesce a provare pietà per nessuno, nemmeno per i poveri, per l’amante presa per il culo, e il suo marito meccanico grezzo, né tantomeno per gli ospiti di Gatsby, una congerie di scrocconi e falsi.)
Oh… ma mi rendo conto che vi ho rotto le palle.
Diciamo delle cose più semplici. 
Il romanzo è breve, cosa uno, una centocinquantina di pagine, ma è denso, perché non è che lo liquidi con una lettura superficiale. Il romanzo parla di maschere, di tragicità, di falsità, di contrabbando e, soprattutto, di amore e tempo, le misure che scandiscono le vite di tutti.
Gatsby è grande. Il fatto è innegabile. Grande quando la sua figura si staglia sulla veranda, il porch che è sia confine che finestra, in una visione metaforica a cui però manca una cosa che all’americano medio è arrivata dopo: il fucile. Sto citando, eh, dico, quest’immagine di uomo sulla veranda, ma senza fucile. 
E già, perché Gatsby ha una bella macchina, una casa galattica, ha un telefono sempre che squilla, e ha i soldi.
Soldi da spendere per ubriacare, per ubriacarsi e per gestire gli eccessi.
Ma eccessi che, alla fine, ha rivolto tutti a essere sudditi della sua storia d’amore.
Tragica sarà la fine, e se avete un cuore cattivo, come il mio, vi farà male, questa fine.
Poi, sì, forse la prima parte è noiosa, non piacerà a chi non ama l’assenza di trama o un eccesso di verbosità, ma è comunque una parta che deve stare così. E poi, la noia è sentimento che ammanta tutti, in questo libro, e non è fattore trascurabile.
Basta cari. Post lungo, ma il libro se lo meritava.
Ah, il film non l’ho visto, ma rileggendo il libro mi rendo conto di due cose:
– Di Caprio è un buon candidato a interpretare Jay Gatsby
– probabilmente non ci sarà riuscito
Ah, non è un libro per tutti. Se non avete il piacere dei libri che “leggono” la american society, più o meno criticamente, potreste trovarlo addirittura inutile. Io non ho ‘sto grande amore per l’introspezione sociale, a volte, ma unita a una scrittura così di classe, non ho potuto fare a meno di apprezzarlo.

Ah, un ultimo consiglio. Se proprio dovete leggerlo, vi prego, leggetevi una copia di quelle curate dalla Fernanda, e non quelle uscito pro-film.

Comments

  • 11 Ottobre 2013

    Concordo. Capolavoro!

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  • 11 Ottobre 2013

    L'ho letto anch'io da poco (in originale, perché era gratis e perché non mi riuscivo a decidere su quale traduzione far cadere la scelta). E anch'io l'ho apprezzato parecchio, per motivi simili ai tuoi, mi pare.

    Riguardo al film, ho deciso di dare una possibilità a quello con Redford, che in effetti nei panni di Gatsby ci stava proprio bene (anche se il film è troppo lungo, e noioso). Quello con Di Caprio lo devo ancora a vedere, che temo un po' l'esagerazione tipica di Luhrmann (che in effetti fanno il paio con quelle altrettanto tipiche – almeno ultimamente – del suo protagonista).

    Bel post, btw.

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  • 11 Ottobre 2013

    A me invece non è piaciuto proprio per i motivi che citi tu.
    L'ho trovato noioso e inutile.
    Ti lascio la mia recensione negativa, occhio che io il finale l'ho raccontato, alla fine, e arriva quando meno te lo aspetti.

    http://pensieriusati.wordpress.com/2013/05/25/il-grande-gatsby/

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    • 12 Ottobre 2013

      si si, tranquillo, già la lessi la tua 🙂 la vediamo in modo diverso, mi pare buona cosa 😀

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    • 12 Ottobre 2013

      Lo so che tu l'hai già letta, ma gli altri non so…
      Visto che c'ero mi sono spammato.
      Così, per non sbagliare 😀

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