“Scheggia” di Ira Levin***
Sono arrivato alla fine di un libro ed è incredibile. Questo l’ho iniziato 4 volte e un paio ero parecchio avanti (pag 30 o 40) prima di smettere di leggere. Ma finalmente, almeno questo, posso riportlo. Nel frattempo ho perso la sovracopertina, proprio quella li dell’immagine, o forse l’ho anche buttata, chissà.
Ora me lo tengo con una copertina marroncina anonima e color cacchetta, anche se in cartone, e lo metterò vicino agli altri due o tre che ho, anche se boh… non so se resisterà alle prossime pulizie galattiche.
Comunque. Vi ricorderete di Ira Levin per due cose. Due cose grosse che ha fatto. Anzi, una grossa, una un po’ meno. Quella grossa grossa è “Roosemary’s baby“ e la conoscono tutti per via del film. Un horror con elementi soprannaturali… L’altra era “I ragazzi venuti dal Brasile” che come libro è senza dubbio migliore, ma come fama è minore. Il film, insomma, non è così conosciuto. Un thriller con elementi di fantasia, che discute di temi come l’ingegneria genetica, il libero arbitrio e le scelte etiche. Molto bello. E poi c’è anche “La fabbrica delle mogli” che anche qui, elementi fantastici, okay, un thiller, ma un sacco di temi sottostanti, critici nei confronti della american society e in definitiva molto ben riuscito.
Ecco perché ho letto questo. Mi son detto: sarà figo uguale. E invece no. Non lo è. Credo che lo sarebbe se fosse stato scritto 10 anni prima ma il libro è datato 1991 e diciamo che la TV, le telecamere e i temi del controllo attraverso l’osservazione nascosta e del voyerismo che sarebbe poi esploso con il format del Grande Fratello non erano famosi ma non erano certo sconosciuti. E il tema qui è solo quello. Certo, si parla anche di editoria, di mercato dei libri, di attori e modo di vivere di una Hollywood di un tempo ma è solo un passaggio, una toccata e fuga. The Truman Show, sono andato a controllare, è del 1998. Insomma… diciamo che mentre nei libri precedenti Ira Levin aveva delle visioni che erano 10 anni avanti, qua è abbastanza contemporaneo. Tant’è che il film del romanzo, Sliver, quello con Sharon Stone, è del 1993. Che poi, la storia da scrittore di Ira Levin è tipo di una manciata di cose sparse in una trentina d’anni. E questo qua, Sliver, è il suo Best Selling.
Ma è meglio che vi dica subito che il libro non è brutto, ma sembra abbastanza anonimo se lo paragonate a tutti gli altri. Va letto? Mmm… diciamo che una lettura gliela dovete concedere se vi sono piaciute le altre cose dell’autore e il suo modo di costruire i thriller, che è sempre molto valido, ma che qui ha dei difetti. E va letto se i temi della telecamera nascosta e del fascino della curiosità vi attraggono.
Vediamo di che parla. Scheggia, il titolo, sia in inglese, sia in italiano, si riferisce alla forma del palazzo in cui è ambientato il romanzo. Una scheggia, una sorta di dente brutto a vedersi ma bello dentro in cui però la gente muore. Muore più del solito. Ora qui c’è il primo errore o meglio, scelta sbagliata del plot, non so. Levin ci dice chiaro e tondo che la gente muore ammazzata, ma ci dice anche da chi. perché? (secondo me è perché non voleva sviluppare altri personaggi e introdurre del giallo, da costruire) Solito meccanismo da suspence in cui noi sappiamo e lei, Kay Norris, editor quasiquarantanne e ultrafiga della madonna, non sa. Ma lui, Peter Henderson, figlio di un’attrice, a cui Kay somiglia, non solo entra nella sua vita, ma se ne innamora. E peccato che è uno psicopatico. Un Peeping Tom. Un guardone. E la Lady Godiva di turno è proprio Kay, all’inizio. Tutta la scheggia è strapiena di telecamere e ci si sofferma (anche troppo) sui dettagli tecnici di questa stanza da Grande Fratello e sul voyerismo di Peter. Insomma… a un certo punto Peter se la tromba, e si arriverà al punto in cui lei scoprirà delle telecamere. Cosa succederà?
Ecco, qui arriva la parte bella del libro che sarebbe dovuta essere più approfondita. C’è una frase, molto interessante, in cui Peter spiega perché è bello (e magnetico, e inevitabile, e innocuo) passare la vita dietro quelle telecamere a guardare la vita altrui. La vita vera. La vita che “non sai mai quel che succede dopo”. Ecco il bello. Il concetto è interessantissimo e il fatto che tutti siamo dei guardoni e che non riusciamo a staccarci dalla curiosità di sapere, quando non interferiamo, oppure interferendo, delle vite altrui. Sapere delle corna, dei litigi, delle scopate, delle discussioni, delle idee private, ma anche della noia delle vite degli altri. Ecco… il passaggio è tanto bello quanto sbrigativo, perché questo è un thriller, e ovviamente siamo tutti interessati a capire come Kay riuscirà a saltar fuori da uno psicopatiche di cui tra l’altro è innamorata. E alla fine altro piccolo difetto. Il finale. Sbrigativo, poco credibile e sì, okay, forse inatteso, ma sicuramente migliorabile. Diciamo che è una questione di scelte. Levin ha scelto di mostrarci la parte più in presa diretta della storia, farci arrivare alla fine del libro in modo veloce, lasciando perdere le menate etiche e lo sviluppo dei personaggi secondari, tutti o quasi piuttosto all’ombra. Va bene. Ma io qualche menata etica in più non l’avrei disprezzata.
Che poi, così, per dire una cosa che non c’entra un cats, Peeping Tom mi fa venire in mente sempre il gruppo di un disco di quel pazzo di Mike Patton, 2006, non so se ricordate, dentro c’erano dei pezzoni, disco superbo, ma è anche una canzone ballata dei Placebo, decisamente non brutta, a riascoltarla oggi. Ma è ora di andare a lavorare e mettere via questo libro. Ora ho cominciato a leggere il libro di gigi, e boh… lo finirò sicuramente prima di questo.