
UN PAR DE COPIONI! – I diversamente vincitori
Mi sembra davvero doveroso, mentre attendo il responso dei giurati sui racconti finalisti e su chi si aggiudicherà il premio più ambito di ultimo arrivato, allietarvi con una cosa che state chiedendo in molti. Volete vedere la collazione… ma no, no, che avete capito, via quelle forchette, niente bacon o cereali all’alpaca affumicata!
Parlo del confronto, di chi ha plagiato chi e come lo ha fatto.
Che dire… Io trovo sia stato un esperimento estremamente interessante, perché ho avuto plagi che vanno dalla riscrittura a plagi che hanno interpretato in modo ampio – a volte obbligati dalle circostanze – il tema assegnato.
E allora lo so che sarà un post forse per pochi, vuoi per la lunghezza, vuoi perché c’è un bel po da leggere, ma mi sembra doveroso lasciarvi, qui sotto (dovete cliccare “voglio leggere ancora” 🙂 ) la rivelazione dei primi segreti di chi ha scritto cosa e chi ha plagiato chi.
Epperò, siccome io mi diverto a segnalarvi cose belle, ve ne segnalo una che avrete già visto in facebook, in questi giorni, ma forse non tutti hanno facebook e non tutti guardano i video virali.
C’è una canzone, di un gruppo indie australiano, i tangerine Kitty, una canzone di quelle che ti si attaccano addosso, e c’è un video, divertentissimo, che la descrive. Parla di Modi scemi di morire, ovvero Dumb ways to die, ed è un raro esempio del potere dell’intelligenza mescolato all’eleganza e alla semplicità. Il video serve per sensibilizzare gli utenti (australiani) a “be safe around trains” ed è spassosissimo. Davvero, guardatelo, se non l’avete ancora visto. Ne vale la pena.
E se volete c’è pure il tumblr con le giffine animate. Qui vi lascio le mie preferite.
E adesso, ecco a voi, i copioni esclusi dalle finali!
Neanche per sogno!
di Gino Carosini
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ha plagiato “Neanche per sogno” di Malos |
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Neanche per un sogno, di quelli forti, belli…in cui sei un eroe senza paura, o un master dominatore avrebbe spento la luce. Ma gli occhi gli si facevano pesanti, erano le tre del mattino e proprio non riusciva a staccarsi dalla lettura di Infinite Jest.
Le campane di una chiesa sconosciuta battevano l’ora.
Devo dormire sennò domani!
Spense la luce. Tic, Tac, Tic: il maledetto orologio lo teneva sveglio , o forse era il caldo? Accese l’abat-jour e vide la porta dell’armadio aperta. Dentro, inanimato, giaceva il corpo di David Wallace Ford.
Ma questo è un incubo, eppure non credevo di dormire!
Si fregò gli occhi e guardò nell’armadio: il corpo era sparito.
Naturalmente devo essere pazzo a vedere queste cose!
Quel caldo soffocante! Si affacciò alla finestra. Ne luci , ne stelle, il buio assoluto. Nemmeno il rumore in lontananza dell’autostrada, solo il maledetto rintocco di quella campana. Don, don, don, don… già le quattro!
Ripiombò sul letto tutto sudato e spense la luce. Tra due ore doveva alzarsi per andare a lavorare.
In quel momento sentì l’odiato ronzio di una zanzara: – ecco, ci manca questo adesso – voglio dormire, maledizione, voglio dormire…
Cominciò a contare le pecore, si rigirò ancora nel letto, poi senti il classico prurito: – ecco! Colpito!
Accese l’abat-jour e vide la grassa zanzara soddisfatta sul muro, immobile. Fu un gioco da ragazzi ammazzarla…o almeno credette.
Il colpo che ricevette lo stordì, vide chiaramente un altro se stesso che gli agitava un giornale davanti nell’intento di colpirlo. Lui cercò di schivare il colpo, sulle prime ci riuscì, ma era troppo gravido di sangue per poter schivare i colpi dell’altro.
Fu quando vide l’altro se stesso impugnare il grosso tomo di Infinite Jest che comprese e cominciò ad urlare:
“voglio svegliarmi!”
Si attaccò terrorizzato al muro, ma cosa poteva fare contro la forza di quel libro scagliato con rabbia?
Poi, fu solo sangue sul muro. |
Il buio era assoluto, ma non aveva paura. Era l’insonnia che lo atterriva: palpare il buio, sentirlo combaciare col suo avvenire, sopra, sotto, oltre la siepe e in ogni direzione dello spazio-tempo. Tic. Tac. Si rigirò nel letto, odiando il solletico leggero del lenzuolo: perché non l’ingoiava l’incoscienza? Niente, non riusciva a spegnersi. Accese l’abat-jour, lesse tre pagine di Infinte Jest, fece un jestaccio al crocifisso e tornò a chiudere la luce. E’ la crisi, pensò, non è colpa mia. E comunque, essendo in crisi, perché non posso mettere i pensieri in cassintegrazione. Tic. Tac. “Voglio dormireee!”- gridò. Si tirò il lenzuolo sul volto e ci alitò contro, ma nemmeno l’abbraccio del ventre caldo-umido del letto lo placò. Iniziava a provare la sgradevole sensazione d’essere osservato. Spinse via il lenzuolo, fissando il buio fisso. Strinse il pugno e lo scagliò nell’occhio delle tenebre. Non cambiò nulla: buio pesto. E un flebile ronzio. Zzzzzzzz… Una zanzara! Cristallizzò il respiro e giacque immobile. Solo silenzio. Possibile? Poi un lieve senso di prurito in fronte. Cazzo! L’aveva fregato! Accese la luce ed era lì, gonfia e beata poco oltre il comodino. Prese la mira e *splat!* della zanzara restò solo un francobollo rosso. Maledetta… Spense la luce e ritornò a cullare l’insonnia. Tic. Tac. Plic. Plic?! Qualcosa gocciolava. Sbuffò e accese nuovamente l’abat-jour, cercando d’individuare la provenienza dello stillicidio: il muro, nel punto in cui aveva ucciso la zanzara, stillava sangue. Goccia a goccia, il liquido rosso scendeva lungo la parete, formando un ristagno a terra. Oddio… Prese un fazzoletto e cercò di tamponare il flusso, senza successo. Sentì il terrore percolare negli anfratti del cervello: doveva chiedere aiuto. Corse alla porta, trovandola sprangata. Le finestre: bloccate. Frattanto, sul pavimento, la pozza di sangue aumentava. A conferma di quanto possa essere volubile l’animo umano, cambiò completamente idea, si piantò le unghie negli occhi e incominciò ad urlare – “Voglio svegliarmiii!” | |
Il brigadiere di Paolo Ungheri |
ha plagiato “Il brigadiere” di Vlad Sandrini |
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Aprì gli occhi e quello che vide fu il bianco delle pareti e la troppa luce delle lampade a diffusione. Il lento ansimare di un respiratore e il blip cadenzato di un monitor per le funzioni vitali gli unici rumori in sottofondo.
La sua identità gli sfuggiva, così come il motivo della sua presenza in un ospedale.
Amnesia?
Un’ipotesi, anche se non spiegava nulla.
Ma c’era dell’altro…
Sapeva con esattezza che si trattava del 25 novembre, ore 5.54 antimeridiane.
Come?
Attese. Qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi.
E così fu, alle 8.06.
Un uomo, camice bianco (cotone intrecciato). In mano un bicchiere (polistirene espanso) con all’interno un liquido scuro (infuso di caffè, 57 gradi, 7% di zucchero semolato).
«Buongiorno brigadiere…» disse, mescolando il caffè.
Poi se ne andò, portandosi dietro il bicchiere.
Pochi istanti dopo fece ritorno, accompagnato da un uomo in divisa (Maresciallo Zhou, 38 anni, celibe, residente in via carboni, n° 26, codice identificativo 5487d58965).
«Salve DiGiorgio,» disse tradendo un lieve sorriso, «come si sente?»
«Cosa è successo?» chiese l’uomo, cominciando a intuire la risposta.
«Forse è meglio se riposa ancora un po’…»
«Non voglio riposare! Voglio risposte!»
Fece per alzarsi e vide quello che rimaneva dei suoi arti inferiori.
Lesioni multiple ai legamenti e alla massa muscolare…
Tutto gli tornò alla mente.
L’agguato; i colpi di arma da fuoco e lui che cadeva a terra; due agenti che cercavano di trascinarlo via; poi l’auto, veloce, che passando schiacciava il suo torace con i battistrada delle ruote; poi il buio, l’oblio.
«Sono morto…»
«Mi dispiace…»
Il suo cervello, un ammasso di componenti e di silicio, scaricò in un attimo l’intero decreto; protocollo 47, trasformazione di un cadavere in un androide perfetto e letale.
Era obbligatorio firmare il consenso, ora lo sapeva.
Posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi, rassegnato.
Forse nel futuro che lo attendeva esistevano ancora i sogni.
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Al risveglio fu consapevole di due cose. Primo, era in un ospedale, con la maschera di un respiratore su naso e bocca, la luminescenza di alcuni monitor e quella di una lampada da notte. A casa sua non avrebbe mai lasciato acceso nulla di tutto questo.
Secondo, era il 27 novembre, alle 5.54 di mattina. Ne era certo, chissà come.
Non ricordava invece il proprio nome, né cosa gli fosse successo, o cosa facesse per vivere. Se qualcuno sarebbe arrivato all’orario di visita. Si disse che andava bene così, che se soffriva di amnesia, l’ospedale era il posto giusto dove trovarsi. Ascoltò per due ore il soffio ritmico del respiratore alle proprie spalle.
Quando un dottore in camice bianco entrò soffiando su un bicchiere da macchinetta, erano le 8.06. Non solo sapeva l’ora esatta: si sorprese a indovinare il materiale (polistirene) e la temperatura (57°C).
Il dottore lo salutò dandogli del “brigadiere”. Sparì e ricomparve in tre minuti in compagnia di un ufficiale in divisa. In un lampo fu consapevole di conoscere alla perfezione i dati biometrici di entrambi e di poterne disegnare il cranio ad occhi chiusi.
– Ciao, Digiorgio – lo salutò l’ufficiale. Ora avrebbe saputo presentarsi. Era qualcosa.
– Ciao.
– Mi riconosci?
“Non riconosco neanche me stesso!” voleva dire. Ma l’identità dell’uomo gli era immediatamente chiara. Come se avesse consultato una base dati. Ricordò di conoscere le basi di dati, per lavoro. Scansò il respiratore. – Maresciallo Zhou. Che minchia mi è successo?
L’ufficiale scambiò una breve occhiata con il medico. |
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Allegria di Luca Romanello |
ha plagiato “Michael” di Paolo Rozzi |
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― Eppure te l’avevo detto che sarebbe finita così! ― proruppe Lele, esasperato.
― Stai calmo, porca puttana! ― sbottò Emilio. ― Cerchiamo di mantenere i nervi saldi.
― La fai facile, tu. Non hai i miei stessi debiti. E se penso a quella stronza che ci ha piantati in asso dopo essersi sistemata in Regione… mi girano davvero le palle!
― Lascia stare, Nicole è sempre troppo presa a troieggiare per feste, stavolta comunque non ci avrebbe aiutato.
Dall’elegante bara vicino a una delle pareti provenne un colpo. L’ennesimo.
― Quindi dici che non è la coca? ― chiese Emilio.
― No, non può essere. Lo sai che non dà effetti come questo, capirei i funghi allucinogeni, l’lsd, la coll…
― Sì, va bene, è chiarissimo. ― tagliò corto Emilio. ― Quindi ricapitoliamo: Daniela e i figli hanno le braccine corte, non pagano, e ora il rincoglionito si ostina a non starsene buono. Che merda di situazione!
― Però è assurdo, ormai è morto.
― Balle! Proprio tu dovresti sapere che il mondo è pieno di persone che sembrano morte ma non lo sono.
Lele bofonchiò qualcosa.
― Cosa stai dicendo?
― Niente ― cercò di scantonare Lele.
― Guarda che ti ho sentito. Non ti permetto di insinuare che anche il nostro Silvio è così! Hai capito? Non te lo perm…
In quel mentre, Lele alzò una mano, come per zittirlo.
― Ma come osi, vecchio ricchione? ― reagi Emilio, stizzito.
― E sta’ zitto un attimo, porca troia!
I colpi dalla bara erano cessati, ma un suono diverso cercava di farsi strada attraverso il legno e i sigilli. Lele ed Emilio si avvicinarono. Il primo si chinò per ascoltare meglio, il secondo si mise una mano davanti alla bocca in un gesto di incredulità.
― Allegria! ― si udì. ― Compra una vocale? Eh? Allegria! Gira la ruota? Eh? Allegriaaa!
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Quel mattino Michael non aveva voglia di alzarsi. Perché affrettarsi? Fuori era ancora buio pesto. Silenzio.
Che ora era? Non gli importava granché. Sentì freddo.
La mano destra risalì a fatica verso il viso e accarezzò il mento. Non si era fatto la barba. La testa era come una landa desertica sferzata ogni tanto da folate di vento gelido. E quel sogno… Faticava a muoversi.
Provò a girarsi di fianco per sbirciare i led luminosi della radiosveglia. Buio.
Forse sto ancora sognando. Forse credo di essermi svegliato e invece sto ancora sognando.
Deglutì a fatica.
Adesso mi alzo. Provò a muoversi ma i piedi erano ingabbiati; cercò di muoverli ma non riusciva nemmeno a sentire le dita.
E’ un incubo. D’istinto tentò di chiamare la moglie ma le lettere uscirono a fatica e si sbriciolarono come granelli di sabbia. Poi…
Voci, che a stento si distinguevano dal silenzio, come suoni sordi in una lingua sconosciuta. Qualcuno.
-Chi è?- le parole incastrate in gola cercano di uscire.
Un colpo sordo lo scosse, come se qualcuno avesse violentemente sbattuto il pugno su un tavolo. Con le forze residue tentò di aguzzare l’udito…
-Adesso Basta!-
-Calmati.-
-Sono due mesi che ce la menano, cazzo! Adesso li chiamo…-
-Aspettiamo. Qui siamo al sicuro.-
-Col cazzo!-
-Sei uno stronzo. Nessuno viene a cercarci qua. Rilassati, leggiti un libro.-
-Sono stufo di stare chiuso qua dentro con un morto nell’altra stanza!-
-Hai paura, stronzetto?-
-Non scherzare, capito? Entrare là con quella bara mi dà i brividi-
-Cacasotto.-
-L’idea era tua: entrare nel cimitero, spaccare la lapide e rubare la cassa per il riscatto.-
-Vedrai che pagheranno. Pagano sempre. Bisogna avere pazienza.-
Adesso ricordava.
Lui, Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, il re dei quiz televisivi, era morto da un pezzo, e due balordi avevano trafugato la sua bara per il riscatto.
Credette di inspirare profondamente, poi si riaddormentò per sempre.
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Se potessi prenderei a pugni il mio psicologo
di Fihtz Hood
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ha plagiato “Quel giorno alla stazione” di Cristina |
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Ma dove diavolo sono finite!?
Erano in tasca fino ad un attimo fa… .
Ormai sono cinque minuti che le cerco, il treno ormai è andato.
Concentrati Gianni!
Ripercorri mentalmente quanto hai fatto finora.
Dunque: sono uscito di casa ed ho chiuso la porta.
E lì ce le avevo.
Ho preso la bici e sono venuto in stazione.
E lì ce le avevo.
Ho chiuso la bici con il lucchetto e sono andato ai binari.
E lì ce le avevo.
Ho obliterato il biglietto.
E lì ce le avevo.
Poi? Ah già, ho espresso il mio desiderio quotidiano.
“Per alleviare lo stress” dice lo psicologo.
Anche oggi lo stesso desiderio:
“Vorrei un giorno di ferie.”
Sono stato accontentato: non posso certo andare a lavorare così!
Ma dove diavolo sono finite le mie mani?!
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Allargai le dita e sollevai i capelli liberandoli dall’orecchio, era sempre così senza accorgermene le mani prendevano quella ciocca che si poggiava sulla guancia e la fermavano dietro le orecchie. Guardai l’orologio ero in perfetto orario, frugai nella tasca, presi il biglietto e l’obliterai. La parola obliterare si fermò un secondo nella mia coscienza.
Cercai una panchina libera e mentre aspettavo ripensai al desiderio che avevo espresso quel giorno. La psicologa mi aveva consigliato di esprimere un desiderio ogni giorno, questo avrebbe messo a fuoco i miei reali bisogni, all’inizio ne avrei espressi molti e tutti diversi ma poi, secondo lei, con il tempo sarei giunta a formulare sempre lo stesso. Purtroppo i miei desideri continuavano ad essere infiniti e a non realizzarsi. Nemmeno quello stupido che avevo espresso la mattina. Almeno quelli stupidi no? … Allontanarsi dalla linea gialla. Il treno stava arrivando. Sarebbe ripartito tra dieci minuti. Mi alzai, allungai una mano per riassettarmi i capelli. Non ci riuscii. Ci riprovai, un brivido mi attraversò la schiena, lentamente guardai la mano, o meglio i miei occhi si fermarono lì dove una volta c’era la mia mano. Era scomparsa. Anche l’altra. Com’era possibile? Dov’erano le mie mani? Perché non sentivo dolore? Sudavo. Il cuore mi batteva forte nel petto. Ero sprofondata nell’incubo. Non avevo più le mani. Il cellulare era nella borsa, irraggiungibile, e poi per chiamare chi? Dire cosa? Cosa dovevo fare? Mi veniva da piangere ma non piangevo. La paura sovrastava ogni altra emozione. … Allontanarsi dalla linea gialla. Alzai la testa il treno stava partendo senza di me. Come un lampo mi rividi quella mattina davanti allo specchio, insofferente, non avevo nessuna voglia di prendere treno, avevo desiderato che quel giorno accadesse qualcosa di straordinario che m’impedisse di prenderlo. Una speranza, domani… domani avrei riavuto le mie mani. |
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Una passeggiata tranquilla
Di Malos
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ha plagiato “Una passeggiata tranquilla” di Diego Cocco |
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Di notte, amo camminare fra le tombe per godere della pace del piccolo cimitero del paese. Passeggio tranquillo portando un saluto agli amici: mi piace richiamare alla mente attimi di vita passata, quando si lavorava sodo per un pezzo di pane e d’inverno le stalattiti di ghiaccio sulle travi del soffitto parevano il gelo stellato. Allora no, non era proprio possibile rilassarsi e tirare il fiato… ma adesso recupero.
Alla luce d’un lumino tremolante, accarezzo l’immagine di Sofia. La mia unica paura? Che arrivi mia moglie e mi faccia scoppiare il cuore dallo spavento. Ipotesi remota, visto che era stanca morta e aveva bisogno di dormire.
– Ciao, Sofia, anche stasera ci si vede.
Compagni di scuola, una vita fa. Ero innamorato di Sofia. Mi piaceva da morire come arricciava il naso col sorriso.
Però s’è fatto tardi: meglio tornare a casa. Percorro corridoi che odorano di muffa senza incontrare anima viva. Canto ventitré, seconda fila dal basso. Entro e mi stendo senza fare rumore. Sono sempre l’ultimo che va a dormire.
– Ecchecazzo, Andrea… E’ inutile che fai pianissimo e poi mi pianti un gomito tra le coste.
– Scusa.
– Scusa un corno! Altro che eterno riposo… lo sai che poi fatico a riaddormentarmi. E smettila di strusciarti, sei tutto spigoli.
– Ti prego, requiem aeternam, facciamo l’amore… muoio dalla voglia.
– Piantala. Vai a fare il cascamorto con Sofia, o la mano morta con la Giusi.
– E’ che mi annoio a morte. Dai, fammi uno spoglie-rello mortali.
– …
– Ti parlo in latino: ti lecco tutta con la lingua morta!
– …
– Insomma! Sembra che tu ce l’abbia a morte con me!
– La nostra vita sentimentale è a un punto morto. Eppoi per fare l’amore bisogna muoversi e i morti non si muovono.
– Non è vero! Lo dicono spesso anche nei film: “se ti muovi sei un uomo morto” |
Amo camminare fra le tombe, di notte, e godere della pace che si respira solo qui, nel piccolo cimitero del mio paese. Senza nessuno che mi possa disturbare, passeggio tranquillo meditando del più e del meno, lungo il mio tragitto preferito. Porto un saluto rispettoso a tutti quelli che ho conosciuto e che riposano in questo luogo. A volte ricordo piacevolmente attimi di vita passata, altri tempi, quando magari si lavorava sodo, correndo da mattina e sera, senza sosta, per portare a casa un misero pezzo di pane. Allora no, non era proprio possibile fermarsi un po’ a fare il punto della situazione, in quelle giornate travagliate e piene di impegni.
Adesso però sto recuperando: mi prendo finalmente il tempo che serve, senza timore, senza ripensamenti.
La lunga fila di lumini tremolanti illumina corridoi che odorano di muffa e polvere. La mia unica paura? Che possa arrivare qualcuno, qui, ora. Che giunga senza avvisare per distruggere questa quiete sublime, e che mi faccia scoppiare il cuore dallo spavento.
Nessuno deve rovinare le mie ore di meditazione e colloquio interiore.
– Ciao, Cesare, anche stasera ci si vede. – Recito una Requiem Aeternam mentre lui mi osserva sorridente dalla foto ovale. Compagni di scuola, una vita fa.
Ecco, sono giunto al termine della mia passeggiata. Tra poco farà di nuovo giorno, ed è meglio che torni a casa. Per fortuna anche stanotte non si è vista anima viva.
Canto ventitré, seconda fila dal basso. Entro e mi stendo senza fare rumore. Sono sempre l’ultimo che va a dormire.
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Il sognatore di Vlad Sandrini |
ha plagiato “Il sognatore” di Paolo |
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Lo smaterializzatore del dottor Isoba è pronto, l’ultimo test effettuato con successo. Presto si realizzerà il suo sogno. L’apparecchiatura occupa per intero il box della sua auto, che tanto ha venduto l’anno scorso. Il sarcofago di vetro è fra le taniche blu e le latte dei reagenti solidi, se ne vede la griglia di sensori su due pareti. Fasci di cavi attraversano le assi e le sbarre avanzate. Sopra il tavolo una console con cinque monitor e un groviglio di tastiere e leve saldate. Sotto, ululano le ventole di tre server allineati accanto alla gabbia della gatta randagia Mia, ancora sporca di peli rossi.
Mia è l’unica che non gli abbia mai voltato le spalle. Si è sentito un verme quando ha messo la gatta nel sarcofago per guardarla scomparire in una luce accecante; l’ha riempita di coccole dopo, azionata la leva dell’invertitore, quando il flusso coeso di dati a spasso per il cosmo è tornato un corpo solido che faceva le fusa.
Le spalle gliele hanno voltate tutti gli altri. All’università, il dottor Lahalle gli ha negato i fondi, pur sapendo le potenzialità del teletrasporto, per darli a un motore inefficiente e pericoloso per mezzi su ruote. Una volta licenziato, fra le loro foto sorridenti in salotto, la moglie Lavra ha preso un trolley fucsia già pronto e se n’è andata per sempre, lasciando solo una scia di violetta.
Il dottor Isoba ha capito allora, dopo aver perso tutto, chi è e cosa vuole. È uno scienziato, il suo sogno è la conoscenza. Il sapere assoluto, l’esplorazione delle profondità del cosmo come non capiterà a nessun altro.
Tutto è pronto per azionare lo smaterializzatore. I server fremono, programmati con una sequenza precisa, e al termine si renderanno inservibili: nessuno azionerà la leva dell’invertitore. Il sogno del dottor Isoba è viaggiare per sempre sotto forma di un flusso di dati immortale. |
Jeremy osservò l’imponente macchinario che occupava buona parte del garage. Finalmente l’acceleratore cosmico era pronto, in attesa solo di essere avviato e preparato per il primo esperimento. Per terra, vicino a un braccio di cavi attorcigliati fra loro, c’era una gabbia. All’interno un grosso coniglio marrone stava rosicchiando un pezzo di carota, ignaro di quello che stava per subire.
Jeremy lo tolse dalla gabbia, andandolo poi a posizionare all’interno della cabina. Chiuse il portello e si mise ai comandi.
Aveva preparato un campo di forza per contenere la massa della cavia il più a lungo possibile e contava di poter ottenere tutti i dati con facilità.
Attivò una serie di sequenze e l’acceleratore entrò in funzione con un ronzio basso e pesante. Le vibrazioni si diffondevano anche nell’ambiente circostante, tanto da poterla avvertire sotto i piedi; nello stesso istante, nella cabina, la luce aumentò d’intensità, rendendo difficile vedere il coniglio, fino a quando non esplose in un bagliore accecante. Jeremy si coprì gli occhi e distolse lo sguardo sperando in cuor suo che funzionasse.
Durò solo un istante e quando ebbe termine i computer stavano lavorando sui dati. Aveva funzionato, la matrice del coniglio era stata lanciata nello spazio sotto forma di particelle subatomiche, trasferita come una massa di dati coesa e strutturalmente solida. Una forma di vita di per sé immortale, eterna, in perenne viaggio lungo le distese infinite dell’universo.
Soddisfatto dal risultato dell’esperimento, Jeremy invertì il processo, ordinando al computer di recuperare la traccia di Barney e di riportarlo indietro. Pochi istanti dopo il grosso coniglio marrone ricomparve nella cabina, in perfetta salute e senza alcuna conseguenza dopo l’esperimento.
Aveva funzionato, finalmente aveva scoperto come diventare immortale.
Jeremy si rimise al lavoro, programmando la macchina per qualcosa ben più grande di un coniglio, qualcuno che al contrario, non avrebbe avuto un biglietto di ritorno.
Una persona con il desiderio di vedere tutto.
Un sognatore.
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La numero 31 di Luisa Lajosa |
ha plagiato “La numero 31” di Eliana Mora |
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Il dottor Jacobs chiamò in ufficio la sua nuova assistente, la signorina Ellison.
– Entri pure signorina – la invitò il dottore, le mostrò la cartella dei gemelli Rick e Thomas – quindi iniziò a descrivere il caso:
– I ragazzini ora hanno undici anni, ma furono trasferiti in questa clinica tre anni fa. I genitori Theresa Scott e Jason Patterson, erano proprietari di un ranch in Texas a El Paso, una famiglia tranquilla. Sfortunatamente una crisi economica colpì lo stato, e Jason fu costretto a trasferirsi a Pasadena per lavorare nella piattaforma petrolifera.
Theresa si ritrovò da sola con due figli e il bestiame da accudire. Una sera in preda alla solitudine si scolò una bottiglia di tequila, i gemellini che allora avevano quattro anni, cercarono in vano di svegliarla, la donna si riprese il giorno dopo stordita e nel panico.
Disperata si scusò, promettendo che la cosa non si sarebbe più ripetuta.
Purtroppo gli episodi di sbronza divennero sempre più frequenti, e i gemellini crebbero da soli vedendo il padre di tanto in tanto.
La madre gli proibì di raccontare a chiunque il suo segreto, dicendo che gliel’avrebbe fatta pagare, e lei sapeva bene come punirli. Così ogni giorno i gemelli s’inventavano giochi macabri per far passare il tempo, una volta fecero esplodere una rana svuotando un pallettone del fucile da caccia del padre, la volta dopo toccò al povero Buck il cane di casa, lo attirarono in una trappola che avevano preparato con cura e lo lasciarono lì a morire.
Poi all’età di otto anni si chiesero fin dove potessero spingersi, così convinsero la madre ad accompagnarli al Rio Grande, il fiume vicino a casa. Con una scusa qualunque la attirarono in acqua e la affogarono. Mi chiedo ancora come facciano a dormire così sereni sapendo quello che hanno fatto. Da allora sono in cura nel reparto di psichiatria infantile, stanza numero trentuno. |
E’ assai improbabile che loro decidano di lasciarmi andare.
E’ altresì matematicamente certo che nessuno verrà a bussare alla mia porta, magari per sbaglio, magari… no.
E’ inoltre incontrovertibile che non ci sia alcun lampadario nel soffitto, solo filamenti di luce sulla parete, come ragnatele appese in attesa del grasso insetto per il quale catturano il pranzo.
Io non ho fame, non ne ho mai in questo luogo di ombre celate e sospiri sfuggiti.
Non ho sete, l’acqua è veleno in questo spazio onirico.
Questo incubo mi assale da tempo immemore, guidato da uno scampanellio che cessa all’improvviso quando il sogno mi possiede interamente. Ed allora li sento. Avverto il loro odore. Loro sono vestiti di bianco e non fanno rumore. Hanno facce sorridenti ma non possiedono un’anima. Per questo vogliono la mia.
Ho provato a stringere forte i pugni, corrugare la fronte e concentrarmi, ripetendomi in silenzio: svegliati, svegliati! Mi sembra quasi di riuscirci, a volte, ma a loro non sfugge niente, e nel mio incubo, invariabilmente alla stessa ora, le forze mi abbandonano e lascio che loro mi pungano con aghi sottili.
Le punture mi svegliano e l’incubo oscuro di tutte le notti sfuma, lasciandomi intatta.
E’ lunedì e i miei gemellini di sei anni sono già andati a scuola, accompagnati dal loro papà; torneranno con lo scuolabus all’ora di pranzo, i visetti sorridenti si accosteranno al mio, mi baceranno.
Nel pomeriggio faremo un giro al lago.
E’ così che deve essere.
E’ notte nella grande città. In periferia sorge l’ospedale. C’è un’ala di questo ospedale riservata alla patologia psichiatrica criminale.
Il medico responsabile del settore femminile è appena stato a controllare la paziente numero 31.
Come tutte le notti, si è addormentata dopo l’iniezione serale, e sorride nel sonno.
Il medico si chiede come faccia a dormire così serena da cinque anni, sapendo di aver annegato nel lago i suoi bambini.
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Uno più uno di Eliana Mora |
ha plagiato “La maniaca e lo sfigato” di Luisa Lajosa |
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Camilla sta uscendo da casa.
Sua madre dorme ancora, forse sbronza, forse immersa in un sogno dove non ci sono figlie
sedicenni che devono andare a scuola.
Camilla si avvolge nel cappottone grigio, inforca gli occhiali, ed esce.
Sedici passi sul marciapiede per arrivare al passaggio pedonale, dieci passi per attraversare la
strada, venti passi per raggiungere la fermata del tram.
Come tutte le mattine.
Non c’è nessuno alla fermata, bene!Non vuole vedere nessuno alle sette e trenta. Vuole solo salire
sul tram, sedersi nell’ultimo sedile in fondo, accendere l’ipod, la musica dei Van Halen sparata a
tutto volume, ascoltata ad occhi chiusi.
Il tram arriva, apre le porte,Camilla entra.
Marco è uscito presto.
Suo padre non può accompagnarlo a scuola come sempre con la vecchia auto sgangherata, così ha
preso il tram.
Si è seduto nell’ultimo sedile in fondo, osserva chi entra e chi esce ascoltando musica.
Marco sa che i compagni di scuola lo chiamano “maschera di ferro” per il suo apparecchio
ortodontico, a volte anche “ rosso relativo” per la tendenza del suo viso ad imporporarsi, ma non gli
importa: non può evitare di amare la vita, come non può evitare di sorridere e di arrossire.
Il tram ha chiuso le porte.
Camilla raggiunge il sedile in fondo, c’è un tipo seduto, riconosce Marco, lo sfigato della scuola.
Marco guarda Camilla, le sorride arrossendo.
“Oddio, la maschera di ferro in versione rosso relativo!” pensa Camilla, mentre si volta di scatto e
si siede nel penultimo sedile.
Camilla accende l’ipod, ma… niente: le pile scariche, o il contagio di Marco lo sfigato, hanno
divorato il rituale.
Resta il vuoto.
Camilla si sente chiamare, si gira: Marco le tende un auricolare da cui si diffondono le note di
“Jump”.
“Non è possibile!La mia canzone!” Camilla si alza, accetta l’auricolare sedendosi nel sedile
accanto a Marco.
Senza parlarsi, arrivano a scuola insieme.
Tenendosi per mano. |
Camilla, è una ragazza dall’aspetto goffo, ha grandi occhiali scivolati sul naso; si veste svogliatamente e non mette mai niente che possa attirare l’attenzione, già, proprio come nella famosa canzone di “Vasco”.
Tutte le mattine alle sette e trenta, aspetta il dodici, il tram che la porterà a scuola, percorre il corridoio e si va a sedere in fondo agli ultimi sedili, solitamente liberi a quell’ora, inforca le cuffiette, e si spara nelle orecchie i “Van Halen”, a tutto volume. Meticolosamente abitudinaria.
Tutte le mattine, tranne oggi, al “suo” posto c’è seduto Marco, a dir suo il ragazzo più sfigato della scuola.
Camilla tira su gli occhiali, come per convincersi che quello che sta vedendo è proprio vero!
Marco la guarda, la saluta e le sorride sfoggiando uno scintillante apparecchio ortodontico.
– Questo è troppo – pensa Camilla, e infastidita all’ennesima potenza, ripiega su i penultimi due sedili.
Tenta di ripetere il solito rito: accende l’ipod, inforca le cuffiette, seleziona la canzone tre, questa accenna appena trenta secondi e poi muore in un silenzio di tomba.
– E’ no! Adesso che c’è? – impreca.
Marco, osserva tutto da dietro, prende un bel respiro, e la chiama intimorito.
– Camilla?
– Che c’è? – risponde lei con tono molto incazzoso, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
– mi chiedevo se per caso volevi ascoltare il “mio” ipod.
Camilla ci pensa un attimo, è molto combattuta, non sa se cedere alle lusinghe dello sfigato, o se dover rinunciare al suo rito maniacale, si volta indietro, guarda un momento Marco, e poi si arrende.
Si alza, e si mette a sedere vicino al compagno di scuola, che le porge un’auricolare.
Con sua gradita sorpresa la canzone “Jump” sta suonando a tutto volume, guarda lo sfigato e riesce perfino a sorridergli. Dopo quella mattina, Camilla si siede tutti i giorni vicino a Marco, che da quel giorno ha perso il titolo di sfigato, guadagnandosi un nome e un’amica.
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Vendetta di Valeria Campana |
ha plagiato “Senza piombo” di Matteo Bigarella |
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Mattia è in ritardo di una vita. Proprio oggi le aveva promesso che non avrebbe tardato. Che non avrebbe più fatto lo stronzo.
Sfreccia in motorino per le vie della città, non rispetta precedenze né semafori rossi, cerca più volte di avvisare Giada. Lei però non risponde.
Entra nel locale come una furia, pronto a rovesciarle addosso il suo ottimo alibi a cui tanto lei non crederà. Ma Giada è andata via già da un pezzo, dice il cameriere, farfugliando qualcosa su una pompa di benzina.
Il distributore, già. Il loro primo incontro. Lei con l’auto in panne poco distante e lui, da prode cavaliere, la salva guadagnandosi la più bella scopata della sua vita.
Forse Giada ha lasciato apposta un indizio. Forse vuole dargli un’ultima possibilità.
Mattia ride. Cazzo se gli piace vedere le brave ragazze cadere ai suoi piedi.
Il piazzale è deserto, di Giada nessuna traccia. Deluso, Mattia estrae un pezzo da venti. Mentre infila l’erogatore nel serbatoio un’ombra passa alle sue spalle provocandogli un brivido intenso lungo la schiena.
Con un gesto brusco si volta, la pompa gli sfugge di mano e cadendo lancia un getto che gli inzuppa i jeans. Merda!
Mattia indietreggia, si rigira, si sente osservato. L’erogatore ormai vuoto giace esanime al suolo.
Un silenzio agghiacciante avvolge il piazzale. Mattia si guarda intorno, qualcosa gli striscia accanto, lo afferra alle caviglie, lo sbatte a terra. Lui si divincola, urla, cerca di rimontare in sella. Ma il tubo di gomma lo avvolge risalendogli lungo le gambe, i fianchi, il petto, la gola. E stringe.
Mattia è occhi negli occhi con il suo aguzzino. Nel suo acciaio cromato giurerebbe di averci visto Giada.
La bestia gli spegne il respiro e si ritira strisciando.
Poco più in là Giada ride. Cazzo se le piace vedere i bravi ragazzi cadere ai suoi piedi. |
Erica mette la freccia ed entra nel piazzale del distributore. È di malumore. Quel deficiente di Giorgio le ha dato buca un’altra volta. Peggio per lui, pensa, troverò qualcun altro con cui uscire.
La notte è eterna, per chi sa godersela.
Il piazzale è deserto. Erica guarda nel portafoglio. Ha venti euro. Li mette nella macchinetta del self service. Mentre infila la pistola nel bocchettone dell’auto, non può fare a meno di guardare il proprio riflesso nell’acciaio cromato della pompa. È una bella ragazza e lo sa.
Il clic la distoglie dai suoi pensieri. La pistola si è bloccata. Preme ancora. Un altro clic.
“Perché non vuoi funzionare?” sbuffa Erica. Guarda il display. È fermo a zero.
Prova ancora, ma la pistola non vuol saperne di partire. Che giornata di merda!
Le viene il dubbio di aver sbagliato pistola. Ma no, ha alzato quella verde, quindi non può essere quello il prob…
La pistola le sguscia di mano e si inarca a mezz’aria, come un serpente pronto ad attaccare. Sembra viva.
È viva.
Erica apre la bocca per urlare, e la pistola le spara addosso un fiotto di benzina.
Tossendo e sputando, Erica cade in ginocchio. Prova ad allontanarsi, ma la pistola le è sopra. Il lurido tubo di gomma le circonda le gambe, i fianchi, il collo.
E stringe.
Erica boccheggia, il cervello schiantato, i polmoni in fiamme. Invoca la mamma, il papà, forse anche Giorgio, ma la sua voce è un sibilo impercettibile.
Quando il tubo finalmente si riavvolge, Erica è solo un corpo che si raffredda sull’asfalto. La pistola la guarda con il suo becco che pare un occhio nero e rotondo, poi torna nel suo alloggiamento.
Non deve fare altro che aspettare. Presto arriveranno altri automobilisti.
La notte è eterna, per chi sa godersela. |
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Competizione di Cristina |
ha plagiato “Il cacciatore” di Fihtz Hood |
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Franco a scuola era il migliore, ma non sempre il più bravo. Capitava che, di tanto in tanto, riuscissi a prendere mezzo punto più di lui, anche se a costo di grandi fatiche e sacrifici. Preso il diploma ci iscrivemmo a Medicina. Al test di ammissione mi superò di quattordici posizioni, e ai primi esami ottenne votazioni più alte. Ero stanco di stargli in coda, volevo batterlo, vincerlo, per questo la notte studiavo da autodidatta. Quando quella sera entrai nel capannone, la mia cavia attendeva silenziosa sul tavolo da quattro giorni. Nuda. Supina. Guardandola ripensai alla fatica di catturarla rispetto alle mie precedenti. Barboni e prostitute erano state prede facili e soggetti di studio tutto sommato piacevoli, ma per questa cavia tutto era stato più pericoloso e, ora, più impegnativo. Il mio obiettivo, quella sera, era vincere lo schifo della putrefazione. L’anatomia umana mi era ormai nota, ma temevo che all’esame il puzzo di morte potesse bloccarmi, umiliandomi davanti a tutti. Un odore dolce e malsano mi assalì fin dalla soglia, ma soffocando un conato continuai ad avvicinarmi al tavolo. Afferrai il bisturi e praticai l’incisione a Y, storcendo il naso e trattenendo il respiro. Ce la posso fare, mi dissi, ma quando sollevai la pelle morta il fetore fu più di quanto potessi sopportare. Mi piegai sulle ginocchia e vomitai la cena, il pranzo e la colazione. Quando gli spasmi cessarono, mi pulii la bocca con il dorso della mano e sorrisi lanciando uno sguardo a Franco disteso sul tavolo. Nonostante tutto avrei preso un voto migliore del suo. |
Una sirena nella notte segnala l’inizio della caccia.
Potrei raggiungere il posto in quindici minuti ma sarebbe comunque troppo tardi: Thomasson mi avrebbe sicuramente preceduto. Oppure sarebbe stato McPearson ad arrivare per primo: quel giovanotto corre veloce.
A sessant’anni sono stanco di correre, sono sempre stato un cacciatore corretto ma dopo sei mesi di caccia infruttuosa sono costretto ad infrangere le regole.
Carico la pistola e sparo, la luce rossa si spegne. Un attimo di caos, il frastuono copre i miei pensieri.
Tre prede sono cadute nella trappola! Vive!
Con calma mi avvicino alle tre auto devastate; la pistola sotto la giacca, un sorriso in faccia e un biglietto in mano:
Dottor Frank Wood,
Specialista in chirurgia plastica ricostruttiva. |
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Ombre di Alessandra Parise |
ha plagiato “Il plotone” di Gian De Steja |
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La festa del patrono aveva sempre significato la fine della bella stagione e l’inevitabile inizio della scuola, ma più di ogni altra cosa ci teneva incollati all’infanzia per quel tempo che, allora, ci sembrava infinito.
L’immagine lontana dell’ultima fiera a cui partecipai segna il termine di quel lungo e alieno sogno.
Faccia di cane era un orribile quindicenne che seminava terrore tra noi pelleossa delle medie, e l’estate rappresentava l’unico rifugio sicuro dove nasconderci e sentirci semplici adolescenti senza paura.
L’idea di poterci liberare di lui – per qualche tempo – era nata alla fine di luglio durante un’interminabile partita a ce l’hai quando, sotto il solleone, quel pensiero appariva limpido e meno spaventoso di quello che fosse in realtà.
Il retro della chiesa sarebbe stato il posto ideale. La curva esterna dell’abside ci avrebbe coperti e non sarebbe stato difficile attirare Faccia di cane con qualche scusa o provocazione.
«Non saprà mai chi è stato» mi ripetevano, cercando di convincermi. «Quello che importa è che impari la lezione».
Avevamo rubato il sacco dal magazzino del padre di Rudy, odorava di polvere e legno ammuffito ed era talmente grande da far posto a due di noi.
Il muro del duomo divenne un cinema, reso ancora più abbagliante da una luna che, quella sera, traboccava chiarore neanche a farci dispetto. La parete bianca era lo schermo, le nostre ombre attori senza volto. Piedi e mani furono armi improvvisate, calci e pugni piazzati con ferocia che non ci si aspetta da dei ragazzini.
Faccia di cane non ci mise molto a crollare e a supplicarci di smetterla: lui come noi, noi come lui. Le sue urla, proprio durante il fragore dei fuochi d’artificio, mi spinsero a raccogliere da terra quel sasso.
Il resto è il ricordo del silenzio di quel ragazzo che non ci maltrattò più e della mia mano serrata attorno alla pietra.
L’unico colpo fatale del nostro agguato. |
Uccidere un uomo non è cosa da eseguire a cuor leggero, ma le assicurazioni dei compagni mi avevano convinto. “Un fucile è sempre caricato a salve”, mi dicevano. “Non saprai mai se l’hai ucciso tu”, mi rassicuravano. E allora mi decisi, ero stufo di piazzare timbri di congedo sui permessi. Lo feci quasi per gioco: mi offrii volontario per il sorteggio e fui tra i fortunati estratti.
Il condannato era un disertore, una carogna delle peggiori. Era scappato durante una battaglia e aveva ucciso il tenente che cercava di acciuffarlo. Una vera merda. Uno di quelli con la faccia da cane, tronfio e pieno di sè, che però riusciva a mantenere un contegno invidiabile: durante l’esecuzione rifiutò di mettersi in ginocchio e di indossare la benda. Voleva guardare in faccia il plotone. Faccia di cane era già piazzato davanti al muretto quando arrivai con gli altri. Ci porsero i fucili e ci sistemammo in fila, davanti al condannato. Ero il piú giovane di tutti e visibilmente il piú nervoso. Mentre il capitano leggeva il motivo della condanna e riceveva un composto diniego dal disertore alla richiesta delle sue ultime volontà, io mi stavo letteralmente cagando addosso. Non appena il capitano iniziò a impartire gli ordini fatali, la faccia di cane si tramutò in una maschera di panico e sgomento. Il volto solcato di lacrime non era piú quello di un criminale, era diventato innocente e puro come quello di un bimbo impaurito. Mi sentii precipitare in un vortice di nausea e all’ordine di puntare il mio dito premette il grilletto, facendo partire il proiettile dalla canna del mio fucile. Uno schizzo di sangue a imbrattare il muretto e un buco nero al posto dell’occhio, fu tutto ciò che vidi.
Il capitano diede il fuoco e il crivellare di colpi sul cadavere coprì il rumore del mio vomito. |
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Il buon mestiere di Matteo Bigarella |
ha plagiato “Il guardiano del cimitero” di Valeria Campana |
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La verità, signor procuratore, è che i vivi non mi sono mai piaciuti. Troppo presi dalle loro bassezze, dalle loro meschinità. E poi neanche io piaccio a loro. I miei compaesani mi hanno sempre considerato un vecchio misantropo un po’ sciroccato.
Naturale, in fondo: i becchini non sono molto popolari. Eppure è un buon mestiere. Un mestiere dignitoso, avrebbe detto mio padre. Anche lui era un becchino. E anche suo padre, e il padre di suo padre.
Non creda però che io abbia rinunciato ai miei sogni per portare avanti la tradizione di famiglia. Tutt’altro: io provavo autentica gioia nell’occuparmi dei morti. Passavo ore e ore ad ammirarli nella camera ardente. In fondo, so di essere un privilegiato. A me, solo a me, era concesso l’immenso onore di accompagnare i defunti nel loro ultimo viaggio.
Anche lei mi ritiene pazzo, vero? No, non serve che neghi, glielo leggo in faccia.
Ma non importa. Mi basta sapere di aver fatto la cosa giusta.
Sa, era un gelido pomeriggio di novembre, quando ho avuto l’illuminazione.
Stavo scavando una fossa, il fiato che mi usciva a sbuffi dalla bocca, e ricordo di aver pensato che i vivi in fondo non sono altro che morti imperfetti. Subito dopo, ho capito che toccava a me aiutarli a raggiungere la perfezione.
Così mi sono messo all’opera. Il primo è stato Franco, l’ubriacone del paese. La morte l’ha preso alle spalle, dolce come una carezza. Per lui ho organizzato un funerale da re.
Poi è stata la volta delle gemelle Petrantonio. In vita erano due bambine di otto anni come tante altre, ma da morte – perdoni la mia vanità di artista, signor procuratore – erano bellissime. Bellissime!
Il resto lo sapete, signor procuratore. Ho continuato ad aiutare i miei compaesani finché non mi avete arrestato. Rimpianti? Nessuno.
Spero soltanto che il prossimo guardiano del cimitero abbia la mia stessa dedizione al lavoro.
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In trentasette anni di onorato servizio aveva finito per preferire i morti alla maggior parte dei vivi del paese. Non che, in generale, avesse mai granché potuto sopportare gli esseri umani viventi. Almeno finché respiranti. Certo poi, una volta dichiarate nulle le funzioni vitali, era tutta un’altra cosa. Era per questo che, anche quelli che in vita detestava, da morti si guadagnavano lapidi lustre e fiori sempre ben curati.
Suo padre era guardiano del cimitero. E il padre di suo padre. Per quanto ne sapeva, se mai qualcuno avesse deciso di riprodursi con lui, anche suo figlio lo sarebbe stato. E il figlio di suo figlio.
Fare il becchino, nel piccolo e insignificante cimitero di quel piccolo e insignificante paese, non era certo il sogno della sua vita.
Ma, che ricordasse, nessuno aveva chiesto mai il suo parere. Semplicemente era stato addestrato fin da piccolo per esserlo. Che fortuna. Lui, il piccolo rampollo della famiglia Beccamorti.
Spesso la gente gli chiedeva se lo trovasse strano. Ma quando a otto anni passi le vacanze estive a lustrar lapidi e potare fiori, a dieci assisti alla tua prima riesumazione e a dodici scavi la fossa a tua madre, allora no. Non lo trovi più poi tanto strano.
I morti gli piacevano. Il silenzio immobile di una vita che fu. L’attimo che ti si dipinge in viso e poi rimane lì in eterno. Almeno finché i vermi glielo consentono.
Il tuo momento peggiore eppure quello migliore. Di certo il più dignitoso.
E forse era per questo che aveva cominciato. O solo per sconfiggere la noia e quel silenzio talvolta al limite dell’assordante. Ma d’altra parte, ad un certo punto, di aspettare che i vivi venissero spontaneamente a lui non ne aveva avuto più poi tanta voglia.
Di certo mai, prima di lui, quel cimitero aveva vissuto un periodo tanto rigoglioso. Se così possiamo dire.
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…e il suo regno non avrà fine di Paolo Rozzi |
ha plagiato “Indietro nel tempo” di Luca Romanello |
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L’Armageddon era alle porte.
Il pianeta, squassato dalle esplosioni, dilaniato dai terremoti, si contorceva rapidamente verso la fine.
Adam correva veloce su per la collina, trascinando Rosy per mano.
“Non ce la faccio più!”. Era esausta.
“Dài, accelera il passo!”
La ragazza arrancava, inciampando sui ciottoli sparsi sul sentiero.
Finalmente arrivarono alla radura. La zona proibita.
Il raggio di un sole obliquo la tagliava, illuminando la zona centrale.
“Eccola!”
In mezzo al semicerchio di alberi c’era la polla d’acqua.
Si fermarono a pochi metri dal bordo argilloso.
Il silenzio del bosco aveva cancellato ogni rumore dell’imminente catastrofe.
“Adam, non possiamo…” disse lei, ma non ebbe il tempo di terminare la frase.
“Dobbiamo tuffarci!” La sua eccitazione rasentava la follìa lucida.
Rosy tremava, incerta.
Adam guardò all’orizzonte le meteore di fuoco che piovevano sul loro mondo.
“Guardati intorno! Cosa abbiamo da perdere?” Indicò lo stagno “Questa è la porta, il passaggio temporale, la nostra salvezza…potremo tornare indietro, ricominciare tutto daccapo…”
Senza attendere una replica, Adam si tuffò.
L’acqua non si era neppure increspata, e Rosy notò che non riusciva a scorgere il proprio viso riflesso sulla superficie.
Lui la invitò a buttarsi, chiamandola e sorridendole per tranquillizzarla, ma i suoi movimenti sembravano meccanici, come quelli di una scadente registrazione su nastro.
“!eroma ineiV”
In un istante, il sole sparì e un’ombra scura attraversò la polla incollandosi ad essa come se qualcuno ci avesse versato dell’inchiostro.
Il sorriso di Adam si spense in preda a un terrore assurdo, in confronto al quale l’Armageddon non era che un trascurabile contrattempo. Infine capì.
“…otuiA”
Rosy sudò freddo: l’immagine dentro allo specchio non può essere reale…non è reale…
Un attimo dopo, si stava chiedendo cosa ci facesse lì, nel bosco, da sola, mentre un Adam di cui non ricordava nulla si divincolava tra le chele di una creatura mai esistita.
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«Ok, dovremmo esserci», disse il professor Rosi, finendo di armeggiare sulla macchina. «Partiamo con i test. Dottor Adamo, vuole avere lei l’onore?»
Il ricercatore non poté nascondere l’emozione, mentre faceva correre le dita sulla tastiera. «Test numero uno della macchina del tempo», registrò nel microfono. «Ora attuale: 18.30. Ora di arrivo: 18.25. Tutti i sistemi online e attivi».
Vide il professore annuire. «Perfetto!»
«Cinque secondi all’avvio sequenza», sentì dire alla voce calda del computer. «Cinque».
Ad Adamo sembrava mancasse qualcosa, la stessa sgradevole sensazione che provava la mattina quando usciva di casa, incapace di ricordare se avesse chiuso il gas oppure no.
«Quattro. Tre. Due».
Ma non si trattava del gas, e alla fine capì: la data sul monitor segnava primo gennaio dell’anno zero. «Porca putt…»
«Uno. Avvio sequenza. Azneuqes oivva. Onu».
«…ttup acrop».
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gigi
Il silenzio degli uscenti.
gelo stellato
macchè! stanno leggendo, e prima dovevano guardare almeno tre volte il video dei modi scemi di crepaare 😀
Cybsix
Eh ma… gli esclusi… ma che sfigati che siamo… cioè, fa una tristezza sta parola. Mi fa pensare a immagini di lager, all'inter, a toto cutugno, cioè ecco. Avrebbesti potuto chiamarci almeno almeno "quelli che se non fosse stato per loro non ci sarebbero vincitori" oppure "i quasi inclusi" robe così, tanto per darci un contentino… 😀
Una sempre più gialla Cyb
kendalen
in effetti, è quasi vallesiano… dopo "Le persone inutili", "I copioni esclusi". Tristezzorama.
😀
gelo stellato
okay, ora cambio 😉
Cybsix
ahahaahahah!! ai lov iu!
kendalen
Ma LOL! 😀 😀 😀
gelo stellato
e poi non venite a dirmi che non è un blog di strafighi! 😀
Valeria
O diversamente fighi che dir si voglia! Appena esco dal loop dei modi scemi per crepare inizio a leggermi i racconti. Complimenti ai vincitori tra cui ci sono molti dei miei preferiti (sono una diversamente vincitrice ma c'ho buon gusto, eh).
Riccardo Sartori
Bravi tutti comunque! 🙂
Davvero, del girone da votare non sapevo chi scegliere; del mio sarei stato parecchio in difficoltà…
Ma i diversamente vincitori non sono da buttare via! Anzi: un ebookino ci starebbe pure. Io lo leggerei volentieri! 🙂
M. Bigarella
Bravi tutti, un complimento particolare a Valeria Campana che ha migliorato il mio racconto sulle pompe di benzina assassine arricchendolo con una storia d'ammmore!
Valeria
Ciao Matteo, grazie carinissimo, ma devo dirti che trovo "senza piombo" davvero molto moltissimo bello e quando l'ho letto la prima volta, bè, volevo spararmi! 🙂 Però c'ho provato lo stesso, eh. Complimenti! Anche per il Buon Mestiere, mi è piaciuto parecchio! L'accoppiata "Uno più uno"
e "La maniaca e lo sfigato" è la mia preferita insieme ad "Ombre" e "Il Plotone"! Bravissimi!
eliana.m.
Ciao Valeria, ti ringrazio per la preferenza dedicata alla mia squadra "Uno più uno" e "La maniaca e lo sfigato", è stata brava Luisa a raccontare un momento di vita, io non mi sono sforzata molto nè ho cercato di stravolgere lo spirito del suo racconto,che aveva un suo perchè. Strano,poi, come certe correnti telepatiche si insinuino tra le menti… io ho votato "Vendetta" e "Il buon mestiere" tra i miei 4 preferiti! Bravi! E bravi a tutti!
malosmannaja
beh, è stato divertente assai (se puoi, avvertirmi in caso di ulteriori iniziative: io ci sono).
molto simpatico il video dei dumb ways to die, ma allora, a proposito di video, anche questo è molto divertente…
https://www.youtube.com/watch?v=n4YMIpVP7Ko
: ))