"La sala da ballo e altri racconti" di William Trevor***

"La sala da ballo e altri racconti" di William Trevor***

Non saprei dirvi se è bellino o appena sufficiente, questo libro.
Non mi ha colpito, questo no, e sulle prime, dopo averlo finito, pensavo che non era granché. Pensavo di dargli due stelline, insomma.
Poi però continuavo a ricordarmi quella malinconica tristezza e quella rassegnazione del racconto che dà il titolo al libretto.
Un single oramai fuori mercato che frequenta la sala da ballo del paese, al sabato, in mezzo ad altre e altri single della stessa pasta, rinchiusi in una cappa di quella che oggigiorno chiamiamo “sfiga” eppure, almeno lei, la protagonista, cosciente di tutto.
Un vita sacrificata al nulla, con la malattia del padre che è più scusa che causa, e una sorta di rassegnazione cosciente. Un “La mia vita va come non vorrei ma lo accetto e non cambio, anche potendo” che è difficile non leggere, quel non potendo, come un “non volendo“. E poi c’è la provincia, in questi racconti, irlandese ma non solo. Quella pochezza umana che si incontra negli uomini di Bridie, la protagonista della sala da ballo, che con una terza persona che ripete spesso il suo nome, nel narrare, te la rende ancora più esterna di quanto è, come un modo compassato di guardare la sua non-vita.
Anzi, vi scanno un pezzettino, così vedete:

La gente arrivava in bicicletta o a bordo di vecchie automobili; era gente di campagna come Bridie, che veniva dai paesi e dalle remote fattorie sulle colline. Persone che non si vedevano spesso si incontravano lì, ragazzi e ragazze, uomini e donne. Pagavano il signor Dwyer ed entravano nella sua sala da ballo dove la luce soffusa di una lampada di cristallo proiettava le ombre sulle pareti azzurre. L’orchestrina che suonava, la Romantic Jazz Band, era composta da clarinetto, batteria e pianoforte. Il batterista a volte cantava.
Bridie andava a ballare lì da quando aveva terminato la scuola dalle suore della Presentazione, prima che sua madre morisse. Il viaggio, undici chilometri per andare, undici per tornare, non le pesava: aveva percorso quella distanza ogni giorno per andare dalle suore con la stessa bicicletta, una vecchia Rudge del 1936, che un tempo era stata di sua madre. Di domenica percorreva otto chilometri per andare a messa, ma nemmeno quelli le pesavano: ci era abituata.
«Come stai, Bridie?» le chiese il signor Dwyer una sera d’autunno vedendola arrivare con un vestito rosso scarlatto nuovo. Lei disse che stava bene e in risposta alla seconda domanda di Dwyer disse che anche suo padre stava bene. «Verrò a trovarlo uno di questi giorni», promise il signor Dwyer, una promessa che oramai faceva da vent’anni.

Ecco. Questa la cosa bella di questo, ma anche degli altri due racconti, che questo sguardo disilluso sulla non-vita non lo perdono mai.
Ciononostante, pur rapidi, e con lo stesso stile, gli altri due racconti mi sono piaciuti un po’ meno.
Nel secondo, un orfano racconta prima di suo padre, poi di sé, alla ricerca dei ricordi del primo e di se stesso, usando come perno per il ricordo un tal sig. McNamara che in realtà non ha mai visto, né, probabilmente, mai vedrà. 
Nel terzo, particolare, senza dubbio, si racconta della luna di miele, unico piccolo sprazzo di vita, di un adottato con la sua padrona, incinta di un altro pigliato a caso. Unico sprazzo di vita perché pur non dicendolo si lascia intravedere che tutto, da lì in poi, sarà non vita, legata alla fattoria, al lavoro e ancora al lavoro. 
Insomma… anche qui, si racconta una non-storia d’amore. E certo, non è che mi abbiano preso del tutto, durante la lettura, questi due racconti. Però non è possibile bocciarli. Anzi.
C’è quel raccontare le pieghe mal riuscite dell’esistenza, dando tra l’altro un forte background religioso (vedi l’aborto non riuscito del racconto 3, il collegio iperchiesaiolo del racconto 2, il non scopare del racconto 1), che è comunque da salvare e anzi, è bello. 
Quindi sbagliavo, a giudicarlo da due stelline solo perché durante la lettura non mi aveva detto chissà che, ‘sto William Trevor (1928 e ancora vivo) che non conoscevo e che ha pubblicato parecchia roba, che ignoravo esistesse. I racconti hanno il loro perché
Ah, chiudo dicendovi che lo so benissimo di aver saltato un numero (Magris) e di essere indietro di due (Morante e quell’altro che non ricordo), ma recupererò, suvvia.
Alla prossima!
Anzi no, guardata, visto che mi gira bene, vi saluto con un altro piccolo scannamento.
Dal terzo racconto, l’analessi che ci racconta la storia del marito accalappiato poi da Kitty, eccola qua:
Aveva trentatré anni, Kitty due di più. A quindici era stato preso dall’orfanotrofio di Cork dal padre di Kitty e da suo zio Ned Cauley. Avevano bisogno di un ragazzo per la fattoria, e padre Tolan, che all’epoca era parroco, si era informato da padre Lyhane all’orfanotrofio per conto loro. «Davy Toome è un bravo ragazzo», aveva detto padre Lyhane, e un paio di settimane più tardi, dopo che la notizia era stata trasmessa ai contadini e che padre Doran era stato rassicurato sulla robustezza del candidato (doveva lavorare in campagna), il ragazzo, munito di un’etichetta con il proprio nome, era stato messo su un treno e spedito a destinazione. «E non hai mai lavorato in campagna?» aveva chiesto lo zio di Kitty, Ned Cauley, seduto accanto a lui sul carro mentre avanzavano lentamente sulla strada che veniva dalla ferrovia. Davy non aveva mai visto un campo di grano, tantomeno cj aveva lavorato. «Mi sa», disse lo zio di Kitty, che aveva passato un’ora al bar Doolin vicino alla stazione, «che abbiamo comprato a scatola chiusa.» Lo ripetè in cucina quando arrivarono, mentre sua moglie e suo cognato guardavano Davy, pensando in silenzio che non sembrava forte come il prete aveva promesso. «Mi fai il favore di toglierti quell’etichetta?» gli disse la donna, e poi, in tono più gentile, gli chiese come si chiamasse. Non aveva mai sentito il nome Toome, disse, e lui spiegò che gli era stato dato quando era entrato all’orfanotrofio da piccolo. C’era un sacerdote che si occupava di dare un nome agli orfani. Il suo nome era in ricordo di san Davide. «Toome» invece significava tumulo sepolcrale. «Ma avrà la testa a posto?» aveva sentito chiedere in seguito il padre di Kitty a suo cognato, e lo zio aveva risposto che non si poteva essere sicuri, a giudicare da come parlava di tombe.
Alla prossima!

Comments

  • Anonymous
    23 Luglio 2012

    Grazie Gelo! Ottima recensione, penso proprio che leggerò questo libro 🙂
    Fiorella

    reply
  • 26 Luglio 2012

    Sì, a me sono piaciuti. Peraltro, mi sa che il secondo racconto o non l'ho capito io o non l'hai capito tu. Perché McNamara alla fine lo incontra (credo). E il bello sta proprio in quell'incontro! Fammi sape' se te lo rileggi.

    reply
    • 27 Luglio 2012

      ho riletto sì
      e a me pare che non ci dia la certezza di incontrare mcNamara
      trova la tipe e si immagina certe cose, per altro con punto di vista di adolescente, quindi distorte, e poi non sa se quel che vede è chi crede che sia. Era tutta nei pensieri suoi la storia di adulterio del padre, che per quanto ne so poteva essere tutta una proiezione del protagonista.
      Io lho vista così, per quanto verosimile come proiezione.
      Abbiamo la certezza del barista, per esempio, ma di McNamara no, anzi, avevo trovato bella questa sospensione, questo costruirci il finale su un'idea di.
      ma potrei non aver capito un cazz, eh. 😀

      reply
  • 9 Agosto 2012

    E' stato un bel assaggio ,mi è piaciuto questo brano;mi preparo per andare in feria e siccome mi piace leggere penso che questo libro sarà quello giusto.Teresa J.

    reply

Post a Comment

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.