"Vendetta" di Agota Kristòf***

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"Vendetta" di Agota Kristòf***

Allora. Ieri sto per andarmene, e vedo fuori lì, sul cazzetto dei libri nuovi (nel senso di appena acquisiti, non appena usciti) questo libro sottile. Oh, la Kristof, dico.
Ricordo che comprai la trilogia di K una paio d’anni fa o di più, forse tre, non ricordo, quando dopo aver vinto un premio in soldi da comprar libri per un concorso di poesia compravo un po’ di cose accazz che “un giorno avrei letto”. 
La maggior parte sono ancora là, sul mio scaffale, ma questo ricordo che tipo il pomeriggio dopo o il giorno stesso la Kristof ci salutò per la terra dei più e io pensai che porto sfiga.
Okay.
In ogni caso ieri ho visto La vendetta.
Era corto, cortissimo, ed erano racconti, racconti mini.
E allora l’ho preso e me lo sono letto.
Me lo sono letto sul bagnasciuga, riflettendo e pensando tra una storia e l’altra. E guardando la risacca, che se ti siedi lì, sull’orlo, a farti riempire il culo di sabbia, e guardi di qua e di là, sembra che ci siano un sacco di parentesi che si vanno creando e rimpicciolendo continuamente, e insomma, è piacevole fare certe letture se hai un contorno adatto.
Mi è piaciuta, questa serie di… boh, una ventina, 25 forse, raccontini, alcuni di 3-4pagine, altri anche solo di una, che avevano per buona parte il denominatore comune della malinconia, la tristezza, a volte persino il nichilismo (accennato, okay, ma pur sempre roba da spararsi). Non erano tutti belli, un paio li avrei evitati volentieri, come quello di apertura, kafkianumoristico, caruccio, ma letto e riletto altre volte altrove, in cui la moglie chiama il medico perché il marito che russava è caduto dal letto su una mannaia, conficcata in testa, oppure quello che vi metto qui sotto, quasi in direzione del prose poem, bellamente eseguito, il più corto di tutti (una paginetta), leggetelo, intanto:
Il ladro di appartamenti

Chiudete bene la porta. Io arrivo senza rumore, con le mani guantate di nero.
Non sono il tipo brutale. E neppure vorace e stupido.
Sulle mie tempie e sui polsi potreste ammirare il disegno delicato delle vene, se ne aveste l’occasione.
Ma io entro nelle vostre stanze soltanto a tarda notte, quando l’ultimo degli invitati è andato via, quando i vostri orrendi lampadari si sono spenti, quando dormono tutti.
Chiudete bene la porta. Io arrivo senza rumore, con le mani guantate di nero.
Vengo solo per alcuni istanti, ma sette sere su sette e in tutte le case senza eccezione.
Non sono il tipo brutale. E neppure vorace e stupido.
La mattina, quando vi svegliate, contate i vostri soldi, i gioielli, non mancherà niente.
Nient’altro che un giorno della vostra vita.
Ecco, sul momento ti piace. A me è piaciuto. Ma poi mi è venuta in mente, ripensando, la frase “eh, ti piace vincere facile, eh” e mi è piaciuto un po’ meno, perché alla fine, l’idea, è sempre quella, solo molto ben eseguita. Comunque questi sono i racconti più “pop” contenuti in queste settanta pagine. Ce ne sono di più criptici, soprattutto quelli su strade e case, che sono spesso i veri personaggi – le case soprattutto – dei racconti, in cui gli umani fanno quasi i comprimari. 
Racconti di nostalgia, di esclusione, di esilio, spesso. La perdita, ecco da dove viene, per lo più, la malinconia. E ci sono anche parecchi passaggi di un surreale decisamente gradevole, anche se criptico. Mi permetto di lasciarvene un altro, sperando che non arrivino a denunciarmi torturarmi ecc ecc. 
Questo qua:
Fa lo stesso

In alto, in basso, teste blu, cardi. Qualcuno canta qualche cosa. Fa lo stesso, non è nemmeno bello, è una canzone triste, antica.

– E domani ? Ti alzi, dove vai ?


–  Da nessuna parte. O forse, dopotutto, da qualche parte andrò.

Fa lo stesso, in ogni caso si sta male ovunque. Ma dormire è difficile, ci sono le campane che suonano, gli orologi.

–  Stenda il fazzoletto, signore. Vorrei inginocchiarmi.

–  Si accomodi.

Nel tram erano in due. Uno tirava il campanello, l’altro faceva i buchi.


Non c’era nessuno che scendesse al capolinea.

Eppure è lì che si fermano tutti i tram.

E neanche nessuno che salisse.

Fa lo stesso.

Si mettono in ginocchio, scambiano qualche parola.

– Le va di scambiare qualche parola con me?

– Credevo volesse pregare.

– Già fatto.

– Oh, allora le cose cambiano. Possiamo ripartire. Le telefono domani.

–  Che notizie mi dà?

– Come stanno i bambini?

– La ringrazio. Per ora di malati ce ne sono solo due. I più grandi vanno nei negozi, per riscaldarsi. E da voi?


– Niente di particolare. Il nostro cane non sporca più. Abbiamo comprato dei mobili a credito. Ogni tanto nevica.

Ecco. Questo sul momento ho dovuto rileggerlo, eppure, poi, mi è piaciuto. E mi è piaciuto di più.
Ha un naif musicale e mi ha fatto piacere pensare che mentre quello di prima, forse, l’avrebbero potuto scrivere in tanti, questo no, questo di meno.
Ho scoperto, per altro, che la Kristof scrive in seconda lingua, (francese, lei è ungherese) e sta cosa è tanto, tanto importante, per me, per determinare lo stile di scrittura. Queste frasi brevissime, questa rarefazione, alcuni accostamenti descrittivi che paiono bambineschi, come di chi impara a parlare e non si azzarda in voli pindaricolinguistici. Non che sia così, eh, però forse, se scrivi in una lingua non tua, ti viene a mancare l’immediatezza della parola – cognitivamente – e quei millesimi di secondo ti danno il modo per altre strade che portano ad altre parole, altri accostamenti. Erano comunque solo riflessioni mie, da bravo studiozioso di lingua friulana. 
Okay, direi che è tutto.
Per leggere altri racconti di questo libro, potete cliccare a questo link, dove trovate anche l’indice.
E poi boh, basta così, ah no, altra cosa, costa ottoeuri, e per 70 pagine di cui almeno venti son bianche, forse è troppo, e quindi, nel caso, leggetevi prima i racconti va.

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