“L’incontro” di Michela Murigia**
E’ da un paio di settimane che non aggiorno… vero. Non è che non ho fatto niente, anzi. Se non aggiorno vuol dire che faccio altro. Ma qualcosa ho letto, qualcosa ho scritto. E insomma… aggiorniamo. Poi, stasera, mi serve. Scrivere qua mi mette in ordine la testa, a volte. A volte no. Ma tanto vale tentare. E poi adesso mi sono piazzato. Tre docce, bevuto boh, cinque sei litri di liquidi, fatto giro in bici, lezioni, commissioni, scritto… tanta roba. Oggi ho avuto l’idea di andare a correre tipo alle due e mezza. Figo. Facevano un sacco di gradi e mi sono preso una playlist che tipo era 100% good vibes, o qualcosa di simile. E lo era davvero! Cioè… insomma, tre km e mi pareva di stare tipo il re del mondo, a ballare correndo jamie xx e schivare i viticci delle viti mentre guardavo dove andrò a rubare l’uva stanotte. Poi invece mi sono accorto che era tipo laddhroga, cioè, o mi fermavo all’ombra o stavo cominciando a vedere dei draghi, solo che non volavano, su scioglievano sudando. E mi sono divertito molto. Correre col caldo a 50° è strafigo. Ed è una roba di bambini, che i grandi, temo, non capiscono. Infatti mi suonavano il pivetto, i grandi.
Ma la verità è che le capiscono benissimo, ma non hanno il coraggio. Quindi, se mi parli di bambini e di grandi, dovresti ricordare che se lo fai, se uno dei grandi, quindi mentre mi descrivi le sensazioni, il sentire, l’agire, dei bambini, e niente, lo stai facendo tu, dal tuo pulpito di grande e ti stai, in pratica, arrogando la spocchia di non esserlo. E pensavo a questa cosa, oggi, mentre correvo e mi girava la testa e se non c’era l’acqua del cimitero sarei tipo svenuto ma ridendo come un idiota. Pensavo che è bello questo, che sei un bambino, quando l’idea di fare una cosa che muori ti rende felice. Tipo correre sotto il sole a 50 gradi o scendere in un cunicolo spostando una grata senza pensare a cosa ci possa essere sotto. No, okay, questa cosa non l’ho fatta, ma il bambino del libro, Maurizio 10 anni, di un immaginario paese sardo che è in pratica tutti i paesi sardi, lui sì, lui lo fa. Il problema è che mentre lo fa mi sembra farlo pensando quasi con la testa di un grande. E no, non può funzionare così. Sei un bambino. Un bambino di paese. Un bambino di paese dentro un’avventura.
Ma ora mi sono un po’ perso, scusate.
Era per dire che questo libro, che dovrebbe essere un breve romanzo di formazione poi subito si trasforma in romanzello sociale, non è qualcosa di riuscito. Se volete farvi un’idea totalitaria della Murgia, okay, leggetelo, per dire di aver letto tutto, ma se non siete così motivati, questo lo potete lasciare da parte. Credo, tra l’altro, la sua genesi spieghi già molto.
Oh, che poi, oggi, mi sono pure perso in una storia, solo che la stavo scrivendo e non dovevo perdermici dentro, ma mi tavo addormentando e l’ho sognata, ma era sbagliata, poi con la corsa ho pensato due cose, due idee, e la storia si è aggiustata. insomma… è stata una giornata piena di giravolte e capriole, ecco. Ma io vi devo parlare del libro, e non dare la parola al vodka lemon.
Dicevo, il libro. “L’incontro” di Michela Murgia. Non è un granché. Anzi,.è proprio un po’ difettoso. Ci si perde in un’avventura dei tre amici, quasi subito, solo che alla fine non ha alcuna importanza per l’economia del libro. Non spiega il loro rapporto, che era tale sia prima sia dopo l’avventura, e non è fondamentale per la seconda cosa, l’avvenimento religioso paesano che è il cuore del romanzo breve. Anzi, è come un fatto buttato lì, che serve per allungare, sennò oh, al numero minimo di pagina qua mica si arriva. Idem il fatto, che ne so, che a inizio libro si dice almeno tre o quattro volte il concetto che la vera parentela e fratellanza è solo con il rapporto di bambino dello stesso paese che si raggiunge e blablabla… si, okay. Serve dirlo settordici volte? Sì, certo, con belle parole, ma avevo capito già con la prima volta.
Insomma… è un romanzo che alla fine pecca del suo essere, in realtà, un racconto breve, che probabilmente nella brevità poteva essere incisivo, ma appena viene un po’ diluito, senza mettere mano alla struttura e alla sceneggiatura dei fatti, ecco che perde mordente e confeziona un’idea di “riuscito male” che ti resta addosso a fine lettura.
Oh, certo. Potrei anche dire che per un ragazzino in cerca di letture facili potrebbe andare anche bene, ma non ne sono certo. In primis perché ha un inizio pesantuccio e farragginoso, con questo concetto ripetuto che io posso anche apprezzare, a livello di scrittura, molto buona, ma un ragazzetto no. E poi, c’è pure il fatto che l’ambientazione che riporta a qualche tempo fa, in un contesto “d’altri tempi” potrebbe anche essere poco digeribile per un lettore di oggi, che vive nel presenze. Per dirne una, fare il chierichetto con quel trasporto, con quel sistema di potere, con quell’idea di essere e diventare qualcuno facendolo… beh, è proprio lontana dal lettore moderno 10-15enne.
Per la trama vi rimando ad altri, perché essendo molto scarna non è il caso che vi dica molto io. Sappiate che c’è la provincia sarda, le beghe del borgo, la religione intesa come promazione dell’umanità e soprattutto dei suoi difetti.
Ecco. alla fine il pregio maggiore è questo. L’idea di inventarsi un litigio religioso tra processioni per mostrare la piccolezza dell’umano, la pochezza del nostro essere. La risolveranno i bambini, ovvio, in un’azione telefonata e stucchevole ma d’impatto sul lettore leggero. A me non è piaciuto. Ma insomma… sono un cagacazzi, si sa. Amen.