"La leggenda del santo bevitore" di Joseph Roth***
Ieri ero in treno. Il treno, per me, se allunga le gambe per più di mezzora sulle rotaie, significa leggere. Poter leggere e voler leggere.
Anche dormire, sì, ma leggere lo preferisco. Così ieri, che non volevo avere bagaglio, a parte il borsello delle meraviglie, modello eta beta, mi sono portato via qualcosa che stia lì dentro.
Cioè questo.
Quelli della mia età, La leggenda del santo bevitore, se lo ricordano perché quando c’era il film, è diventato di moda. Se ne parlava, forse addirittura te lo dicevano a scuola, di guardarlo. Ebbene… come tutte le cose di cui si parla e che ti dicono di, io naturalmente non l’ho cagato.
Forse manco sapevo fosse un libro, o forse sì, ma quasi sicuramente non avevo collegato il libro al suo autore e il suo autore al volerlo leggere.
Così, tempo fa, quando l’ho visto sugli scaffali del mio spacciatore di libri, e ho visto che era così sottile, che era, anzi, un racconto, e non un romanzo, e ho realizzato che Joseph Roth non è quell’altro Roth, di cui avevo letto la tetta, e nemmeno il Tim Roth, che ha fatto il pianista e adesso fa le serie TV fighe e gli vengono pure bene, e nemmeno altri Roth, che ne so, Veronica Roth, che scrive le robe di Divergent, o Rothko, che dipingeva, insomma… dai, su, scherzavo, fatto sta che appena ho realizzato che lo potevo leggere me lo sono rubato e siccome stava giusto nel borsello ieri mattina me lo sono letto. Non sapevo cosa aspettarmi. Per un attimo pensavo che fosse un qualcosa di legato alla guerra (di Roth, di recente, mi sono letto i raccontini d’autore, e in passato remoto, o anche trapassato, la Cripta dei Capuccini, di cui non ricordo nulla) ma poi ho letto che no, che era bene o male la storia (autobiografica) di un ubriacone.
Che poi forse, va detto pure che il film del ’88 era di Olmi, e che la fotografia era di Spinotti, il mio corregionale, e che il film ha vinto un po’ di cose.
Tante parole per dire cose, insomma, che voi tutti magari conoscete di sicuro, visto che avrete visto il film, con rutger hauer o come diamine si scrive, ma io no. io nemmeno il film dove faceva il cieco, ho visto, e quindi io l’ho letto come se nulla sapessi.
E?
E niente. L’ho letto volentieri, ma non ci ho trovato poi grandi cose, dentro. Non mi ha illuminato, né mi ha fatto pensare a un piccolo gioiellino, pur restando sulla soglia di parabola lontana dalle solite, piene di ammmore e condanna per i vizi. L’ubriacone è proprio Joseph, che manco a dirlo, questo manoscritto, non ha avuto nemmeno il piacere di vederlo pubblicato, essendo crepato poco prima a causa di una polmonite mal diagnosticata che non ha avuto aiuti da un delirium tremens accompagnatorio. Era il ’39 e aveva poco più di una quarantina d’anni, e bene o male è così che mi sono visto Andreas, il protagonista, barbone parigino di sotto la Senna che però ha un suo codice, una sua dirittura morale, benché minata e distolta dall’alcol e dalle esternità della vita.
Eh, già, Perché se prendi un barbone parigino e gli dici: “o ciccio, tu proprio tu, ti voglio dare 200franchi, sull’unghia” e quello non li vuole perché non potrebbe renderteli, beh, niente di più facile che dirgli di renderli alla piccola Santa Teresa, in chiesa, e quello finirà per provarci, e per berseli, e ritrovarli, e riperderli, e ritrovarli, e via, a perderli di nuovo. La vita è fatta così, finiamo i soldi sempre, e quando ritornano, non riusciamo a restituirli ai nostri sogni, ma li riperdiamo con i vizi.
Non c’è molto altro da dire, no, O meglio, vista nell’ottica di testamento spirituale e involontario di Roth, è senza dubbio interessante analizzare le vicende di Andreas, barbone finito sotto un ponte a causa di una donna difesa, al quale capita un po’ di tutto, bello e brutto, non appena i primi soldi mettono in moto le cose. Fortune, per lo più, subito divorate dall’alcol e dal suo lasciarsi andare, scivolare, lasciarsi distogliere.
E’ che poi ti chiedi, ma fa veramente così bene avere un progetto, un qualcosa da raggiungere, o magari ha ragione Andreas che è come una nuvola, in balia delle cose, convinto di essere alla fine benvoluto dal mondo ed essere comunque in gamba e avere questo credito continuo fatto di piccolo e meno piccoli miracoli? Non lo so. E’ una leggenda, e ha un tono favolesco, e quindi occhio, non venite a cercare in questo racconto grandi sfumature narrative e stilistiche: il registro è semplice, la costruzione banalmente cronologica, i pensieri lineari e semplici.
Anche perché, com’è che lo volevate un barbone? Suvvia…
La chiudo, quindi. E non posso dire che mi sia dispiaciuto, ma certo credo che questo “soggetto” – ché di tal cosa si parla se pensiamo al film – si merita una lettura soprattutto se si vuole apprezzare totalmente la trasposizione cinematografica o se, altrimenti, si vuole un filtro luminoso per valutare vita e altre opere di Roth. Andreas è pur sempre l’uomo per come lui, Roth, si vede: cattivo, sbronzo, ma in gamba.
Se invece non vi interessa tutto ciò, okay, potete vivere anche senza leggerlo.
Ah, vi saluto mettendo Rothko, visto che ho fatto la battuta. Per farvi sentire più colorati dentro, che fa sempre bene.