"Estensione del dominio della lotta" di Michel Houellebecq***

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"Estensione del dominio della lotta" di Michel Houellebecq***

Ho la mattina libera, oggi, e un lavoro unico, da settembre. Ho in loop questa nuova canzone uscita ieri delle warpaint. Ipnotica, nelle percussioni, per certi versi. E bella, sì.
Il libro di Houllebecq invece non è ipnotico, ma psicologico, e io l’ho letto tanti giorni fa, a inizio estate, luglio, credo, finendolo in un paio di giorni perché è corto e si legge bene.
E’ una prima persona. Una scrittura fatta di frasi brevi, di capitoli brevi, affilata, sì, per certi versi, e non so perché mi verrebbe da dire che non mi sembra francese, che poi, come se alla scrittura si potesse dare una nazionalità. Europea, ecco. Questo sì.
Ma dicevo… vediamo di scrivere e mettere via questo libro.
Il libro è del 1994, l’anno d’oro per la musica, la mia, per lo meno.
E credo sia un bel romanzo, psicologico e abbastanza cattivo, com’erano le cose in quell’anno, fatto di voglia di cambiare le cose, ma che perde mordente con il passare del tempo. Il 1994 sono venti e passa anni fa, e i romanzi che hanno per protagonisti il male di vivere sono obsoleti.
Ma rinnovabili, però, questo va detto.
E ha molto senso leggere la storia del nostro protagonista, che ora come ora non ricordo nemmeno se ha un nome, e di Tisserand, che quello sì invece ti resta, come nome.
Tisserand è il suo collega di lavoro, programmatori, ed è brutto. E sfigato. Non si sa se più sfigato o brutto.
Ma adesso faccio pausa che devo fare cose. Tipo preparare un pranzo ai miei che sono a lavorare, va. E mentre faccio ascolto zack de la rocha.
Ecco si. Ho fatto una pasta tonnorto che era uno spettacolo. Sono bravo a cucinare, se lo faccio per me o per gente con le tette grosse.
Ma ho perso la mattina e quindi il post lo finirò più avanti. 🙂
Ecco.
Oggi è domani, il domani di ieri. Come sospettavo.
Che poi tempo, mica ce l’ho. Disfare l’impalcatura per un totem da dieci metri che quest’anno non farò, fare lo striscione per la partita, da mangiare ai miei un’altra volta (oggi peperoni pomodori capperi e acciughe, come sugo, come i poveri) e insomma… metti anche sistemare il pokedex dopo aver fatto il fortunuovo stamattina, il tempo vola e sparisce.
E quindi niente, vado a correre, ho un sacco di km da fare, perché voglio fotografare dei topinambour, a Basaldella, nel greto del fiume, se ci arrivo. Se ci arrivo ve li metto qua sotto.
A dopo, per parlare del libro.

Ecco. Siamo dopo.
Sapete quant’è passato?
Una settimana. Sì, una settimana. E’ venuta a trovarmi Noemi, ho avuto da fare e non da fare. E’ uscito Bon Iver e non mi piace. Piove. Non ho letto un cats e boh. Niente. Finiamo questo post e mettiamo giù questo libro. Ma ho deciso che leggo insieme a voi qualche pezzo.
Ecco. Dalle prime pagine questo pezzo, che ci fa capire con che razza di protagonista abbiamo a che fare.

Due giorni dopo era domenica. Sono tornato nel quartiere, ma della mia macchina non c’era neanche l’ombra. La verità è che non ricordavo più dove l’avessi parcheggiata; e poi tutte le strade sembravano quella giusta. Via Marcel Sembat, via Marcel Dassault… un tripudio di Marcel. Edifici rettangolari, dove abitano persone. Violenta impressione di specularità. E la mia macchina?
Mentre camminavo in mezzo a tutti quei Marcel mi sono sentito pervadere da un crescente fastidio per le automobili e per le cose di questo mondo. Da quando l’avevo acquistata, la mia Peugeot 104 mi aveva procurato solo grane: guasti continui e poco comprensibili, lievi incidenti… Certo, i conducenti rivali affettano disinvoltura, tirano fuori i loro moduli di constatazione amichevole, dicono: “OK, d’accordo”, ma è chiaro che in realtà i loro sguardi cordiali sono carichi di odio; il che è decisamente seccante.
E poi, a pensarci bene, al lavoro ci andavo in metropolitana; nei weekend non mi muovevo più di casa, per mancanza di mete allettanti; per le vacanze mi servivo perlopiù della formula del viaggio organizzato, talvolta in club. “Che me ne faccio della macchina?” mi ripetevo nervosamente mentre imboccavo via Emile Landrin.
Tuttavia fu solo quando arrivai in viale Ferdinand Buisson, che mi venne l’idea di sporgere denuncia per furto. Oggigiorno rubano un sacco di automobili, soprattutto in periferia; una bella denuncia di furto sarebbe stata l’ideale sia per quelli dell’assicurazione sia per i miei colleghi d’ufficio. Ammettere di averla persa significava farli sentire presi per il culo, o passare per deficiente; decisamente controproducente. Su cose del genere non si scherza, c’è il rischio di farsi una pessima reputazione, di quelle che ti costano un’amicizia. Io la vita la conosco, mica sono nato ieri. Ammettere di aver perduto la macchina significa in pratica radiarsi dal corpo sociale; molto meglio inventare il furto.

Che simpatico umorista, eh? Che poi lo fa, senza tanti problemi. Ed è pieno di cose che non noi faremmo ma questo simpatico sì, ed è un po’ proprio il bello di questo libro, l’imperante politically scorrect che non riesci del tutto a denigrare, o indignarti, perché ti rendi conto che sono cose anche tue, che hai fatto, o che faresti, e hai ben poco da pensare: non si fa, che vergogna.
Ecco. Poi vediamo. Vi piglio un altro pezzo, magari preso a caso più aventi.
Ecco. Sapete quanto è durata la pausa? Un’altra settimana. Ma oggi è sabato e sono sveglio dalle cinque e ho colazionato e insomma… le solite cose. Ora vedo di finire questo post, che sarebbe bene, che col buio che ti dura fino alle sette non è che si ha ‘sta grande attività. 
Andiamo a rileggerci insieme un altro pezzo di Estensione del dominio della lotta, va.
Trovato! Un capitoletto, più avanti, che è quasi la continuazione di come è andata con la falsa denuncia del furto auto. Anzi, facciamo un esperimento: prendetelo come un racconto a sè stante.

Il titolo è:

I gradi di libertà secondo J.-Y. Fréhaut
Torno in sede. Mi viene riservata una bella accoglienza; a quanto pare sono riuscito a ristabilire la mia posizione in azienda.
Il mio capufficio mi prende da parte; mi rivela l’importanza di questo contratto. Sa che sono un ragazzo di carattere. Dedica qualche parola di amaro realismo al furto della mia automobile. È una specie di conversazione maschia, accanto al distributore automatico di bevande calde. Vedo in lui un grande professionista delle risorse umane; dentro di me tubo. Lo vedo più bello che mai,
Più tardi nel pomeriggio assisterò alla festa d’addio per Jean-Yvcs Fréhaut. È un elemento di valore che lascia l’azienda, sottolinea il mio capufficio; un tecnico dai grandi meriti. Senza dubbio, nella sua futura carriera, egli andrà incontro a successi quantomeno equivalenti a quelli che hanno contrassegnato quella precedente; è tutto il male che gli augura. E, quando ne avrà voglia, che torni pure liberamente in azienda a bere il bicchiere dell’amicizia! Il primo impiego, conclude con tono salace il mio capufficio, è qualcosa difficile da scordare; un po’ come il primo amore. A questo punto mi chiedo se costui non abbia bevuto un po’ troppo.
Breve applauso. Intorno a J.-Y. Fréhaut si crea un certo movimento; lui gira lentamente su se stesso, con aria soddisfatta. Questo ragazzo lo conosco un po’; siamo entrati in azienda contemporaneamente, tre anni fa; stiamo nello stesso ufficio. Una volta abbiamo discusso di civilizzazione. Lui sosteneva – e per certi versi ci credeva davvero – che l’aumento del flusso di informazione all’interno della società sia di per sé una bella cosa. E che la libertà non sia altro che la possibilità di stabilire diverse interconnessioni tra individui, progetti, organismi, servizi. Secondo lui il massimo di libertà coinciderebbe con il massimo delle scelte possibili. Servendosi di una metafora basata sulla meccanica dei solidi, queste scelte le chiamava gradi di libertà.
Ricordo che eravamo seduti vicino all’unità centrale. Il climatizzatore emetteva un leggero ronzio. Lui paragonava la società a un cervello e gli individui a cellule cerebrali, per le quali in effetti è auspicabile stabilire il massimo delle interconnessioni. Ma l’analogia si fermava lì. Perché lui, essendo un liberale, non si spingeva a denunciare ciò che davvero manca al cervello: un progetto di unificazione.
La sua vita, come avrei appreso dopo quella conversazione, era estremamente funzionale. Abitava in un monolocale nel 15e Arrondissement. Il riscaldamento era compreso nell’affitto. Lui si limitava a dormirci, giacché in effetti lavorava molto; spesso, fuori dall’orario d’ufficio, leggeva Micro-Systèmes. Per quanto lo concerneva, i famosi gradi di libertà si riducevano alla scelta del menù della cena tramite Minitel (era abbonato a questo servizio, nuovo per l’epoca, che assicurava la consegna a domicilio di piatti caldi a orari estremamente precisi e con un preavviso relativamente breve).
La sera mi piaceva guardarlo comporre il menù sul Minitel posato sull’angolo sinistro della scrivania. Lo stuzzicavo sulle messaggerie rosa; ma in realtà sono convinto che fosse vergine. In un certo senso era felice. Si sentiva, a buon titolo, attore della rivoluzione telematica. Davvero percepiva ogni crescita di forza del potere informatico, ogni passo avanti verso la globalizzazione della rete, come una vittoria personale. Votava socialista. E, stranamente, adorava Gauguin.
Com’è? Funziona vero? Sì, penso di sì. Un raccontino così, da solo, avrebbe il suo senso. Una storia dentro una storia che lascia qualcosa. 
Okay, carissimi. Basta, andiamo a comandare sui file di lavoro. Vi metto qualche altra foto, che ne so, presa a caso, tanto il mondo è tutto bello, a saperlo prendere. Non come Tisserand e quest’altro io narrante Houllebecqiano, che corteggiano il suicidio ogni tre per due.

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