"Bicchiere pieno e altri racconti" di John Updike****

"Bicchiere pieno e altri racconti" di John Updike****

Continua a venirmi in mente quella canzone dei Marlene, quando penso a questo autore. La canzone è Ricordo – già ve lo dissi – e non so perché quel verso mi è rimasto un po’ addosso. 
Diceva: Un giorno la tua voce mi chiamò / per dirmi: “Ti ricordi di Updike? / L’ho preso ed è magnifico”, e credo che mi rimase in testa, come spesso mi accade, proprio perché non conoscevo la citazione. 
Questo scrittore magnifico, pensavo, prima o poi lo leggerò. 
E grazie ai racconti d’autore, 4 piccoli assaggi di Updike, li ho letti, alla fine. Bicchiere pieno, forse il migliore, appena sopra all’espansione accelerata dell’universo, sono stati sicuramente due ottimi racconti. Non forse da farmi dire che Updike è magnifico, perché un velo d’attrito, soprattutto nel secondo racconto, ce l’ho avuto, ma vi posso dire che la scrittura e la cifra di questo Updike (ci ha lasciato nel 2009, tra l’altro) è alta e notevole.
Mi sono venute in mente due cose, leggendo, già dalle prime righe.
Americanità e sensibilità. 
La letteratura americana, e spesso in questi racconti d’autore, da Carver a Wallace, passando per Fante, Cheever, Brodkey, Tyler e mettiamoci pure la Munro, anche se è canadese, mi sono sembrati tutti impregnati di un modo, una delicatezza, tutta loro, per cogliere e raccogliere le cose della vita
Sembra che l’americanità letteraria sia quasi plasmata di questo desiderio di scrutare dentro e intorno a noi uomini intesi come animali sociali, come essere fallaci e decadenti, eppur degni di attenzione, e di speranza, se vogliamo. 
E in questi racconti c’è un filo rosso, un’idea che li attraversa come l’anima di una collana, ed è l’avvicinarsi, la gestione, l’avvistamento della morte.
Nel primo brano, Marocco, questo forse è meno visibile. Si racconta di vacanze africane sfortunate, e di una famiglia numerosa americana in fuga dal vento del deserto, e a tratti si sorride anche di questa dabbenaggine, di questo essere un po’ pitocchi, come del resto, spesso, solo gli americani in giro per il mondo sanno essere, causando un misto tra tenerezza, simpatia e fastidio. 
Il punto di vista, però, è di una prima persona che è vicina alla fine, e per la quale i giochi sono fatti, nel senso che non sappiamo se sia vecchia o meno, e quanto camperà, ma si capisce dall’eco delle sue parole che ha può solo ricordare cose che sono state, e non che sono ancora.
E nel secondo racconto, I guardiani, invece, questa visione di anzianità del fuoco narrativo emerge pian piano, durante la chiacchierata del protagonista che inizialmente pare infantile, con quel nonnino, nonnina e via discorrendo, ma che poi, quasi diventando più seria, ci porta a fare un bilancio della vita. Di chi se n’è andato e come ha fatto, e soprattutto cosa ci ha lasciato, per portaci a considerare come l’idea di eredità non sia genetica, ma educativa. Siamo ciò che ci hanno insegnato a essere, ti vien da dire, e come per osmosi, i caratteri delle persone del nostro intorno attechiscono al nostro e lo plasmano. E anche qui, benché ci sia una terza persona che ci parla del piccolo Lee, un bambino, avremo modo di leggerla come se la vita di Lee sia già conclusa. E non riesco a fare a meno di scannarvi il finale, e credetemi, non è spoiler, perché tanto il racconto è altrove.
Io trovo che sia un finale di racconto di gran classe:

C’era un che di confortante in questo, pensava Lee. I suoi guardiani erano ancora con lui. Se li portava dentro, e di là seguitavano a prestargli le loro cure e la loro tutela. Da Nonnino, con il suo caratteristico modo incerto di alzare la mano dalla pelle sottile come per impartire una benedizione o per chiedere un attimo di tregua alle autorità costituite, aveva ereditato la longevità, e da Nonnina la rustica tenacia e la tempra robusta che avevano ceduto solo lentamente agli assalti degli anni e della malattia. Gli appartenevano anche l’elusivo realismo del padre e il calore intenso e insoddisfatto della madre. I suoi guardiani vivevano in lui, manovrandolo come una sorta di minuscolo equipaggio umano racchiuso in un’alta armatura di DNA deambulante. Non l’avrebbero guidato nella direzione sbagliata; la morte l’avrebbe raggiunto con garbo, ed era ancora molto lontana.

E poi, vi dicevo, ho trovato molto belli gli altri due racconti.
Non vi scanno niente. Né vi dico la trama.
Pensate solo che nel primo c’è una sorta di anziano astrofisico in cavanza in spagna la cui moglie viene scippata cadendogli addosso e causandogli un po’ di punti di sutura. La mente del nostro eroe però elabora e costruisce schemi e paranoie.
L’ultimo è un elenco, narrato con grande classe, di cosa si ricordi, della vita, e come sia, una vita da anziani, ragionata e densa, benché oramai centellinata e dipinta come se il tempo si fosse liquefatto
No, dài, ho cambiato idea, vi scanno un pezzettino che mi è piaciuto tanto tanto:
La beatitudine risale, suppongo, ai momenti di sete soddisfatta dell’infanzia, qualche stato più a sud di questo, dove c’erano fontanelle pubbliche in tutti gli edifici municipali e i grandi magazzini, dove le tavole calde mettevano bicchieri d’acqua ghiacciata a disposizione dei clienti senza neppure bisogno di chiederlo e gli empori offrivano Alka-Seltzer al banco delle bibite per curare qualsiasi malanno affliggesse gli avventori, dai postumi di una bevuta all’orticaria. Abitavo dai nonni, all’epoca, un bambino alloggiato presso due anziani grazie ai dissesti provocati dalla Depressione, e nella cucina di casa loro c’erano un pavimento rivestito di linoleum e un profondo lavandino di ardesia dai rubinetti di rame, con i lunghi cannelli macchiati di verde dall’ossidazione. Allora i bambini arrivavano sempre di corsa’ da un posto o dall’altro con una gran sete innocente: correvano, oppure pedalavano a tutta forza su una bicicletta dalle gomme larghe, immaginando che fosse un bombardiere sul punto di distruggere una nave da guerra giapponese. Riempire un bicchierone d’acqua al vecchio rubinetto del lavello era un modo per entrare in contatto con la vastità del mondo.

E’ tutto, dunque. Una bella lettura.
Updike, tra l’altro, è quello che ha scritto le streghe di Eastwick, quelle del film col grande Jack, e ha pure vinto il Pulitzer.
E io, adesso, mentre penso a queste cose e mi metto i Kordz nel lettore, vado a farmi una corsa. buon pomeriggio, cari amici del blog di gelo!

Comments

  • Alessandro
    8 Novembre 2012

    C'è sempre qualcosa di imperscrutabilmente straordinario in queste recensioni…
    No, non le definirei recensioni… ma messaggi appassionati sì…

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  • 9 Novembre 2012

    un'inperscrutabile straordinarietà è il sogno di qualsia diffusore di cose belle. Graazie. 🙂

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  • 14 Dicembre 2012

    che fine ha fatto il post che avevo scritto qualche giorno fa? Boh. In sintesi: mi è piaciuto molto avevo letto solo le streghe e credo bisogna leggere le storie del coniglio.
    ora leggo conrad: meraviglioso!

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  • 14 Dicembre 2012

    ehi, io non ho letto nessun post? qui? in effetti forse ti avevo risposto? spero non spariscono i commenti da soli sennà metto le dita negli occhi al signor Google, la prossima volta che lo vedo. Conrad, eh… appena smetto quella merda di Lorca, leggo quello!

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