"Roqueval" di Nina Berberova**(*)

"Roqueval" di Nina Berberova**(*)

Ma guardate, se domani esce il nuovo numero dei Racconti d’autore  (Conrad, con Il ritorno) e io ho già letto il precedente, significa che ci si metteva poco.
Ed è leggero, esile, con carattere più grandicello e 5-6 pagine bianche, e interlinea rilassata, questo racconto che parla di un castello francese con l’anima russa.
Tanto leggere che, benché non ne possa dir male, non si possa dire manca di eleganza, o di una sua integrità narrativa, non me la sento di dargli la terza stellina.
E’ un racconto sulla decadenza, sul passaggio di secolo, vista e sentita dagli occhi dell’adolescenza. La scelta, credo, non è casuale, perché vedendo il racconto con gli occhi del lettore – i miei, per dire – è impossibile non intristirsi per il decadimento strutturale di Roquenval. Un castello che unisce alla propria la caduta della casata che lo abita (con tanto di Usher citata per prenderne le distanze) la caduta del castello, divorato dai tarli, dall’umidità, dal tempo, dalla povertà, dalla modernità che erode intorno.
Così questa storia d’amore leggera, inconsistente, in una sorta di blanda affinità elettiva drogata, con due coppie di circa19enni che una si fidanza tanto per, e l’altra invece viene distratta dalla 15enne sorella della padroncina del castello, poi allontanata senza alla fine grandi scossoni per l’amore del protagonista-narratore, che doveva formare l’altra coppia, ecco, dicevo, con questa storia d’amore si resta molto in superficie.
Il racconto è fatto dall’amico di Jean-Paul, giovanotto che studia e vive in francia, ma dai natali russi, che viene a contatto e va a passare le vacanze estive a Roquenval, un castello in caduta libera, dove il personaggio di rilievo e centrale è la vecchia Praskov’ja Dimitrievna. E’ lei e la sua stanza di cimeli che ci parla della russia, della vita, delle avventure che la sua casata ha oramai dimenticata.
Nei suoi ricordi, spesso ricordati da altri, troviamo fughe d’amore, avventurieri, antiche ricchezze e, sempre, gli echi della Russia, che riverberano fino in Francia, in quel castello dal giardino tanto ampio quando pieno d’intricate erbacce e vecchie costruzioni.
Così li trovi dappertutto, i segni della decadenza, dalle ragnatele agli arazzi strappati per essere venduti, dalle stanze impolverate ai fossati pieni di melma, dal vecchio zio che si ingozza alla superficialità dell’erede più giovane, Kira, che di russo ha solo il nome.
Quindi? Quindi non voglio farla tanto lunga. E non voglio dare troppo a questo raccontino che non mi ha mai coinvolto troppo, perché alla fine, quando vi ho detto, c’è, ma non è riuscito a coinvolgermi. Non saprei dirvi perché, a volte è solo questione di empatia, e forse il mood di questo racconto mi ha lasciato freddo.
Non saprei nemmeno trovargli dei difetti, perché in fin dei conti è un brano onesto e tranquillo
Forse troppo tranquillo, però, tanto da farmi pensare che adesso, che sono passate poche ore dall’ultima riga, ve ne parlo con tutti questi particolari, ma che tra qualche giorno, probabilmente, vi saprei dire molto, ma molto meno. 
Ha il pregio, comunque, di essere una lettura scorrevolissima (ed esile, diciamolo) che quindi si può leggere senza troppi pensieri e senza perderci troppo tempo. Anzi… male non è che fa.
Poi magari, certo, arriva qui qualcuno a farmi notare come io abbia ignorato l’aspetto autobiografico, l’importanza del contesto storico e dei rapporti russo-francesi, e un sacco di altre cose che non ho capito. Evabbè, insomma, non è che puoi sempre metterti a leggere in mezzo a tutte le righe, no, nella vita come nei libri. Ogni tanto ti deve bastare quello che c’è sulle righe, ovvero un racconto magro e taciturno. Poi sicuramente è pieno di carattere, ma io, non sono riuscito a conoscerlo bene.
Comunque, mentre voi stati là a pensare se acquistare il racconto di Conrad o meno, domani, io sto ricevento i racconti dei plagiatori, 11 su 21, per ora, e la mia mente malata – in quest’ora del lupo – sta pensando alle votazioni…
E siccome lo sapete che non sono contento se non vi parlo un po’ di cazzi miei, vi ricordo che non solo c’è la pagina di questo blog, da piacere, ma c’è pure la pagina del pubdipub, che se non siete fan vi viene la sciolta ogni volta che rutta uno dei miei gatti.
E vi dico anche che potete ascoltare in streaming il nuovo soundgarden, che se volete scaricare i kordz li trovate su un sito di musica libanese che si chiama piratebeirut (sono dei fighi, inutile) e che il disco nuovo di Paul Banks è noioso e che domani notte arriverà la pioggia, da qualche parte. 
Forse anche da voi.
Alla prossima, dai!

No, stavo per spegnere, ma mi sono detto. Eccheccastello, non gli lascio nemmeno un pezzettino da leggere? E ho aperto a caso, e indovinate? proprio nella pagina in cui avevo trovato uno dei momenti più incisivi e belli ed eleganti.
Ve lo lascio, dài, voletemi piùbbene!

L’estate volgeva al termine. […]
Il cielo azzurro è alto; i grandi alberi brillano silenti, la ghiaia del giardino è bagnata.La fontana verde-rossiccia all’ingresso lascia cadere un’ultima goccia, come se fosse piena fino all’orlo, il leone di pietra senza testa si è già asciugato al sole. Ma non mi va di essere ingannato e allora mi affretto a scendere inoltrandomi nel folto del giardino: ho bisogno di testimonianze che attestino questa prima scorreria notturna dell’autunno; cerco prove. Ed ecco da un ramo che ho urtato mi cade addosso uno scroscio, il mio piede affonda nel fango e il pesante ramo di melo, spezzatosi cadendo sulla stradina e sui rossi lombrichi venuti all’aperto, rappresenta un terribile indizio: la sua caduta modifica il profilo amabile e familiare di quell’albero.
E così, non era nelle persone che secondo me avevano dovuto abitare la misteriosa Roquenval, e nemmeno nei vivi, estranei a questa casa, né in me o in tutti noi, che andavo in cerca di ciò che tanto mi aveva attratto nelle prime settimane della mia vita qui. Certo, il viale di tigli davanti all’ingresso faceva resuscitare o meglio dava vita nella memoria al mio passato scomparso; nella camera da letto di Praskov’ja Dmitrievna, accanto al crocefisso, era appesa l’icona di Suzdal’ racchiusa in un’antica cornice; un nome di donna in caratteri cirillici era inciso sulla parete del chiosco in giardino. Potevo tentare di immaginare lo “zio Robert”, il conte russo, la rosea fanciulla dal nome fintamente russificato, gli sconosciuti – vivi o morti – dei quali indovinavo la presenza. Ma i residenti o gli ospiti che mi attorniavano erano ormai distanti dal foltissimo fascino che ancora viveva nei nomi e nelle cose. 

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