"Parigi di periferia" di Marilia Mazzeo****

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"Parigi di periferia" di Marilia Mazzeo****

Diciamo che sono stato molto indeciso, per mettere la quarta stellina, a questo ennesimo (e ultimo a portata di mano nelle mie biblioteche) numero de I Corti.
L’ho cominciato una notte, una settimana fa, e finito tra ieri e l’altra notte. Ho pensato che, anche se alla fine non è il tipo di libro che fa per me, questo ha diversi pregi e dice diverse cose. E quindi merita.
Anzi, letto a distanza di poco dopo quell’irreale racconto sugli zingari sembra proprio essere l’esatto contrario.
Anche qui abbiamo una prima persona. Quindicenne. Una ragazzina.
Una ragazzina che ama parigi, che ama il mondo, e anche qui, come in quel bel lavoro della Garlaschelli, si fotografa il momento in cui si perde l’innocenza, in cui il mondo è o diventa brutto, o comunque non è più lo stesso. 
Ma andiamo per ordine.
Prima cosa. Questo libro è un tributo a Parigi, alla città, a ciò che rappresenta o può rappresentare per una quindicenne. Ma non una di trent’anni fa, ma una di adesso, che ha già fatto l’amore da un paio d’anni, che si innamora, flirta, e alla fine ama Goethe, e non Rimbaud. Insomma… un’altra generazione. E Parigi è sì l’oggetto del tributo, dove la nostra protagonista, narrante, di cui poi non si dice forse nemmeno il nome, o non lo ricordo, viene catapultata insperatamente, con una sua amica coetanea e la sorella maggiore, e le sue altre tre amiche. Tre settimane a Parigi, prima a veder le cose da vedere, quadrichiesemuseipiazzevie e poi libere, liberi di scoprire la periferia…
E qui c’è la meraviglia, che entra in ballo.
E proprio nel senso della parola che mi ha regalato michela per Natale, nel senso di stupore. Perché la narrazione della protagonista è da occhi spalancati, ma non per la Gioconda o la torre Eiffel, bensì per le vie, le persone, i sobborghi, gli odori, i colori… Vi doveri trovare un pezzo, così vi faccio capire sia questo, sia perché la narrazione è davvero ben gestita.

La cosa più importante era l’atmosfera. Cercavo quella, io. Seguivo le altre ragazze camminando col naso per aria, guardando i tetti grigi e lisci, con i loro fitti abbaini e immaginando, là sotto, soffitte e pittori, lungo i quais ammiravo i clochard che dormivano sotto i ponti, con le bottiglie strette nelle mani sporche, e mi chinavo a immergere la punta delle dita nella Senna, perché amavo così Parigi che volevo toccarla.
Sì, era proprio come  in tutti quei film che avevo visto. Sotto il pont du lena nell’oscurità calda della sera, qualcuno suonava il sassofono, e io mi impuntai perché ci fermassimo ad ascollarlo. Era struggente e fiabesco. E sempre piantavo radici davanti ai suonatori nel metrò.- i violini che riempivano di pathos le luride volte piastrellate mi facevano battere il cuore.
– Cos’è questa novità che ti piace tanto la musica? -diceva mia sorella ironica.
– Sono bravi.
–  Un’altra delle tue fissazioni. L’arte. L’atmosfera. Adesso anche la musica.
– Sono bravi e basta.
I violini mi seguivano riecheggiando a lungo per gallerie, scale mobili e treni, quando infine venivo trascinata via dalle altre; e ancora più a lungo riecheggiavano nelle mie orecchie, e io ancora una volta pensavo al cinema e mi sembrava di essere dentro a un film. Camminavo allora dritta e disinvolta come deve camminare un’attrice, sentendomi addosso l’occhio di vetro della cinepresa, e intorno la colonna sonora, che era struggente e malinconica proprio come devono essere le colonne sonore che si rispettano. Il gioco riusciva così bene che mi convincevo che i musicisti suonassero solo per me: il genius bei di Parigi doveva aver sussurrato nelle loro orecchie: vedi quella ragazzina impalata là davanti? Nessuno lo sa, forse nemmeno lei, ma è un’eletta; una principessa: la attendono straordinarie avventure. Suona per lei, amico, e metticela tutta.

Ecco. Semplice, lineare, ed è ovvio che una quindicenne, benché da liceo artistico e con italiano miglior materia, forse non sarebbe così brava a raccontare, ma è credibile. E non ti sembra mai di venire scacciato dalle pagine. Ascolti questa ragazzina piena di fantasia ed esuberante, piena di voglia di scoprire e un po sorridi e un po’ la prenderesti a schiaffi da quanto è incosciente, ma intanto lei si racconta. E non è il raccontarsi banale, ma è quello delle ragazzine di qualche anno fa, delle troppe sigarette e che ancora non hanno i telefonini, ma che rincorrono i ragazzi coi motorini, gironzolano per le stazioni, per le periferie, vuoi di città, vuoi dell’umanità.
Poi arriva Karim, un amore algerino, e qui sì che è tutta un’altra cosa, la descrizione della diversità. Karim è bello, è francesissimo, è uno studente e insomma… il classico amore estivo, con le promesse della vita che sfociano nel male. E sarà quel male, a Karim, che farà crescere la nostra protagonista, di botto, facendole vedere che non tutto è bello, non tutto ha un perché e non tutto è fatto come se il destino ci venisse incontro.
E non lo capirà, la nostra narratrice, cosa accade. Noi sì, però. Il passaggio dalla superficialità e la spensieratezza è segnato come una linea. Mi viene sempre in mente Lansdale, col suo libro, quando penso a questa linea che tutti noi abbiamo passato. La cosa che ci ha fatto diventare grandi, che ci ha tolto la meraviglia dagli occhi, per darci altre cose, certo, ma quelle lì son svanite per sempre e si son fatte ricordi. E così
Tutto qua, dai, anche basta. Un bel libretto, questo, consigliato soprattutto alle ragazzine, forse, o comunque a chi ha un debole per Parigi. Io non l’ho, ma l’ho apprezzato lo stesso.
Ah, ovviamente è un libro che non potete comprare, credo, anche se costerebbe pochi spicci, ma nelle biblioteche o nei mercatini, chissà. E poi, in fondo, era giusto per chiacchierare un po’.
Anzi, vi saluto con due cose, perché bisogna sempre regalare qualcosa. Una pezzo del Faust, che piaceva tanto alla nostra protagonista, e un disegno che ho dipinto, che mi ha regalato un bambino, un mostro, non so se è venuto bene, a me piace.
Ed ho studiato, ahimè, filosofia,
giurisprudenza, nonché medicina:
ed anche, purtroppo, teologia.
Da cima a fondo, con tenace ardore.
Eccomi adesso qui, povero stolto;
e tanto so quanto sapevo prima.
Mi chiamano Maestro: anzi Dottore.
Sono dieci anni che menando vo
pel naso i miei scolari,
di sù di giù, per dritto e per traverso
Ma solo per accorgermi
che non ci è dato di sapere, al mondo,
nulla di nulla.
E quasi mi si strugge, ardendo il cuore.

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