
“Fontamara” di Ignazio Silone****(*)
Appena don Circostanza ci riconobbe, con ambo le braccia ci fece un larghissimo festoso saluto.
«Viva, viva le mie Fontamaresi!» gridò. «Che c’è? Che mormorio è questo?» ci chiese.
«La morte dell’asino se la piange il padrone» gli risposi io. «Ma se non vi disturba la digestione, vorremmo consegnarvi una supplica.»
Don Circostanza, detto anche l’Amico del Popolo, aveva sempre avuto una speciale benevolenza per la gente di Fontamara, egli era il nostro Protettore, e il parlare di lui richiederebbe ora una lunga litania. Egli era sempre stato la nostra difesa, ma anche la nostra rovina. Tutte le liti dei Fontamaresi passavano per il suo studio. E la maggior parte delle galline e delle uova di Fontamara da una quarantina d’anni finivano nella cucina di don Circostanza.
Una volta, quando avevano diritto di voto solo quelli che sapevano leggere e scrivere, egli mandò a Fontamara un maestro che insegnò a tutti i cafoni a scrivere il nome e cognome di don Circostanza. I Fontamaresi votavano dunque sempre unanimi per lui; d’altra parte, anche volendo, essi non avrebbero potuto votare per altri, perché sapevano scrivere solo quel nome. Poi cominciò un’epoca in cui la morte degli uomini di Fontamara in età di votare non venne più notificata al comune, ma a don Circostanza, il quale, grazie alla sua arte, li faceva rimanere vivi sulla carta e a ogni elezione li lasciava votare a modo suo. La famiglia del morto-vivo riceveva ogni volta in compenso cinque lire di consolazione. Così c’era la famiglia Losurdo che di morti vivi ne aveva sette e riceveva ogni volta in compenso trentacinque lire di consolazione; le famiglie Zompa, Papasisto, Viola e altre che ne avevano cinque, ricevevano venticinque lire; e noi, per farla breve, ne avevamo due, che in realtà erano al camposanto ma ancora vivi sulla carta (il nostro figlio buon’anima morto a Tripoli e l’altro alla cava delle pietre) e a ogni votazione anch’essi erano due fedeli elettori di don Circostanza e per questo ci venivano pagate ogni volta dieci lire. Con l’andare degli anni, si capisce, il numero dei morti-vivi era diventato ragguardevole ed era una discreta rendita per i poveri Fontamaresi, era una fonte di guadagno che non ci costava grande fatica, ed era anche l’unica occasione in cui, invece di pagare, eravamo pagati.
Quel vantaggioso sistema si chiamava, come l’Amico del Popolo ci ripeteva, la democrazia. E grazie all’appoggio sicuro e fedele dei nostri morti, la democrazia di don Circostanza riusciva in ogni elezione vittoriosa. Benché noi avessimo avuto alcune gravi disillusioni da don Circostanza, che sotto sotto c’ingannava spesso con don Carlo Magna, non avevamo mai avuto il coraggio di separarci da lui e di cercarci un altro protettore, principalmente perché lui ci teneva legati coi nostri morti, i quali soltanto col suo potere non erano ancora interamente morti, e ci fruttavano ogni tanto quella piccola rendita di cinque lire a testa, che non era una ricchezza, ma era meglio di niente. Grazie a quel sistema successe tra l’altro che, come conseguenza, a Fontamara figurassero viventi un bel gruppo di uomini sui cento anni, sproporzionatissimo alla piccolezza dell’abitato; e quella costituì anzi, per un po’ di tempo, la nostra celebrità in tutta la contrada. Chi l’attribuiva all’acqua delle nostre parti, chi all’aria, chi alla semplicità del nostro nutrimento, per non dire alla nostra miseria; e a sentire don Circostanza, molti ricconi dei paesi vicini sofferenti di fegato, di stomaco, di gotta, per quella buona sa¬lute e longevità apertamente ci invidiavano. Il numero dei morti-vivi assoldati da don Circostanza crebbe a tal punto che quando, per risentimento contro l’appoggio che lui dava sfacciatamente al nostro peggiore sfruttatore, don Carlo Magna, molti cafoni principiarono a votare contro di lui, la maggioranza gli era pur sempre assicurata.
«I vivi mi tradiscono», ci rinfacciava amaramente don Circostanza «ma le anime sante dei morti mi restano fedeli.»
Successe poi, quando nessuno se lo aspettava, che lui non volle più pagarci l’abituale consolazione per quel servizio che i nostri morti gli rendevano, col pretesto poco credibile che le votazioni erano state abolite; e noi non sa¬pevamo che pensare. Ne discutemmo per mesi e mesi, e non riuscivamo a rassegnarci. Come ammettere che tutti quei nostri cari improvvisamente non servissero più a nulla e dovessero interamente e per sempre morire? Ogni tanto c’era ancora qualche Fontamarese, qualche vedova, qualche povera madre di famiglia, che andava da don Circostanza a reclamare le cinque lire della consolazione per il congiunto morto-vivo; ma lui neppure più li riceveva, e appena sentiva parlare dei nostri morti-vivi andava sulle furie e sbatteva la porta in faccia. Erano perciò sempre più rari i Fontamaresi che ancora osavano insistere per quell’antico diritto. Non serve avere ragione, diceva il generale Baldissera, se manca l’istruzione per farla valere. E un giorno lo stesso Baldissera era tornato a Fontamara tutto eccitato, pretendendo che l’epoca dei morti-vivi fosse tornata, almeno cosi gli si era rivelato, poiché nel capoluogo aveva assistito a una sfilata di uomini in camicia nera, allineati dietro bandierine anch’esse nere, con teschi e ossa di morti come ornamento tanto sul petto di quegli uomini quanto sulle loro bandiere. «Che siano i nostri morti?» aveva chiesto Marietta che pensava ai suoi trapassati e alle cinque lire della consolazione. Ma il generale non aveva riconosciuto con sicurezza alcun Fontamarese.
«Viva, viva le mie Fontamaresi!» gridò don Circostanza verso di noi dal balcone della villa dell’Impresario.
Questi uomini in camicia nera, d’altronde noi li
conoscevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire dì notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a guardarli da
vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera
gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestieri, o con
molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al
lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità,
essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli
altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli pei
strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo
cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda
e sempre lo saranno. Ma il loro raggruppamento in un esercito speciale, con
una divisa speciale, e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. Sono
essi i cosiddetti fascisti. La loro prepotenza aveva anche un’altra
facilitazione. Ognuno d. noi, fisicamente, valeva almeno tre di loro; ma cosa
c’era di comune tra noi? che legame c’era? Noi eravamo tutti nella stessa
piazzetta ed eravamo nati tutti a Fontamara; ecco cosa c’era di comune tra noi
cafoni, ma niente altro. Oltre a questo, ognuno pensava al caso suo; ognuno
pensava al modo di uscire, lui, dal quadrato degli uomini armati e di lasciarvi
magari gli altri; ognuno di noi era un capo di famiglia, pensava alla propria
famiglia. Forse solo Berardo pensava diversamente, ma lui non aveva né terra né
moglie.
Nel frattempo si era fatto tardi.
«Be’»,
gridò Berardo minaccioso «ci sbrighiamo?»
L’omino panciuto rimase impressionato dal tono
di quella voce e disse:
«Adesso
cominciamo l’esame.»
«L’esame?
Che esame? Siamo a scuola?»
Nel quadrato si fece un varco della larghezza di
un metro e ai suoi lati si posero l’omino panciuto e Filippo il Bello. Proprio
come fanno i pastori negli stazzi, per la mungitura delle pecore.
Così cominciò l’esame.
Il primo a essere chiamato fu proprio Teofilo il
sacre-stano.«Chi
evviva?» gli domandò bruscamente l’omino con la fascia tricolore.
Teofilo sembrò cadere dalle nuvole.
«Chi
evviva?» ripetè irritato il rappresentante delle autorità.
Teofilo girò il volto spaurito verso
di noi, come per avere un suggerimento, ma ognuno di noi ne sapeva quanto lui.
E siccome il poveraccio continuava a dar segni di non saper rispondere, l’omino
si rivolse a Filippo il Bello che aveva un gran registro tra le mani e gli
ordinò:
«Scrivi
accanto al suo nome: “refrattario”.»
Teofilo se ne andò assai
costernato. Il secondo a essere chiamato fu Anacleto il sartore.
«Chi
evviva?» gli domandò il panciuto.
Anacleto che aveva avuto il tempo di riflettere
rispose:
«Evviva
Maria.»
«Quale
Maria?» gli chiese Filippo il Bello.
Anacleto riflette un po’, sembrò esitare e poi precisò:
«Quella
di Loreto.»
«Scrivi»
ordinò l’omino al cantoniere con voce sprezzante «”refrattario”.»
Anacleto non voleva andarsene: egli si dichiarò disposto a menzionare la Madonna di Pompei, piuttosto che
quella di Loreto; ma fu spinto via in malo modo. Il terzo a essere chiamato fu
il vecchio Braciola. Anche lui aveva la risposta pronta e gridò:
«Viva San
Rocco.»
Ma neppure quella risposta soddisfece l’omino
che ordinò al cantoniere:
«Scrivi:
“refrattario”.»
Fu il turno di Cipolla.
«Chi
evviva?» gli fu domandato.
«Scusate,
cosa significa?» egli si azzardò a chiedere.
«Rispondi
sinceramente quello che pensi» gli ordinò l’omino. «Chi evviva?»
«Evviva
il pane e il vino» fu la risposta sincera di Cipolla.
Anche lui fu segnato come
“refrattario” Ognuno di noi aspettava il suo turno e nessuno sapeva
indovinare che cosa il rappresentante dell’autorità volesse che noi rispondessimo alla sua strana domanda di chi
evviva.
La nostra maggiore preoccupazione naturalmente
era se, rispondendo male, si dovesse poi pagare qualche cosa. Nessuno di noi
sapeva che cosa significava “refrattario”; ma era più che verosimile che volesse dire “deve pagare”. Un
pretesto, insomma, come un altro per appiopparci una nuova tassa. Per conto mio
cercai di avvicinarmi a Baldissera, che era di noi la persona più istruita e
conosceva le cerimonie, per essere da lui consigliato sulla risposta; ma lui mi
guardò con un sorriso di compassione, come di chi la sa lunga, però solo per
suo conto.
«Chi
evviva?» chiese a Baldissera l’omino della legge.
Il vecchio scarparo si tolse il cappello e gridò:
«Evviva
la Regina Margherita.»
L’effetto non fu del tutto quello che Baldissera
si aspettava. I militi scoppiarono a ridere e l’omino gli fece osservare:
«E morta.
La Regina Margherita è già morta.»
«È
morta?» chiese Baldissera addoloratissimo. «Impossibile.»
«Scrivi»,
fece l’omino a Filippo il Bello con un sorriso di disprezzo
«”costituzionale”.»
Baldissera se ne parti
scuotendo la testa per quel susseguirsi di avvenimenti inesplicabili. A lui
seguì Antonio La Zappa, il quale, opportunamente istruito da Berardo,
gridò:
«Abbasso
i ladri.»E provocò le proteste generali
degli uomini neri che la presero per un’offesa personale.
«Scrivi»
fece il panciuto a Filippo il Bello «”anarchico”.»
La Zappa se ne andò ridendo
e fu la volta di Spaventa.
«Abbasso
i vagabondi» gridò Spaventa, sollevando nuovi urli nelle file degli
esaminatori. E anche lui fu segnato come “anarchico”.
«Chi
evviva» domandò il panciuto a Della Croce.
Anche lui era però uno
scolaro di Berardo e non sapeva dire evviva, ma solo abbasso. Perciò rispose:
«Abbasso
le tasse.»
E quella volta, bisogna dirlo a onor del vero,
gli uomini neri e l’omino non protestarono.
Ma anche Della Croce fu segnato come
“anarchico”, perché, spiegò l’omino, certe
cose non si dicono.
Maggiore impressione fece Raffaele Scarpone,
gridando quasi sul muso del rappresentante della legge:
«Abbasso
chi ti da la paga.»
L’omino ne fu esterrefatto, come per un
sacrilegio, e voleva farlo arrestare; ma Raffaele aveva avuto cura di
pronunziarsi solo dopo essere uscito dal quadrato, e in due salti spari dietro
la chiesa e nessuno lo vide più.
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