
“Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi” di Michela Murgia*****
Non accade spesso che appena finisco l’ultima pagina di un libro abbia voglia di rileggerlo. E quando accade, ancora meno spesso succede perché è puro piacere, e non desiderio di afferrare qualcosa che ci sia sfuggito. Con questo libro mi è successo. Ci sono dei motivi extra, anche, questo sì, ma non credo che se non vi fossero stati la voglia di rileggere sarebbe scomparsa.
Il motivo extra più forte è che è stato il libro del primo dell’anno. E per la prima volta, invece di iniziare un libro nuovo, al primo dell’anno, ho deciso di finirne uno. Ho cambiato rituale, anche io, perché è più vicino alla parola fine, all’andare verso un crepuscolo, e ho pensato che era giusto così. Era inutile mi fossi comprato un libro nuovo, da iniziare e non finire. Avevo questo, che fino al punto dove ero arrivato, circa metâ, mi stava piacendo molto. E sapevo che mi sarebbe piaciuto anche il resto. Così la mattina del primo dell’anno sono andato a fare il solito pellegrinaggio.
Sono andato qua, sul Tagliamento, nel punto dove – l’ho scoperto quel giorno – delle enormi chiuse cavano via dal fiume un canale, il Ledra, che poi, per motivi irrigatori, scende nel medio friuli in rivoli e passa dietro casa mia, con uno di questi rivoli. (questa cosa del metterci tutti questi anni a scoprire da dove viene l’acqua in cui hai pescatoo centinaia di trote è filosofica ma lasciamola da parte). Mi è sembrato un punto simbolico, bello. E la giornata era abbastanza limpida, fredda ma non troppo. Aveva piovuto, questo sì, e il fiume era in piena e non si poteva attraversare o far cazzeggio o foto di acqua limpida. L’acqua era marroncina. La corrente rompeva il cazzo, ma a sprofondare nella lettura… alla fine era una buona compagna. Aspettate dai, vi metto una foto… cazzo sto a parlare tanto se c’ho le foto.
Ecco… quelle son le chiuse. Ma vediamo di arrivare al libro, ché ho voglia di aggiornare il sito come facevo un tempo, con tanti cazzi miei e con tanti cazzi del libro. Ma più del libro, magari, visto che il sito parla soprattutto di libri.
Allora… vi ricordate di Accabadora, giusto? Bello, sì, ma con difetti, pur perdonabili. Non era il primo della Murgia ma diciamo che era il primo che abbiamo conosciuto. Questo è l’ultimo. E pensavo a come era stato scritto, e infatti i buoni propositi per l’anno nuovo, che scrivo ogni primo gennaio, sono cominciati proprio da lì. Dal fatto di scrivere mentre sai che muori, che stai morendo, e quindi io sto leggendo le parole di un morto vivo, ma non è come quando ascolti i dischi dei tizi morti o leggi i libri degli autori morti. Qui è diverso. Leggi il libro di una persona che ti sta parlando sapendo di. E sa, si vede, si sente in molte pagine, che quello è un po’ un saluto, un testamento, un messaggio inviato ma del quale non si avrà risposta, confronti. Briciole gettate senza poter rimanere a guardare chi viene a beccarle e come. Ecco, insomma… mi ero perso in questi pensieri.
Tra l’altro, mentre camminavo sui sassi, fra le pozze, mi sedevo qua e là a leggere le pagine a manciate, non ho nemmeno finito il libro. E mi mancava solo l’ultimo racconto, che ne so, saranno state une decina di pagine. Ma proprio ho deciso che no, che l’avrei finito a casa, nei giorni seguenti, quando volevo tenermi la sensazione di finire il libro di notte in silenzio e non mescolarla ai rumori d’acqua rabbiosa e alla luce del giorno fatto. E infatti ho fatto così.
Adesso però vado a cambiare musica. Metto qualcosa di adatto. Anzi, sapete cosa metto? I BTS. Non ho mai ascoltato il k-pop ma male non mi fa.
Okay… ritiro. Potrebbe farmi anche male. Canzonette allegre se non altro. MAsticazzi però, canzonette con le milionate di ascolti… Eh… una bolla in cui non ero mai entrato. Ma lasciamo perdere i BTS. Anzi no. Non li lasciamo perdere. Parto da loro. Parto da un racconto che mi viene in mente, dove una madre sta vivendo il momento della separazione dal figlio. La sindrome del nido vuoto, quella cosa lì. E uno sarebbe tentato di pensare che il racconto, lei che si compra una sagoma a grandezza naturale di un BTS, e la nasconde nell’armadio, e poi dà di matto, perché la sagoma sembra pure troppo presente e poi addirittura viva. Ecco… dicevo, uno potrebbe pensare che il racconto che parla del deteriorarsi della salute mentale di ‘sta poveretta sia dovuto a quella fase di passaggio della vita (potremmo anche dire da adulta a vecchia, se la pensiamo vista da dentro) e invece no, non solo, per lo meno. In una ventina di pagine, in questa discesa nel grottesco, tragica, si va oltre. Non è “solo” il figlio che va a studiare fuori casa, che porta a quel punto di non ritorno. E’ una concausa, i motivi sono più profondi. Il quadretto familiare cucito addosso da anni, da cui non si scappa, in cui no, non c’è niente di male, potrebbe essere une vita felice, per molti, ma dipende chi sei veramente. E questa luce gettata, che ti mostra chi sei, mostra anche chi hai accettato di non essere. Vale la pena? Si può uscire da qui? Insomma… questo era un racconto solo. E son tutti così. Specchi puliti.
Ve l’ho detto perché poi noi questa sagoma, questo cartonato di un BTS, lo ritroviamo in un altro racconto, che parla di una pantegana, se non sbaglio, parla di emancipazione e uguaglianza di genere, ma anche di crudeltà, di genitori, di mondi sbagliati in cui non si vorrebbe vivere ma da cui si può uscire, anche se non se ne esce mai. Le storie si incrociano, ma non in modo denso. Quasi mai. Sono sfioramenti. Ecco… è una manciata di racconti profondi che si sfiorano con le loro estremità. Mi piace.
Ah, ma sapete una cosa, a proposito di cazzi miei e di rituali? Che mi son fatto la barba. Dopo… boh, vent’anni. Pensavo di sentirmi strano, dopo tanta abitudine ad aver la faccia pelosa, ma invece no. Non me ne accogo nemmeno. La strangeness è tutta negli occhi di chi guarda da tanto. Ma vi volevo dire del rituale. Anche qua… un tempo la facevo tutta, la barba, quando volevo uno stacco, un nuovo inizio. Poi ho smesso di farlo. Forse ho fatto male… era un rituale utile. I rituali sono utili nelle crisi, lo dice il sottotitolo, ma non so se poi è una tesi che ti resta, a fine lettura. E questa cosa dei rituali attraversa tutto il libro. Il rituale con cui un collezionista di miniature dell’Impero romano “accoglie” un nuovo arrivo; i rituali delle tre ciotole, per mangiare, che servono per sfuggire da una relazione rotta e piena di cocci taglienti. Il rituale dei pranzi col vecchio marito alfa che abita un altro pianeta. E i rituali del sesso che si fa per tradirlo. Siamo fatti così. Non ti ci ritrovi, nel senso di avere gli stessi, ma ti ci ritrovi nel fatto che te li mostra, la Murgia, e te li mostra davvero senza filtri. Siamo brutte persone, ti viene da dire, e magari cerchi, in qualche riga troppo… troppo. Cerchi di dire che tu non sei così, non sei come questi personaggi imperfetti, e invece dentro lo sai che sei così. Anche peggio. Altro che…
Comunque questi BTS vanno bene per cucinare. Cose tipo tagliare la verdura per il couscous alle verdure, che è una merda, lo so, come dire polenta col pane, o pizza con le patate, ma da lunedì sto cercando di tornare un essere umano, cioè… ho persino tolto tutti gli alcolici dal frigo (altro rituale, se voglio ho il ghiaccio). Ma ho tolto anche i BTS, adesso. Nemmeno loro mi mancano e ho smesso di tagliare verdure.
Dove eravamo rimasti? Ah, sì. I racconti. Ci sono i temi della Murgia. Uno è quello dei non figli. Vi consiglierei di leggerlo. Cioè… l’altro giorno, la parlamentare là, se ne è uscita con le cose della maternità che deve tornare cool. E nel dire sta cazzata ha infocato una serie di ammissioni sulla sua schiavitù mentale e di genere che la pena e la commiserazione veniva travolta dalla rabbia. Ecco… Il racconto sulla merda di chi vuole imporre i figli agli altri vi darà grande soddisfazione. Grande tristezza, invece, vi darà il racconto sul come chiamare il proprio cancro, che nome dargli (Espressione intraducibile). E altrettanta, a tratti, quello che offre titolo e copertina (Il senso della nausea). Forse meno profondo quello che parla di amicizia maschile (Ricalcola percorso) e molto bello invece quello che parla di prof e genitori e figli, un triangolo dove tutti credono di sapere tutto e nessuno sa un cazzo. Di quello dei Bts, il più lungo e diviso in capitoli, vi ho detto e boh… sono tutti bei racconti.
Tra l’altro, non so se la guerra romanzo racconto è ancora in auge, me ne fotto, però quando fui là dentro, in questa cosa che io scrivevo racconti e non andavano bene, e che poi li scrivevo collegati a grappoli per raccontare una unica storia, e manco se ne accorgevano, a volte. Ecco… è una gran soddisfazione arrivare a fine libro e vedere come sia una sorta di concept libro, questa raccolta. E non solo per i collegamenti. Il racconto che apre è quello che dice, Ehi, tu, autrice, devi morire. E quello che chiude è postumo, nel senso che parla di una persona morta e di un modo strano che ha la sorella di salutarla, scoprendo cose che… ma sono sicura di averla conosciuta? E in mezzo una sorte di graffito, a tinte forti, dei lati brutti che abbiamo colti in questi ultimi tre anni. (Molti i richiami al periodo covid).
Oh ma cazzo. Parlato troppo. Insomma… è un gran bel libro. Certo, magari è migliore se siete terreno fertile su certe cose, visto che non è che l’autrice si nasconde. I suoi temi, dalla parità di genere alla fine vita, dall’antifascismo all’anticonformismo, ci sono tutti. E se siete un po’ fascisti, patriarcali, contro la libertà ecc… insomma. Magari certe cose vi danno fastidio. Sai mai…
Ah, due parole sulla scrittura, anche. Che è secca, matura, molto diversa da quella voglia di fare le frasi belle e molto più sul pezzo sul trovare le parole giuste. Non ti fa mai dire “Oh che bella frase” ma se ci pensi, a fine racconto, dici, Beh, non cambierei nessuna frase. Questione di efficacia.
Dai, il cous cous è pronto, sono passato ad ascoltare Sufjan e direi che metto via il libro da restituire a Giorgia e mi metto a cenare, ché poi devo ancora fare la lezione quotidiana di giappo e magari pure io, scrivere qualcosa.