“Accabadora” di Michela Murgia****(*)

“Accabadora” di Michela Murgia****(*)

Manca un quarto d’ora a mezzanotte, fuori c’è un lunedì freddo, pieno di silenzi, e qui dentro ci sono un gin tonic, un vecchio disco solista inutile di Stone Gossard, un altro pc che sta copiando migliaia di mp3 su un hd esterno e siccome non uscirò a cercar notte, ho deciso di chiuderla così, ‘sta giornata lunghissima. Scrivendovi di questo libro che ho letto il mese scorso, ormai, nelle giornate del Tagliamento. Che poi, oggi è il giorno giusto, per parlare della Murgia. Era il compleanno di mio padre, oggi, e ho avuto l’incontrollabile idea di fare un lavoro di fai da te creativo e me lo sono sentito arrivare, in spirito alle spelle, che mi porconava sul come NON si dovrebbe fare quel lavoro. Insomma… Posso rilassarmi così. Le mie cose, tantissime come al solito, per oggi le ho fatte. Anzi… la più corposa poi ve la mostro, anche se la foto non le rende giustizia.

Ma forse è meglio che parliamo del libro. Anzi no, aspettate che vado a mettere in copia la cartella di un altro anno… Fatto. Il 2013. Mancano ancora 10 anni. Cioè… è da stamattina che sto copiando mp3 dal vecchio PC – che ho deciso di regalare al Polenta – per non buttare via niente. Ci sono dischi che non ascolterò mai più, là dentro. E avevo fatto una selezione… ma poi ho pensato, chisseneincula, io me li copio tutti, ma non pensavo fossero così tanti. Per esempio, questo disco di Stone Gossard che sto ascoltando adesso, fa abbastanza cagare. Non so nemmeno perché lo sto ascoltando… Cioè, lo so. Ricordo che erano i tempi in cui non potevi avere i dischi. Nel senso che se chiedevi in qualunque negozio di dischi: “Avete per caso il nuovo disco di” la risposta era sempre “Chi?!?!”. Non c’era internet e la vita era così. Io ascoltavo la ragio americana, ZZradio, capivo mezze cose, me le registravo sulle cassette per capirle meglio, e poi venivo frustrato dall’impossibilità di ascoltare le cose. Quando è arrivato internet e spotify e gli mp3 sono andanto pian piano in recupero. Cioè dischidimerdachevolevoascoltareventannifa. Oddio… ma dovevo parlare del libro. Il libro che ha vinto il Campiello e per il quale un sacco di gente conosce Michela Murgia. Io me lo ricordo, il titolo, ma non l’avevo mai letto. E non avevo letto niente di lei. Ecco… vi sento eh…

Ah, ma allora adesso la leggi solo perché è morta eh! Fai schifo!

Ebbene sì, ci sta. Possiamo dire sia così. Nel senso… dopo essere arrivata in TV, era rimasta li, a piacermi, come persona, mi piacevano le sue guerre anche se continuavo a pensare che non era lei che doveva fare queste guerre. E quando è arrivato il Salvini, nella sua macchina distruttrice affidata ai suoi tirapiedi digitali, l’ho pensato ancora di più. Mi dicevo, anzi… Eh, prima o poi devo leggere qualcosa di questa qua. E’  l’unico modo che ho per sostenerla in questa guerra che fa per tutti noi che vogliamo il mondo in miglioramento. Insomma… volevo.

Poi è morte. E mi ha lasciato quel dispiacere lì, che ti arriva quando ti sembra di non aver fatto qualcosa che non eri tenuto a fare, ma che avresti fatto meglio a fare. Poi gjate si è comprata il libro e… Eccomi qua. L’ho letto. E ci ho messo poco, e dopo poche righe, vi dirò, potevo già scrivere che era un buon libro, con una buonissima scrittura, di persona esperta e di una penna che ha avuto grande cura e pulizia, nel modo di comporre questa storia. Tra l’altro è un libro del 2009, eh, e non è invecchiato per nulla, nè a livello di scrittura, nè – purtroppo – di temi.

Se ne volete leggere un bel pezzo, dell’inizio, che vi fa capire molto bene la cifra della scrittura, lo trovate qua sul post. Anzi… leggetelo, non tanto badando alla storia, ma alla scrittura. Insegna molto, una scrittura così ascitta e al tempo stesso colorata, che parla delle cose guardandole da vicino, ma come se ne parlasse stando lontano. Si, okay… magari mi sono capito solo io, ma se amate leggere o scrivere, capirete anche voi.

Oh, scusate ma sto disco lo devo togliere. Una lagna pazzesca. Passo ai Verdena vecchi. Meglio va. Dicevo… forse vi serve sapere qualcosa di più della storia. Insomma… la storia parla di donne, morte, amore, tradizioni, vite che voglio scappare, vite che vogliono restare. Parla di Sardegna. Parla di come un figlio sia di chi lo alleva, e non di chi lo fa. Parla di come morire sia difficile soprattutto per chi non è costretto a vivere. 

L’accabadora è una figura del folklore/tradizione, un angelo della morte, dicono i giornali di emme, mentre insomma… è semplicemente una persona che si prende carico e il coraggio di far smettere di soffrire chi non merita più di. Poi certo… non è bello e non è legale, ma si capisce moltissimo del rispetto che una comunità prova per chi si è preso sulle spalle questo compito. Bonaria è questa cosa. E si prende in casa Maria, bambina che sarebbe stata sprecata nella miseria. Ed è il punto di vista di Maria, che ci viene regalato in tutto il libro. E in certi momenti non siamo d’accordo con lei. Soprattutto verso la fine. E forse, il difetto unico di questo libro, è quella parte finale che ci aspettiamo. Che vogliamo. Che vogliamo succeda. Vogliamo che Maria capisca sulla sua pelle a cosa serviva l’Accabadora e ne recuperi il rispetto. Succede? Non ve lo dico. Anche perché in mezzo succedono un sacco di cose.

C’è amore. Ma amore che si sfiora. Tra fratelli, dei genitori verso i figli, di ragazzi, persino di un cane… Sono fili di amore quasi sempre malinconico, ma forti, in tensione. E c’è comunque un occhio buono, nel mostrarci la Sardegna agricola degli anni ’50, che non era necessario avere. Una lente di tenerezza attraverso cui passano le vicende, anche le più drammatiche. Una tenerezza che svanisce nell’istante in cui la protagonista – una delle due, per lo meno – va nel continente, a lavorare.

Ti chiedi, se la vera epoca senza lumi, senza ragione, sia in Sardegna o a Torino. Eh si… è una domanda retorica. C’è molta più ragione e buon senso nella tradizione sarda, che nel consumismo piemontese.

Ma sapete che vado a togliermi le lenti? Oggi, con sta cosa fatta con la vernice spray, me le sono sporcate alla grande. Non vedo un ca. Che poi… ecco, io a questa cosa della morte, richiesta, ci penso ogni giorno. Mi pare normale. E una figura come l’accabadora, che dovrebbe essere lo Stato, la collettività, sarebbe davvero un grande segno di civiltà. Che non accadrà, certo. Figuriamoci. Ma che stavo dicendo? Ah, già. Delle lenti, del diventare cieco e immobile… Chissà se la testa, quella volta, smette di agitarsi e creare, o se trova altre vie. Boh… ma mi sto distradendo di nuovo. Torno al libro.

Ma poi, per dire cosa? Se volete leggere un libro di Michela Murgia e non sapete da quale cominciare, questo è buono. Ci sono molte cose, dentro, e la si riconosce, tra le righe. Spesso in Bonaria, ma a volte anche in Maria. E ogni tanto, in modo forte, nel giovane a cui è successa la cosa brutta, per una cazzata fatta, per riparare un torto. Come dargli torto, sulle sue scelte… Insomma… leggetelo e ritrovere la persona che avete visto e magari apprezzato in tv. E se non sapete nulla di lei, come me, è decisamente un libro di una ottima autrice italiana, di quelli che ti restano addosso, in qualche modo, anche se te li dovessi dimenticare.

Ci sono un sacco di motivi per leggerlo. E non ultimo il fatto che è di una lunghezza giusta per dare potenza alla storia. I tempi son forse un po’ sbilanciati, con una lentezza descrittiva bella nelle prima metà e un poca di velocità di superficie nella seconda, che non aveva certo meno pathos. Ma se non fosse gestito così, la tensione sarebbe stata spalmata male, quindi bene così. E poi, per tutti quelli con le idee preconcette su donne, figli, morte… ecco, magari una piccola discussione dentro ve la fate.

Il mio prossimo, comunque, sarà Tre ciotole. L’ultimo. Vi farò sapere…

Io intanto vi metto la foto di come ho sputtanato il mio lunedì, a livello di Fai da te. Sono un fottuto genio… lo so.

 

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