Metastasi

Metastasi

Metastasi

Cominciò con una stanchezza ingiustificata, qualche colpo di tosse.
Poi arrivò, inarrestabile.
Cancro è una parola che atterrisce, devasta, lascia sconfitti, getta anima e corpo in un pozzo stretto, riempito di fango, togliendo sensi e respiro. Eppure è una parola sporca di speranza, sempre. Per questo la definizione peggiore, limpida e perfetta nella sua esizialità, i medici non la pronunciano mai. Non lo fecero nemmeno stavolta, anche se il male aveva oramai colonizzato il corpo; così, suo malgrado, la speranza crebbe. I cicli di chemio terminarono e lasciarono sua madre stremata, fino al coma: una catalessi di pochi secondi, poi la donna schiuse gli occhi cisposi e tornò.
E tornò, incredibilmente, guarita.
Le analisi confermarono, le forze parvero riprendersi i muscoli, ricominciò a camminare. Pochi giorni e in un caldo pomeriggio di luglio la riportò a casa.
Potevano festeggiare. Dovevano, festeggiare.
Vanessa piangeva, tagliando la torta. La guardava scartare i regali, abbracciare tutti, familiari e amici, a decine, mentre riempivano di pacche le spalle e di baci le guance emaciate. Sua madre ghignava, piangeva, scherzava con il rantolo della sua nuova voce, tirava la sua pelle grigia sopra i sorrisi, schizzava saliva tra i denti anneriti e mostrava il cranio rigato dalle ultime ciocche, sotto il foulard allacciato male. Ma era felice. Era viva.
Morì la notte stessa, di nuovo e per sempre, smettendo di respirare al posto di addormentarsi.
L’immensa crudeltà del destino fu pari solo alla sofferenza.
Al funerale erano tutti provati, distrutti, non parlavano nemmeno per darsi una parola di conforto. Vanessa barcollava, stremata, sorretta dagli amici.
Poi, da tutto il corteo, ingiustificati, inarrestabili, cominciarono i colpi di tosse.

________________

Il 300 parole è un vecchio amico. Vecchissimo. Anche quando i tempi sono bui, o quando i tempi, semplicemente, non ci sono, ci tengo a mandare qualcosa. L’horror, quello là che piace ai puristi, che spesso si avvicina molto a splatter e cliché, io non l’ho mai scritto, e forse saprei anche, ma ho sempre sfuggito, da parecchio. Quindi so già, nel momento in cui mando, che non piacerà, perché a me piace dare quel brivido che resta in scia. Tra l’altro, tutte le volte che ho scritto di zombi, o meglio, ritornanti, se partiamo dalla radice dell’archetipo, credo che non se ne siano nemmeno accorti. Tipo quello dello scorso anno, che continuo a riterenere una gran storia d’amoreorrore. Quello di quest’anno invece era più semplice. Ed è questo qua che avete appena letto. Il quadro esce dalla biennale di quest’anno, non so chi sia l’autore, ma era molto adatto. Questa cosa del corpo che non ci appartiene più, ma viene colonizzato dal cancro, che ci ostiniamo a chiamare malattia, ma è solo questione di punti di vista, è affascinante e crudele. Sarò costretto ad affondarci, e lo sarete anche voi, lo saremo tutti, come nel racconto. Dovrei farci un libro, di queste piccole storie di gelo, forse. Ma chi lo leggerebbe? E poi, come tante cose della vita, semplicemente non servono.

Post a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.