“Mestri di mont” di Tito Maniacco****
Allora facciamo così! Il pc dice che manca il 10% di batteria, e dovrei attaccarmi al cavo ma poi mi devo avvicinare al lato sinistro e io sono pigro e non mi va. E tra l’altro mi sono appena tolto le lenti – e quindi non vedo un cats – e mi sono fatto il moscow mule abbondante, e questo significa ancora più pigrizia.
E il libro, questo libro, non merità scomodità di nessun genere, ma calma e piacere di parlarne. Io allora faccio così. Metto a caricare il pc. Mi finisco il moscow mule mentre rileggo qualche riga qua e là e poi vado alla casa dell’acqua, ché insomma… almeno a mezzanotte non ci sarà nessun rompiciglioni.
E poi torno e mi rifaccio un moscow e vi parlo del libro. E non fatevi ingannare, ha un titolo friulano, ma è in italiano, epperò è friulanissimo.
Okay. Sono tornato. E ci ho messo un’ora e mezza. Vabbè… non tutto per prendere l’acqua, ma insomma, vai, prendi due bestie, riporta l’acqua, ascolta neil young alla radio, torna, riprendi altre due bestie… il tempo vola e rompe le palle. E infatti dovrei anche andare a dormire, ma poi perché?.
E allora lo finisco, questo post che non ho cominciato.
Dicevo del libro. E’ bellissimo. Se siete insegnanti, ancor di più delle medie inferiori o delle elementari, vi direi quasi che dovreste leggerlo per dovere morale e professionale. Certo… Ad avere un’idea del Friuli e delle zone intonse, in monte, è sicuramente una lettura più densa, quasi travolgente; ma anche siete ignoranti di queste zone, ma solo amanti dei ritratti storici, be’ ecco… è imperdibile.
Lasciamo stare il fatto che l’autore non è persona qualunque. Ma anche se non fosse Maniacco, creativo multiplo e storico miliare, questo sarebbe davvero un gran libro, emotivamente parlando.
Di cosa parla? Di lui, quando per pochi mesi, da inizio anno scolastico al 6 gennaio, è stato insegnante della pluriclasse di Moggessa (di sotto e di sopra, of course). Racconta del friulano, spiegando i termini che incontra, dandone illuminazioni etimologiche brevi e opportune. Racconta dei luoghi, del viaggio, del treno e dei sentieri. Ma racconta dei bambini di Moggessa, di quello che erano, quello che offrivano, di una sorta di paradiso, in quanto a sincerità e purezza.
Traspare una abilità grande, sua, nel mediare tra nozioni apprese dai libri – è giovanissimo, al suo primo incarico – e la realtà, le necessità vere, didattiche. C’è uno scontro con le istituzione che è tanto velato quanto chiarissimo. E’ difficile non pensare a quanto fosse merda il sistema scolastico italiano già nel ’56. E difficile non amare i suoi bambini, o gli abitanti di Moggessa, come il vecchio misantropo che conosce il primo giorno o la signora che lo ospita. Persone antiche dentro, che sembrano attraversare il tempo come una ruga, anziché averle.
E c’è una cosa curiosa, anche, di questo libro. Pur essendo autobiografico, Tito Maniacco non indulge mai su una eccessiva personalizzazione del ricordo, sull’emotività sbattuta in faccia. Anzi… a buttarsi in una analisi puntuale delle frasi si potrebbe dire anche che a tratti è freddo, didascalico, soprattutto quando ci tiene a infilzare teorie pedagogiche o nozioni espresse con un gergo vicino a quello scolastico. Eppure non lo è mai. Diciamo che riesce sempre a far trapelare quanta bellezza abbia ricevuto in quei pochi mesi di supplenza a Moggessa da quella comunità.
Provo a prendere qualche frase, più per il piacere di ricopiarla, che per scrivervela.
La pluriclasse era un caos totale, l’intreccio nello stesso periodo di tempo di esigenze completamente diverse fra bambini di quinta, ad esempio, e i due piccoli di prima che avevano appena cominciato a tenere in mano la matita e a interrogare i quadrati del quaderno di aritmetica su cui allineare le loro aste. Allora si insegnava a scrivere cominciando a esercitare il rapporto che doveva essere fluido e naturale fra mano e bastoncino in legno, così come era naturale per loro il rapporto fra mano e martello, mano e falce, mano e cavezza, mano e mannaia, il terreno innaturale dello scontro non era il prato, o il tronco ma un piccolo rettangolo bianco il cui sfruttamento era astratto e gelido.
Ma queste sono le sue considerazioni. Molto più belle sono le descrizioni, che lo portano a raccontare con molta semplicità la vita a Moggessa, senza infiocchettare. Sembrerebbe quasi avesse voluto scrivere in un modo da essere capito dai bambini di quella volta.
Poi sarà prof da molte altre parti, Maniacco, sitmatissimo, ma questo libro se lo è tenuto per la tarda età, pare, e insomma… sembra come uno che svela i suoi segreti. Vedete, sembra dire, sono diventato così e così perché ho vissuto questo e questo… Come restare immuni alla meraviglia di chi vede un treno o è in grado di scolpire il legno in modo meraviglioso senza quasi accorgersene? E alla grappa, al frico, al freddo, alla nebbia… come restare indifferenti? E non ci si resta. Non almeno per chi legge.
Insomma… la chiudo e mi faccio da bere, ora che son le due e mi sembra un’ora buona.
Aggiungo solo che è un libro buono per capire, tra le righe, molte cose di quegli anni che indirizzavano già al miracolo economico, ma non nella provincia recondita, dove sembra piuttosto di essere indietro di trent’anni. E non è un male, si conclude alla fine.
Ma sapete che vi dico? Vi lascio qualche altra riga, così, tanto per.
Guardate come descrive la signora da cui alloggia.
Gli occhi di siore Marie erano castani, ma covavano un’ombra nera che si stendeva lungo la fitta trincea di rughe che assediavano la radice del naso e scorrevano lungo le gote vizze. Terrose e grosse erano le mani di siore Marie che mi invitò a sedermi davanti a un piatto, mentre con il mestolo riempiva una fondina segnata da una circonferenza blu e me la metteva davanti.
E insomma dai. Direi basta. Se volete uno squarcio di luce sul mondo carnico nel 1956 questo è un libro che difficilmente ha eguali, anche se parte dalla scuola e dall’insegnamento. Ma si sa… si parte dai bambini e si scopre il mondo.