C’era un tempo in cui ogni primo dell’anno andavo al mare a camminare, la mattina, con gli anfibi, il giubbottone di pelle nera, senza telefonino e un libro nuovo, scelto arrivato o comprato i giorni precedenti, con un criterio piuttosto casuale. Il libro del primo dell’anno. Doveva essere piccolo e breve, poter essere letto lo stesso giorno o nei giorni successivi, stare nella tasca interna. Meglio se riflessivo e pensoso. Il mio mare era quello di Lignano, lo è ancora, anche se da qualche anno questo mio andare al mare si è interrotto. Arrivano altre persone, altre abitudini, e via via ti allontani dal te stesso che eri o pretendevi di essere. Non è necessariamente un male. Ci sono cose che ho rivalutato, invecchiando, come il dormire. Ma non credo sia solo questione di vecchiaia. Nemmeno di anzianità, nè saggezza. Si cambia e ti cambiano, tutto qua. Si paga prezzi sempre più alti per rimanere uguali.
In quei tempi, comunque, durante quei passi, arrivavano i buoni propositi e si trasformavano in una una quasi poesia. Li trovate ancora, qua sul sito, cercando nelle date intorno ai primi di gennaio dei vari anni. Una quasi poesia è comunque un distillato, un mettere in poche parole le sensazioni e i pensieri di quella passeggiata. Ricordo che mi segnavo i pensieri, li scrivevo su un pezzo di carta qualsiasi, spesso congelandomi le mani (sono abbastanza vecchio per venire da un’epoca dove a gennaio si gela), per poi ricorstruirli e mandarli in giro via sms, prima, e wapp, poi, come augurio di buon anno. So di averne scritti di belli, certi anni. Oggi mi sono accorto che nascevano quasi tutti da simbolismi e metafore, cercati in quel tempo diluito che scorre la mattina del primo gennaio, in epoche in cui la maggior parte delle persone, quel mattino, dormiva.
L’anno scorso ero lontano dal mare. Lo eravamo tutti. Eravamo chiusi in casa e c’era quella cosa dello stare dentro al Comune e fare solo un giro al giorno, a trovar parenti. Mette i brividi a ripensarci. Ma si faceva. Si moriva ancora. Ma ho tentato di fare la mia passaggiata, col mio giubbotto nero, col mio libro. Ricordo bene cosa avevo scelto. Una raccolta di articoli di Buzzati sul natale, un mondadori. Me lo aveva regalato Serena. Non l’ho ancora finito. Erano belli, ma non erano adatti. E forse l’acqua scelta non si prestava, anche se ricordo con piacere la passeggiata. Avevo scelto la Soima, un rigagnolo di acqua putrida intorno alla quasi collina di Cassacco. Avevo attraversato campi arati e prati infangati.
Quest’anno non si muore più, e per un attimo, ero tentato dal mare. Si sarebbe potuto, tecnicamente. Ma il tempo e i km sono diventati troppi e così ho pensato di no. Questa cosa del non festeggiare, l’assurdità delle mascherine all’aperto… non è ancora il tempo per tornare indietro nel tempo. Così ho pensato a fare le cose graduali. A non rinunciare, ma a trovare qualcosa di più adatto al me che sono adesso. E l’ho trovato. Il Tagliamento. Da Pineta verso sud. Da ponte della statale a ponte dell’autostrada. Posti in cui vengo d’estate, a cuocermi di sole e rotolarmi in acqua. E ho fatto bene. Tutto è stato perfetto. Talmente perfetto da farmi scrivere le righe che verranno. A condividere questi che non sono i buoni propositi, ma è come se.
Non c’era nessuno. Nessuna auto, nessuna persona. Mi sono cambiato, anfibi e giubbotto, e ho messo la funzione aereo. Ci si evolve anche nell’isolarsi. Il libro l’ho pescato da un cassetto. Uno dei tanti dove ho riposto la mia biblioteca ambulante, quella che mi portavo dietro nei posti dove lavoravo. Erano tutti grossi, alcuni letti, ma me ne è uscito uno magro. Sciascia. Temevo fosse un saggio, ma invece no. Il contesto. Ho letto che è il terzo giallo di Sciascia dopo A ciascuno il suo e La civetta. Era sufficiente. E ne sono contento. Avrò letto a malapena una decina di pagine, ma è bello, ho trovato una frase bella, quasi subito, di quando uno muore e diventa perfetto, specchiato negli specchi. Scritto in quel modo forbito e strano e impegnativo, certo, ma bello. Faceva caldo, c’era il sole. E nella mia passeggiata di un paio d’ore ho trovato un sacco di simbolismi e metafore. Non avevo carta e penna, ma potevo fare le foto e ne ho fatte parecchie.
I buoni propositi, perciò, ve li dovete trovare da soli, da questi pensieri.
Ho visto un sasso. Un sasso grande a forma di cuore. L’ho raccolto, e forse non era poi così bello, ma soprattutto era pesante. Troppo pesante per portarselo dietro. Non ci portiamo dietro le cose pesanti, anche quando sono belle. Oppure, le cose pesanti, ce le portiamo dietro se torniamo, mentre io stavo andando. E’ quando si torna, che ci si può permettere la fatica,il peso di qualcosa che ti rallenta. Anche nella vita. Ci sono i pezzi in cui vai e in cui torni. E quando vai lasci indietro, quando torni raccogli. Così, non so perché l’ho fatto, ho lasciato cadere il sasso su un altro, di proposito, per spezzarlo. Spezzare i sassi, osservare quello che sono dentro, è una cosa che mi è sempre piaciuta. L’idea del rompere qualcosa, quel piacere che si ha da bambini, con le bottiglie di vetro, i sassi, i castelli di sabbia, le finestre delle case abbandonate… non ho mai perso quel piacere, quel secondo di gioia che si raccoglie attorno allo schianto. E il non si fa, non si dovrebbe, non sempre basta. Ma il sasso non si è rotto. Eppure il piacere resta. Il suono. Il suono di sasso contro sasso. Il tutto è durato quanto? 15, 20 secondi? Non ci ho pensato, ho proseguito, ma solo di qualche passo. Se era bello, il sasso, se fosse stato un cuore, potevo metterlo da parte, ho pensato, sulla riva, ritrovarlo al ritorno. Al ritorno potevo fare la fatica di portalo con me. E sono tornato indietro.
E qui il secondo pensiero. L’avrei ritrovato? Sapevo che non sarebbe stato facile. Trovare un sasso dopo averlo abbandonato possiede une difficoltà che conosco. La conosciamo tutti, questa difficoltà. Afferrare una cosa, nella vita, decidere di lasciarla e cambiare idea, tornare indietro, ritrovarla. Per quanto poco tempo sia trascorso, per quanti pochi passi ce ne siamo allontanati, è difficile da ritrovare. Si è spostata, si è nascosta, e tutto ciò che è intorno sembra diverso. Come dice il titolo di Sciascia: è il contesto. E anche come stamane, anche sapendo che il sasso l’avrei trovato, era vicino, ho dovuto cercare. Quanti minuti? 5? 7? Non di più, ma non di meno. E quando l’ho ritrovato sapevo che avrei visto altro, in lui. E l’ho lasciato a se stesso. Non era più il sasso che volevo. Quel grosso cuore di pietra era abbastanza imperfetto da lasciarsi abbandonare senza rammarico. Non facciamo forse sempre così? Non ci accontentiamo del piacere di ritrovare qualcosa che avevamo già abbandonato già una volta per poi riabbandonarlo di nuovo?
Poi ho trovato la sabbia. Un pezzo di sabbia di fiume. Ho pensato che c’è una gran differenza da quella del mare. Là, su quella sabbia, ciò che scriviamo è destinato a essere cancellato dalla marea e dal vento. Qui no. Qui le cose durano. Serve una piena. Non dobbiamo mai confondere la piena con l’alta marea. Così volevo scriverci qualcosa, su questa sabbia, o disegnare. Ma disegnare e scrivere è diventato più difficile: doveva essere qualcosa di una certa bellezza, un certo senso, o di una certa forza, che potesse anche solo lasciare dello stupore o una risata. Ho pensato a un disegno, ma con un bastone sulla sabbia si può solo cercare in qualcosa di stilizzato e che abbia dei metasignificati. Ma non sono persona che si riconosce in simboli, a meno che non li abbia inventati io. E inventare un simbolo, qualcosa di bello, avrebbe richiesto troppo tempo, e il fiume in attesa era troppo bello per abbandonarmi a pensieri che potevo fare in un altro altrove del tempo. Parole, allora. Mi è passato per la testa di tutto, nel giro di qualche istante. Il mio nome, un dioporco, lettere a caso… no. Quella sabbia lontana dai passi, che avrebbe conservato, si meritava qualcosa. E ho pensato a uno haiku, che era nato poco prima, con il cuore di pietra, 5 sillabe. Stucchevoli. Senza kigo. Ma anche se non bello, è venuto. Lo hanno portato i gabbiani. Erano tantissimi, a farmi pensare al mare. Erano lì poco prima, ed erano volati via al mio arrivo. Non li ho visti più. Ma mi sono bastati. Cuore di pietra/ calpestato sul fiume/ stride l’albatro. Ho lasciato il bastone lì sotto, faceva parte dello haiku. A me è rimasta questa cosa che solo i cuori di pietra sono calpestabili e questa cosa che se sai che rimangono, le cose le vuoi fare più belle.
Sono arrivato al ponte dell’autostrada. Le auto erano pochissime. Si stava bene. Cominciava a fare caldo. Prima di arrivare però ho pensato alla possibilità di attraversare il fiume. Si poteva attraversare il fiume? Non dovevo, non mi serviva. Ma nella vita bisogna sapere di poter fare le cose senza necessariamente averne il bisogno, per star bene. Attraversare senza bagnarsi i piedi, comunque. Il Tagliamento è un fiume che si attraversa sempre facilmente, ma un fiume in cui ci si bagna altrettanto facilmente. L’acqua sembra sempre meno profonda di quanto è realmente. I sassi ingannano anche quando non sono scivolosi, perché barcollano, sono instabili. Ma il più delle volte, è la prospettiva, l’inganno. Sembra si stringa, ma non si stringe abbastanza. Così si cammina fino a, per poi capire che non è servito, si guarda avanti e si cammina ancora, e non serve mai. Facciamo così un sacco di volte, prima di deciderci che dobbiamo bagnarci i piedi. E a volte torniamo indietro asciutti. Se questa fosse una quasi poesia, il buon proposito qui, sarebbe quello di bagnarsi i piedi subito, al primo inganno di prospettiva, come ho fatto io, con questo che ho fotografato da lontano.
Sotto al cavalcavia ci sono i graffiti. Amo i graffiti. Ma l’ho sempre trovata un’arte il più delle volte sprecata, muri e muri sputtanati da un solo tag, incompleti, poco strutturati. Così ho cercato quelli che mi piacevano. Ce n’era uno solo davvero bello, strutturato, dove il tag è una firma e non l’opera stessa. Dove c’era il segno di un pennello, inteso come miglioramente e non come violazione di purezza. E c’era stata una scala. Era un ape. Senza apostrofo. Bello. Rifinito. Strutturato. Ho girato di pilone in pilone. Ho camminato sui sassi per guardarli tutti. I miei anfibi sono ancora anfibi, non mi sono bagnato. Ce n’erano altri, belli. E molti tag pensati, costruiti… belli, sì, però pur sempre una scritta. Un nome. I nomi perdono sempre al confronto dei concetti e delle idee. I nomi si dimenticano. Qualche volta non si capiscono nemmeno. Quante volte succede? Io non ricordo mai i nomi di chi si presentano o mi presentano. La verità è che non ascolto nemmeno. Dovremmo presentarci con un concetto, un’idea. “Ciao, piacere, credo che il tempo passato a guardare le stelle non sia mai sprecato. E tu come ti chiami.” “Io? Io penso che solo le onde del mare siano indivisibili. Però mi chiamo anche come te.” Non sarebbe meraviglioso? E c’è, un proposito buono nel dare importanza ai concetti e alle idee, piuttosto che ai nomi. E infatti, l’altro graffito che salvavo, era una scritta con un concetto attorno, e un disegno. A dirla tutta, meglio dell’ape. You pray, I spray. Un calembour con un suo senso.
E poi ho pensato e visto un sacco d’altre cose. Mi sono spogliato, a prendere il sole e leggere, la pietra era fredda. Ho guardato l’acqua, filmato il rumore, camminato sulle pietre viscide con la cautela della coscienza. Poi era tardi. Il me che ero non sarebbe ritornato alla civiltà, sarebbe rimasto lì a leggere, a finire il libro, a congelarsi per leggere le ultime righe. Ma il me che sono ha il piacere di abbandonare una cosa bella per un’altra, per godere di entrambe. Così sono tornato. E tornando mi sono ricordato di una cosa che facevo sempre, al mare. Raccoglievo una conchiglia. La conchiglia del primo dell’anno, che tenevo in auto, finché durava. Lì le conchiglie non ci sono, sarebbero fossili. Ma potevo raccogliere un sasso. Un sasso bello, ho pensato. Ma poi… come cerchiamo un sasso bello. Perché è a forma di cuore? Perché è di un colore che non ricorda un sasso, ma qualcos’altro? Ecco. L’ultimo pensiero, dopo molti altri che ora ho dimenticato, è stato questo. Io cerco un sasso, e per sceglierne uno, separarlo dagli altri, dargli un destino diverso, cerco un sasso che assomiglia ad altro, o che si distingue dagli altri. Non è un delitto? Così non l’ho compiuto. Ho scelto un sasso sasso, biancastro, irregolare, perfettamente inutile e irritrovabile, a gettarlo. Ora è sul sedile dell’auto. Sarà la mia conchiglia. L’ultimo buon proposito dell’anno: non confondere i sassi con le conchiglie.
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