
“Tigre di Arkan” di Michele Guerra****
Per scrivere questo articolo dovrei ascoltare gli Ekatarina Velika, un gruppo serbo di new wave degli anni ’80. Li ho ascoltati, mentre leggevo questo libro, all’inizio, durante le righe dove si parla soprattutto di loro. O meglio, sembra si parli di loro, ma in realtà si parla di chi li segue, di chi si annida tra i loro fan, di ciò che significa vivere, suonare e drogarsi in Yugoslavia. Essere giovani, insomma. Invece non li sto ascoltando. Perché è domenica sera e il week end è scivolato via in fretta, e quando le cose son veloci ho bisogno di qualcosa di nuovo, anche se deludente. A volte può essere ascoltare la musica nuova. E sto facendo questo. Sto ascoltando il disco nuovo di Tom Morello. E io lo so già che è inutile, lo sa il mondo che un disco di Tom Morello è quasi un ossimoro. Eppure… è una cosa nuova e l’ascoltiamo. Per ora, sono alla quarta canzone, e dopo una cover insulsa il resto è ascoltabile e dimenticabile. Poi ascolterò Young thug, e poi finneas, il fratellino eilish. E niente di tutto questo mi piacerà. Ma torniamo agli Ekatarina Velika.
Se leggete questo libro. Se decidete di leggerlo, dovete ascoltarli. Non necessariamente mentre lo leggete. Però durante la prima parte nelle orecchie ce la dovete mettere, quella musica. Credo sia importante. Vi direi anche, forse, di buttare un occhio a qualche filmato calcistico sulla Stella Rossa, mentre leggete la seconda parte, ma io non l’ho fatto e sono contento così. Ero già abbastanza innervosito, a quel punto del libro.
Ma sto chiacchierando troppo. Meglio partire con le domande.
Voi quanto ne sapete di quello che è successo alla Yugoslavia quando è diventata Ex-yugoslavia? Della serbia, della bosnia, del kosovo, della slovenia, della croazia quando queste parole non esistevano, ma esistevano soltanto le parole serbi, bosniaci, croati, kosovari, ecc.? Io molto, ma molto poco. Ero e sono ignorante, rispetto a questa guerra. Ed è una cosa curiosa, questa, perché io vivo in Friuli. Avevo un’età, in quegli anni, dove avrei potuto – se si fosse potuto – prendere l’auto e andarci, in quei posti, sotto quelle bombe, in mezzo a migliaia di assassinii e stupri. Nei campi di sterminio. Erano qui, a pochi chilometri dal confine. Eppure ignoravo e ho continuato a ignorare.
Quache anno fa vidi una mostra fotografica, su queste cose. Vidi le foto dei morti, lessi i numeri, lessi chi aveva ucciso chi e come. E ricordo che ne seppi di più, che ne rimasi quasi sconvolto, eppure, dopo poco, ho dimenticato. Difficile da spiegare. Sembra quasi che il fatto di vivere vicino a un certo fatto l’abbia allontanato, gli abbia permesso di fare meno rumore. O forse, la mia condizione, è anche la vostra. Anche voi non ne sapete molto, forse niente.
Ecco. Questo libro fa per voi. A me lo ha regalato Margherita, con cui condividevo l’ignoranza, e decisamente è un libro che mi ha lasciato parecchio. A livello didattico, certo. Ora so chi erano le tigri di Arkan, chi era Arkan, e vi consiglio, se non ne avete idea, ma volete scoprirlo con il libro, di non leggervi wikipedie o cose simili. La leggerete dopo.
Vi spiego subito perché. Michele Guerra (che è di Codroipo, tra l’altro) è attivista e ha operato soprattutto in quelli che sono gli eredi dei campi di concentramento dell’ex-yugo, proprio in quelle zone, e scrive quasi dall’interno. I sottotitoli che traducono le parole in serbo croato sloveno ecc sono molti, ed è bello così. La lingua. Le lingue, sono parte del problema e del modo di conoscerlo. Mi sono fatto l’idea che conoscere le motivazioni e le forze che hanno spinto a una serie di guerre civili, alla pulizia etnica, alle violenze, ai crimiti di guerra, è parecchio difficile e anche se non potrei dire quanto sia aderente, la visione data dal libro, è senza dubbio una delle migliori che si possa tentare. Mi spiego, raccontandovi la struttura del libro. Non si parla di guerra. Non fino a metà, per lo meno. Si parla di musica, di new wave, di giovani, all’inizio. Si parla della nascita e distruzione del gruppo simbolo di quel movimento. E sembra non c’entrare molto, l’epopea degli Ekatarina durante gli anni ’80, con tutto quello che accade nel decennio successivo, invece c’entra. Così come c’entra il calcio, fatto di tifosi della Stella Rossa. Di uomini. Delinquenti, teppisti, nazionalisti… concime, insomma. Materia prima di quello che sarà l’esercito di Arkan. Esercito si fa per dire. Diciamo pure struttura paramilitare dedita al peggio. Ecco… solo verso metà libro vi sentirete in guerra, ma anche in quel momento non cadrete mai dentro una cronaca del conflitto. Sarete sempre con Branko, e Dragan, e Marko, e soprattutto con la voce narrante, che vi sta raccontando tutto e di cui scoprirete l’identità alla fine, ma non come sopresa eh. La scelta del punto di vista è la carta vincente del libro. Un narratore interno ma onnisciente.
Il libro scorre, per la maggior parte del tempo, e anche se a volte il non detto sembra mettere i bastoni tra le ruote, lasciar qualche mancanza, ci si accorge che non è veramente importante conoscere i fatti storici con precisione. Una consapevolezza che ti arriva assieme all’odio che provi leggendo. Perché se da un lato vorresti questa gente morta, ma morta male, dall’altro ti rendi conto che un assassinio, uno stupro, una tortura, non hanno bandiera (anche se, per dire, uno come Mihailovic, tanto per dirne uno, non lo guarderete più con gli stessi occhi di prima).
Insomma… mi sa che ho parlato parecchio, ma vi ho detto poco. Ma forse è meglio così.
Riassumo e chiudo. Tigre di Arkan (che vede in foto) è la storia di uno dei tanti reclutati da Arkan nelle milizie irregolari serbe che si sono macchiate di crimini di guerra enormi durante il conflitto tra Bosnia e Croazia soprattutto. Vi racconta di alcuni di loro e dei loro dintorni, partendo dai concerti new wave al montare del conflitto, passando per le vicende calcistiche della Stella Rossa Belgrado. Si parte da una foto, che non è quella in copertina, e si racconta di come siamo arrivati a quella foto, al mondo che si è frantumato per arrivare a quello scatto.
E soprattutto, e penso sia la qualità migliore, la voce di chi parla è quella del “cattivo” ed è priva di quel tono ridicolo da “la guerra è una cosa brutta, la pulizia etnica bruttissima ecc“. No, no. Ci sbatte in faccia quanto siamo coioni, noi, a pensare che le cose si risolvano con le buone maniere, quando non ci sono condizioni perché ci siano, nell’umanità in genere. E ci sbatte in faccia anche quanto riusciamo a ignorare il male degli altri. Ma questo, anche se fingiamo di no, lo sappiamo già.