
“Castello di sabbia” di P.O. Lévy – F. Peeters***
Un graphic novel, o una graphic novel? No, perché io le continuo a chiamare al femminile, perché le traduco, credo, e penso siano novelle. Ma novel, in effetti, è un false friend e mi sa che dovrei cambiare. Ma temo non riiuscirò, e allora, ho letto una graphic novel, la scorsa settimana, un giorno che avevo i consigli di classe in cui non c’era da fare niente e potevo passare la pausa pranzo al parco aspettando l’ora, e leggendo. Ed è stato l’ideale, questo fumetto, da pausa pranzo, panchina, parco e un po’ di rarefazione settembrina intorno, fatta di ragazzetti che limonano, gente che aspetta, il caldo che non dà più fastidio. Sì, perché mi sa che faceva equilibrio al contenuto di questa novella, che è tutt’altro che leggiadro.
A Serena, che me lo ha regalato, non è piaciuto, ma a me non è dispiaciuto. Aveva difetti, sì, o meglio, alcune cose discutibili, che averi evitato. Ma in linea di massima, l’inizio rapido, il bianco e nero totale e il la decadenza – di nome e di fatto – della vicenda, anzi, delle vicende, li ho trovati azzeccati. Come il titolo, perfetto, che si chiarisce soprattutto dopo averlo letto. Castello di sabbia, al singolare, destinato a sbriciolarsi velocemente. Molto velocemente. Castello perché fatto di vite semplici, ma che messe insieme formano un intreccio complesso di relazioni. La sabbia, tra l’altro, ricorda l’elemento primario della clessidra, ed è il tempo, in parte, il protagonista. Sul sito delle Coconino Press, c’è una breve descrizione che è rapida ed efficace, e trovate anche le prime tavole del fumetto, che però non sono rappresentative. Quindi, io che vi voglio bene e vi conosco, non voglio infastidire la vostra pigrizia. Vi metto qui, nel post, un paio di tavole. Quella iniziale, che fa capire come si muove il disegnatore (Peeters, che è svizzero) e un’altra che mostra il tratto delle figure umane, che a me – che però seno un profano del fumetto, non è sembrato sempre adatto alla trama raccontata.
Mi spiego meglio dicendovela, ‘sta trama. Una piccola spiaggetta nascosta, meta di bagnanti di quelli che “conosco un posticino…” Solo che più di qualcuno lo conosce, il posticino. Alla fine saranno più di una dozzina, tre famiglie, con figli vari un cane e una nonna, un immigrato, una fanciulla quaglia. Un mix vario, ma non troppo, che si accorge ben presto che qualcosa che non va, in quel meraviglioso posticino. Sembra l’inizio di un thriller psicologico, vero? E infatti, questo fumetto lo vendono con la fascetta. No, non quella dei tennisti, pirlotti. La fascetta che dice che questo è “Il graphic novel che ha ispirato Old, il film di Shyamalan“. E se guardate il trailer sul tubo che vi ho linkato, a me è sembrato “il solito film thriller col plot “gruppo di persone casualmente assemblato chiamato ad affrontare un misterioso evento in un luogo che tiene prigionieri”. Non proprio la cosa più originale del mondo, insomma. E pure l’evento misterioso, che non vi dico, ma si capisce dal trailer, non è che sia una novità ed è stato trattato abbastanza spesso nella letteratura e cinematografia fantastica. Insomma… gli ingredienti sono semplici e usati spesso, ma il modo di mescolarli – senza lieto fine e senza intrattenersi su parti morte della vicenda, è quello che salva la baracca..Resta che il film 1) lascia intuire qualche inserto nella vicenda rispetto alla gn, 2) me lo vedrei volentieri e se capita, mi sa che.
Quello che non va, invece, almeno a me, è un incedere a singhiozzo, come se ogni tanto mancasse mezza tavola, il che non ha effetti sulla comprensione della trama, ma ti sembra sempre di voler vedere un passaggio che ti sei perso, come quando si perde il gol e si deve aspettare il ralenty… che arriva, eh, ma magari un po’ più di fluidità ci poteva stare. A livello di contenuti, invece, mi sa che quello che ho digerito di meno è l’inserimento di macchiette sociali, tipo il vecchio fascio che come vede l’immigrato gli addossa la colpa di tutto, e pure l’immigrato che ovviamente dev’essere trasandato, barbalunga, reticente ma innocente ecc. Poi, forse, qualche inside magari lo si coglie pensando che Levy è francese, e forse boh, c’era qualche significato, nella scelta dei personaggi (uno scrittore di fantascienza, per dire) che mi è sfuggito.
Poi, tornando al perché a me non è dispiaciuto, c’è soprattutto l’idea che – con una scelta precisa – è stata usata come villain e paura principale, la principale delle paure umane, senza utilizzo di splatter, scene a sorpresa o particolari macabri.. Dopo la morte, ovvio, ma mentre quella è proprio paura di un qualcosa di ineluttabile, qua la paura è di un evento che ci illudiamo di rallentare e, quindi, viviamo malissimo. Il fatto che questo evento avvicini con rapidità alla morte va ad aggiungersi alle altre angosce e quindi l’effetto claustrofobico, di oppressione, a un certo momento è riuscito. Poi non regge, e qualche personaggio (i bambini soprattutto) sembra comportarsi in modo fin troppo razionale e con una mente che sembra fin troppo cresciuta, ma è una tara sopportabile. Insomma… luci e ombre, un po’ come il bianco e nero delle tavole.
Altro? Ma anche no da. Pensavo di aver meno da dire. Ho la tentazione, invece, di risfogliarlo un po’, soprattutto la seconda metà, che è veramente cattiva e nichilista.
Vi saluto, va. Che altro volete che vi racconti… tipo che Sufjan Stevens ci fa stalking musicale, visto che dopo aver uscito 5 dischi di gnagnosità elettroniche discutibili, ora ha fatto ‘sto disco che vince a mani baste il premio per la copertina più brutta dell’anno, assieme a un tipo che si chiama De Augustine con atmosfere non troppo lontane da Carrie and Lowell. E niente, ‘sta postando una canzone al giorno, siamo già a dodici, e tipo boh. Ascoltatevene una dai. O forse meglio questa, molto carrielowelliana.