"L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio" di Haruki Murakami***
Sono già le 23
Ho due ore di sonno addosso, pensavo di cambiar casa e andare a bere birra e tentare di scrivere ma prima ho voglia di stare qui, in accappatoio, ad aggiornare il blog.
Non è che proprio possa dire che ho voglia – quella l’ho sempre – ma diciamo che è già una notizia che io abbia finito un libro, di recente, senza trascinarlo per mesi, ed è una notizia che poi ne abbia letto un altro e poi un altro. Piccoli. Di amici. Però li ho letti.
Quindi voglio tentare di aggiornare di nuovo, di parlare di nuovo delle cose.
Ero bravo, una volta, a parlare delle cose.
Poi le cose succedono, e invece di parlarne ci devi stare dentro, a farne un po’ casa, un po’ prigione.
E allora dai, mi farà bene parlare delle cose.
Una cosa è da dove viene questo libro.
Me l’hanno regalato.
Me l’hanno regalato i genitori di un amico.
Di un amico morto.
Ed è un libro che parla di amicizia, di punti della vita dove devi andare a disseppellire il passato, per continuare col futuro. E non so se c’entra, non so se c’era un motivo.
So che c’era una dedica, e tanti pensieri nel gesto.
E alla fine è un bel libro, con un finale che magari più di qualcuno avrà maledetto, perché noi siamo essere che vogliono sapere le cose, e ci sentiamo traditi, a volte, quando non ce le fanno sapere, e Murakami fa così, alla fine.
Non ti dice quel che vuoi sapere.
O meglio.
Io credo che ti faccia una domanda.
Una domanda a cui mi sono risposto quasi subito.
La domanda è: Ma è veramente così importante sapere quella cosa che vuoi sapere?
Non è che magari ne hai scoperte altre, leggendo, e quelle sono quelle che ti basteranno?
Ecco. Io la risposta me la sono data subito.
Da quando ho chiuso l’ultima pagina, e mi son detto: Ma! Ma! Ma no dai!
A quando, mezzora dopo, ho capito che andava bene così, e il libro era perfetto con quel finale mezzo tronco ma che tronco non è.
Del resto, come ha scritto Gigi nell’altro libro che ho letto, poi da un certo punto ti succedono cose che ti riempiono la vita di Cose che avresti potuto fare. Più o meno. E ne ho molte, ne ho sempre avute molte, vivo così, ci sono abituato. Perdo continuamente a vari livelli di smarrimento, e così non è questa la novità. La novità, semmai, è capire che adesso le perdite hanno messo su corpo, si sono alzate e disposte sulla strada che hai davanti, a farsi schivare, salutare, bestemmiare, piangere.
Ecco… Ci devi venire a patti, con queste cose.
Non lo sto facendo. Ma sto facendo cose.
Ieri sono stato a vedere i Pearl Jam. Sabato i Ritmo Tribale, domenica gli Interpol, giovedì gli Alice in chains. Domenica son stato a vedere Arte non mente, e sabato a prendere il libro di Lucia. Ho scambiato due chiacchiere con Alteria, e ieri notte ho cercato le ombre dei pipistrelli fino alle 4 con birre e patatine. Insomma… mi mancano solo le cose che mi piacciono, e in cui ero bravo.
Scrivere…. dipingere… disegnare… Quindi, in qualche modo, sono sempre incolore, ma un po’ meno incolore. Come Tazaki Tsukuru.
Perché è del libro che vi debbo parlare. Un libro bello, agile, leggero.
Un Murakami che non leggevo da tempo immemore, e che ho avuto il piacere di.
Una storia che entra subito, già dalle prime pagine, con la terza persona a focus interno su Tazaki che racconta di lui e del suo desiderio di morire o lasciarsi morire dopo essere stato abbandonato dagli amici.
Quattro. Quattro amici che nei loro cognomi avevano i colori.
Andrei a riprendervi il pezzo che lo spiega,
“…fatta eccezione per Tazaki Tsukuru, quei ragazzi avevano per puro caso un’altra cosa in comune, un dettaglio apparentemento banale: i loro cognomi contenevano tutti un colore. I due maschi si chiamavano Akamatsu e Oumi, le due femmine Shirane e Kurono. Solo il cognome Tazaki non aveva alcun rapporto con i colori: era per questo che fin dall’inizio, Tsukuru era stato posseduto da un sottile senso di estraneità.”
*Rispettivamente Pinorosso, Mareblu, Radicebianca e CAmponero. I soprannomi Aka, Ao, Shiro e Kuro sono la forma tronca degli aggettivi akai, aoi, shiroi e kuroi, che rispettivamente significano rosso, blu, bianco e nero.
Ecco. ora direi che vado un attimo a vestirmi.
Più o meno.
Ma vediamo del libro dai. Leggerlo? Soprattutto ora che Haruki il nobel per la letteratura non lo vede nemmeno col binocolo. Be’… sì, si può leggere. Anzi… è una lettura semplice, che certo non è roba che dà la sua cifra, ma è un buon modo per avvicinarsi. Ti resta dentro questo personaggio incolore, che ama i treni e soprattutto le stazioni. Che è l’unico dei 5 amici ad andarsene, seguire la sua inclinazione, il suo semplice sogno di costruire stazione e riuscirci, ma dover andare a Tokio. Da Nagoia, che è grande ma è provincia, che ha una classe media, una borghesia giapponese ricca che diventa ricca ma che è povera di emozioni. La stessa famiglia di Tsukuru, un padre che c’è solo un paio di volte e mostra, appunto, quello che sarebbe potuto essere ma non è stato. E madre e sorella uguale, anzi meno, figure anonime.
Mentre lei, la protagonista, che arriva e vive la Tokio dei manager e della vita sociale, dei viaggi e del turismo, ecco, questa donna, Sara, che sarà chiave ma non sarà porta.
E poi c’è un personaggio di passaggio, una stella cometa, un Haida con cui ci sarà un’esperienza gaia, vera? falsa? O vera quanto i sogni legittimi di scoparsi le due amiche che può avere il Tsukuru adolescente? Un momento quasi sognante, tutto raccontato con ricordi, tutto fermo.
Il mondo per Tazaki comincia con Sara e la sua richiesta di andare a vedere che fine avevano fatto i 4 amici, le 4 anime affini che in gioventù avevano contribuito all’armonia, a una perfetta alchimia. Ve lo dico io cosa trova. Uno fa il venditore d’auto. Lexus. E lo fa bene. Ha successo, se successo si può dire fare soldi, essere contento di farli, sentire suonare il telefono ogni minuto e vendere macchine, convintoni della loro bontà.
Un’altra è andata in Scandinavia, in mezzo a boschi e neve. e silenzi. Con marito e figlia. Non ha dimenticato. No. Gli amici non si dimenticano mai, anche quando cambiano tanto, o tantissimo.
E quindi ècco che in questo libro corso (poco più di 200pagine) non ci sono tempi morti, anche se tutto ruota attorno alla lunghissima analessi della prima metà e alla ricerca della seconda metà.
Cosa troverà Tsukuro, nelle vite dei suoi ex amici?
Chi sono? Chi è lui? Chi è che veramente non ha colore? E cos’è, il colore di una persona?
Non lo so. Non c’è la risposta, nel libro. Ci sono le domande, che sono già una buona cosa.
Del resto è sempre da una domanda che comincia una risposta, giusto?
E’ tutto.
Finisco di vestirmi, ascolto un po’ del nuovo Ep dei Nin, mi inacidisco il sangue ancora un po’ trollando la gente cattiva e senza cuore che mi vive intorno, e poi tenterò di andare a godermi il lunedì, scrivendo un po’, bevendo la nuova Ipa della Moretti.
Il libro è bello. Potrei prestarlo a Marge, sì, ché questo è meglio di quello che le avevano regalato. E magari potrei tentare di ritornare a leggere altre cose di gente famosa.
Voi invece potete guardare delle cose.
E ascoltarle.
Ascoltate questo pezzo dei Nadar solo, con Capovilla.
Ascoltatevi il nuovo Interpol,
E soprattutto il pezzo dei Ritmo, ché c’è da farci un post sopra, solo su di loro.
O l’inutile ma nostalgico pezzo degli Smashing.
O anche il nuovo Gorillaz, che boh.
E niente. Volevo ascoltarmi le cose io, e ve lo dico anche a voi.
Nick Parisi.
Se un libro fa nascere delle domande a chi lo legge allora vuol dire che sta facendo bene il suo lavoro.
Ciao!