“Stato di quiete” di Pierluigi Cappello****(*)

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“Stato di quiete” di Pierluigi Cappello****(*)

Abbiamo letto un libro.
Un libro di poesie. 
Un libro di poesie che ho comprato, perché volevamo leggere poesie.
Leggerle ad alta voce, ché così van lette. Leggere nel silenzio, o nella musica bella di Bon Iver o James Blake, o nel rumore del mare.
E non lo puoi sapere quello che ti capita andando a cercare di comprare un libro di poesie. 
Andando di proposito, ma obbligati dall’urgenza.
Io sono andato alla Feltrinelli, quella vicino casa. 
Non ricordo se ne ho comprati due, o solo questo, ma so di essermi scontrato con quello con cui sapevo di scontrarmi: il mondo delle cose per il mondo.
Le poesie fatte per il mondo, in questo caso. 
Il mondo di chi non si occupa di poesia fino a che qualcuno o qualcosa lo obbligano a occuparsene.
Il marketing, diciamo, per essere semplici.
E se tu vai a cercare un libro di poesie alla Feltrinelli trovi prima il marketing.
E poi, a cercare dietro, forse, può essere che c’è quello che cercavi.
Il reparto di poesia qui alla feltrinelli di Basiliano era povero. Poverissimo, numericamente.
Non ricordo ma credo non più di venti libri.
Ovviamente c’era la Symborska –  o come cazzo si scrive –  l’inflazionatissima Merini.
E io lo so che se una non avesse vinto il Nobel o non avesse avuto la vita che ha, e l’altra non avesse avuto la vita che ha avuto e non fosse stata monetizzata dal sistema, a partire da Costanzo in poi, ecco… forse non le avrei trovate. Ma la prima l’avevo già, e la seconda non era una cosa che volevo leggere in quel momento. C’era De Luca. Che sa scrivere bellissime cose, a volte. 
Questi sono quelli che meritano, ma che non volevo, pur sapendo che meritano.
E poi qualche classico, ma chiaramente i classici famosi. 
Non Caproni ma Quasimodo, per capirci. 
Non il mio amatissimo Sereni, ma gli inarrivabili ma che non cercavo italiani del Novecento. Ungaretti e compagni.
E poi c’era la merda. 
La merda sono quelli che credono che basti cercare le parole strane sul thesaurus e smettere di scrivere prima che la riga finisca, per scrivere una poesia.
Ma essendo attori, scrittori, personaggi destocaz, ecco che la vedranno pubblicata, qualcuno dirà “Ohh” e si troveranno a essere venduti. 
Ecco… quello che c’era. 
E poi c’era Cappello. Pierluigi. 
Che anche lui, con questo libro, entrato a far parte dell’Universo marketing Rizzoli, coi suoi difetti e forse boh, qualche pregio. Il pregio della diffusione, se non altro.
Perché ve lo dico adesso. Se cercato poesie. Quelle vere. Quelle che sono distillato e non succo, quelle che devi rileggere, una, due volte. Che poi vuoi conservare, perché non si sa mai, più avanti, di voler prendere il libro in mano e volerle rileggere. 
Ecco… comprate questo libro. Perché le poesie sono poesie. 
Difficili, certo. Non immediate, quasi mai. Che vi chiedono molto, per darvi molto. 
Ma che hanno ossa forti, dentro una pelle liscia.
Insomma… ma torniamo a noi. Anzi no, faccio pausa. Sono le 10.42 e io sto riordinando la mia stanza dei libri. Voi non potete capire. E’ una cosa difficile. Delicata. Bella, ma non sempre.
Sistemare i libri che mi hanno regalato, ricordare le persone, ricordare i libri che ho comprato, quando e dove. Ricordare cosa facevo mentre lo stavo leggendo, con chi ero, dov’ero, con chi stavo, chi ero io. Di ogni libro, credo, potrei scriverci un libro di pensieri. 
Tipo, per dire. Faccio una prova. Ora ne ripongo uno. Uno a caso. E vi dico cosa mi ricorda.
Ho preso Chesil Beach, di Ian McEwan. Lo ricordo. Me lo ha regalato, credo, quasi sicuro, Laura. Con Laura (nome di fantasia) andavo a letto, ricordo, ed era bello. La trovavo bella. Ci eravamo un po’ persi, uno nell’altro, per un periodo. Lei aveva il suo fidanzato, con cui adesso è accompagnata, ha figliato. Io la mia, non ricordo quale. Condividevamo cose, musica e libri. Aveva, ricordo, un seno meraviglioso. Credo sia nella top tre dei capezzoli che ho conosciuto. Si andava a bere. Beveva birra. Le donne che bevono birra tendono a piacermi. Sto parlando di qualcosa come forse 10-15 anni fa, eh. Comunque, del libro. Lo lessi. D’inverno, ricordo. Ricordo la storia. Un po’ come la storia di me e di Laura e del motivo per cui poi ci siamo allontanati, incazzosi, uno contro l’altro, per colpa mia, ovviamente, che non ricordo cosa mi fece arrabbiare. Pecco e peccavo d’ira. Ebbene. Ricordo che poi, il libro, lo lesse anche lei. Era un libro che stupiva per quanto “bene” era scritto. Ricordo una perfezione formale quasi maniacale, perché le frasi lunghe fossero perfette. Forse non è così, magari, se vado a rileggerlo. Ma insomma. Questo è. Ripenso a Laura, che vedo ancora, ogni tanto, saluto, non abbiamo più da dirci cose meravigliose. Non da condividere. Io leggo ancora poesia davanti al mare ad alta voce, faccio le notti, scrivo e ascolto musica invece di figliare e sposarmi. Lei non so. Lavora, è brava nel suo lavoro, molto. Ma è di quelli sempre uguali, come quello che faccio io. La vita è altrove. Per lei nei figli, per me non so. Forse nello scrivere. Forse. Insomma… ecco… penso a tutto questo, agrodolce, mentre ripongo Chesil Beach. Moltiplicato per il migliaio di libri che devo riporre. Per fortuna, molti, li ripongo in blocchi, senza guardare.
Ma torniamo a Pierluigi.
Perché è entrato nel giro della Rizzoli da Feltrinelli? Uno si chiede. 
E a questa domanda è facile rispondere: perché è bravo.
Ma la domanda vera è un’altra. Come mai questo tipo di libri, con le alette, con la prefazione horribilis di Jovanotti, con una decina di pagine bianche alla fine, con una particolareggiatissima quanto lunga e inutile bibliografia di 15 pagine o giù di lì, che cita anche la lista della spesa dell’autore. Insomma… un libro del marketing. Che per delle poesie così fonde e delicate è come mettere il ketchup sulla pizza. C’entra un cazzo, ma qualcuno senza gusto alcuno è convinto che.
Non lo so.
Certo… che sia sulla sedia a rotelle e ci sia stato del fermento per riconoscergli la legge Bacchelli credo che sicuramente abbia contribuito. Ma erano pensieri così, che mi faccio sempre quando una cosa bella viene vestita male per colpa di quelli che vogliono farla sembrare bella a chi non ha i mezzi e la sensibilità per capirla.
Pierluigi è friulano, scrive in italiano e in friulano. E’ di qui. Abita di fronte a Giorgia, mi pare. Vedo casa sua, quando la vado a trovare. Lui no, mai, ma resta che è lì che l’ho immaginato quando ho letto il suo libro di racconti. Il primo, di narrativa, che mi piacque tanto tanto. 
E credo che sia il miglior modo di conoscerlo. Oddio… potrei anche suonare il campanello e dirgli, oh, ho letto questi due libri, beh… Bravo. Ma credo sia una cosa che non c’entra un cazzo, che gli starebbe enormemente sulle palle, come la prefazione di Jovanotti, che a me ‘sta simpatico, anche, e apprezzo per certe cose, ma che più andavo avanti a leggere le poesie e più pensavo a quanto quelle righe insulse, sgangherate, qualunquiste e superficiali dimostrassero che del libro non avesse capito un cats.
Ora torno a riporre altri libri e poi torno a parlarvi delle poesie.
Ecco… le poesie valgono il prezzo del libro anche senza le pagine vuote, che comunque ho deciso di usare per scriverci dentro, e anche senza la biblio, che non leggerò. 
C’è una nota, all’inizio, dell’autore che spiega il titolo della raccolta e spiega da dove nasce, la sensibilità che è in queste parole. E c’è una constatazione numerica, che spiega perché sono distillati, questi componimenti: trenta poesie in sei anni, ci dice. E credo sia un numero giusto. Io credo sia una quantità alta, per questa qualità, con questi tempi.
Ma siccome parlare senza leggere non ha senso. Vi scrivo qualcosa di Stato di quiete.
Per esempio, l’altro giorno, al mare, il giorno della fine del libro (inattesa, perché credevo me ne mancasse ancora metà e invece) mi sono rimaste addosso queste prime frasi, che ho trovato e trovo meravigliose.

Stacca ombre decise settembre che preme sulle case,
sono diagonali scure, tegole in luce, finestre illuminate
e poligoni di buio. Le facciate esposte al sole 
sono tanto crude, croccanti come la polpa delle mele.

La poesia è Lungo la ciclabile, ed è poco più lunga. 
Ma io ve ne voglio scrivere una intera, e poi che vengano quelli della Rizzoli a cagarmi il caz. Se non ne leggi una intera, non capisci perché vi dico che sono piccoli gioielli.
Fatemi scegliere…
Ecco. Ho aperto a caso. Ma questa ricordo mi era piaciuta. E’ breve, ché ho poco tempo per.

Scritta da un margine.



Non si tratta di riempire, si tratta
di far parlare il vuoto. L’ortensia
si è piegata al frutto della luce
ma non c’è tensione oltre le siepi di lauro, 
nella tenue foschia di mezza mattina. Sarà 
il tremolare delle gemme di marzo, sarà
l’aria spartita dal raschio di un autocarro
e il ricomporsi del silenzio che chiude una scia.
Dalla testolina di un passero, la prospettiva
accompagna lo sguardo alle quinte di alberi alti
dove il cielo si rompe in turgore e il bianco 
ha il sapore di un inno; si vive
appena sopra la superficie del sogno
e tutto accade a un passo da qui.

E io vi lascerei qui. E’ ora di pranzo. Dovrei fare qualcosa di utile, ma non lo farò. Devo vedermi Gazzè stasera e non ho voglia. Tutti gli orari, le cose da fare, gli impegni presi mi atterriscono, di questi tempi. Vorrei essere qualcosa tipo un soffione, ma dopo che è stato soffiato via.
Ma non si può. Farò anche oggi, per l’ennesima volta, ciò che il mondo chiede.
Ciao.

Comments

  • 4 Aprile 2018

    Ho avuto la fortuna di leggere le sue poesie prima del marketing. E non sapevo neanche della sedia a rotelle. Ho avuto in mano dei versi e basta. Io leggo pochissime poesie, soprattutto Brecht e poco altro. Non amo gli effetti speciali, o sentire che le parole sono state messe insieme per stupire il lettore o ammaliarlo. Le parole devono stare in un verso perché sono necessarie, perché al poeta servivano esattamente quelle parole per dire quello che ha da dire. E allo stesso tempo aprire uno sguardo nuovo sulle cose.

    "Sopra un leoncino cinese"
    I cattivi temono le tue unghie
    I buoni si rallegrano della tua grazia
    Una cosa così
    Mi piacerebbe sentire
    Dei miei versi.

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