
“Costumi degli italiani” di Gianni Celati****
Breve. Brevissimo.
Perché ho poco più di venti minuti prima di andare. Perché ho un cinese all’uscio, e devo preparare le cose della pesca, e cercare di capire come mettere le sveglie perché non suonino un’ora dopo e alla fine tanto so che starò sveglio per vedere.
E poi perché è un libro piccolo, di racconti piccoli, ma deliziosi.
E poi boh, sto ascoltando il nuovo Lamar, e pure tutti i nuovi Gorillaz, con quel singolone galattico.
Comunque una cosa simpatica è questa.
Siccome non leggo mai tento con questi libretti piccoli. E li scelgo a caso, siccome ne ho una vagonata ancora da leggere.
Celati l’avevo incontrato qui, mi pare, ma proprio non mi è sovvenuto il suo nome e l’ho bella mente confuso con Cerami. Vincenzo Cerami, che tanto mi era piaciuto.
E la cosa figa è che pure, iniziando a leggere, benché un dubbio di stile mi fosse venuto, ero perfettamente convinto che Cerami avesse padronanza galattica di diversi stili.
Probabilmente è così, ma dopo due tre pagine mi sono accorto che era Celati, che ha scritto abbastanza cose, tra l’altro, e se proprio non è un autore classico del Novecento, è uno che ha lasciato la sua impronta degna.
E insomma… andiamo al libro dai.
Il libro parla di Pucci. Pucci… un nome una storia. Un ragazzotto un po’ ritardato, che vive nel suo mondo, che dà un senso totalizzante alla parola bighellonare, e che però non fa male a nessuno. Certo, di essere promosso non se ne parla, ma l’attenzione con cui è capace di guardare, che ne so, lo scorrere di una goccia sul vetro, ecco… lì è un grande.
Accanto a Pucci si costruisce un microcosmo di italianità della provincia povera di una città italiana di qualche decennio fa. Bordignoni, il compagno grezzo e caciarone che sarebbe mal sopportato da qualunque mamma, Scaglarini, quello più grande, che sa giocare a biliardo al bar come nessun altro. E poi la madre di Pucci… ah, la madre di Pucci con il suo notevole seno, che non ha nessuna intenzione di nascondere e che alla fine, cercando una raccomandazione per il suo Pucci, attirerà l’attenzione molto poco sacra di un molto religioso monsignore. E il padre, che insomma… povero padre di Pucci, rigido ma rassegnato…
Ma poi c’è la Rossana, il cugino Osvaldo,.. ve l’ho detto, un microcosmo che gira, s’avvicina e s’allontana dalla famiglia Pedrali, quella di Pucci (che poi si chiama Aurelio) e che ci dà questo spaccato ironico ed ebbro di semplicità e ingenuità di una famiglia un po’ così, dell’Italia che non conta.
Poi il tempo passa, si invecchia, pucci si fa grande e arriva la tristezza, nella storia. C’è come un senso di declino, di decadenza, nelle pagine, nella madre che oramai si è arresa a quel figlio scemo che a tratti diventa pure cattivo e irritabile. Da sorriso si passa alla melanconia, ma è giusto che ci si arrivi così, alla fine della storia di Pucci.
Che altro dire. Chiudiamola dai. Mi sono piaciuti questi racconti di Pucci, tra l’altro tratti da diverse pubblicazioni della Quodlibet (2008), e quello stile colloquiale, semplicissimo, a tratti volutamente ai limiti della corretta grammatica e sintassi, è bello e ti porta a correre, sulle righe.
Non ti lascia un gusto di dolcezza, questo no, ma quale bel libro te lo lascia, senza lasciarti la gnagnosità? E qui, di gnagnosità, non v’è traccia. Bravo il celati, che tra l’altro è bello vivo e vegeto e produttivo, mi sembra.