"La paga del sabato" di Beppe Fenoglio****

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"La paga del sabato" di Beppe Fenoglio****

Era estate.
Ero a Bibione.
La donna deve andare il bagno. Accompagnami.
Colcazzo, dico. Sto bene qui.
Dai su gni gni gni gna gna gna.
Poi mi sono ricordato di una cosa. A Bibione, almeno quello dove vado io da quando non vado più a Lignano, che è più o meno Culonia, hanno una cosa bella fuori dall’ufficio spiaggia. Un bookcrossing, o più che altro, hanno un posto dove se non hai niente da leggere puoi prendere dei libri che laggente ha buttato riposto per le letture altrui.
Ti accompagno, allora ho detto.
Pur sapendo che in quegli scaffali A non avrei trovato che vecchie schifezze succhiate dai topi o dall’umido B avessi trovato anche cose leggibili non posso prendere altri libri da leggere perché troppi ne ho già e mai non leggo.

E invece, mentre donna stava al bagno, vedo scritto Fenoglio. E io Fenoglio l’ho adorato con Una questione privata, e mi sono messo a leggere queste prime righe di romanzo eh non so, già mi stava piacendo. E allora me lo sono portato via. Ed è finito nel mio scaffale dei libri da leggere, assieme alle altre centinaia. E poi l’ho letto. E niente… mi è piaciuto.

Ma prima bisogna dire delle cose, su questo libro.
Delle cose che sono scritte in una bella postfazione, piena di note curiose.
Gli scrittori, nel Novecento, si scrivevano e si leggevano. E si davano consigli.
Qui si riporta che il romanzo “La paga del sabato” era stato terminato già nel novembre 1950, come si capisce dalle lettere a Calvino, a cui è piaciuto. Ma non è piaciuto troppo a Vittorini, che lo invita a ridurlo, farne un racconto. E c’è tutto un carteggio tra i tre, Fenoglio e Calvino, Fenoglio e Vittorini.
Dura un paio d’anni, fino all’uscita della raccolta di Fenoglio I ventitré giorni di Alba.
Lì ci sono due racconti tratti da questo romanzo.
Uno dai primi tre, Ettore va al lavoro.
Uno dal capitolo sesto o settimo.
Ecco perché il libro non viene pubblicato.
Troverà la sua pubblicazione postumo, mi pare. Nel 1969, nella sua forma complessiva.
Tra le cose curiose, del carteggio riportato, c’è persino che Fenoglio non aveva più nemmeno una copia del libro e deve farsi rimandare la copia da Vittorini, per riscrivere.
Insomma… è un libro che non è nato e cresciuto come un albero dritto e senza rami, ma pieno di deviazioni, di nodi, di curve… anche se poi, secondo me, si è arrivati a un bellissimo albero.
Anche se, a dirla tutta, un po’ alla fine, potrebbe essere che la coesione generale del lavoro ne risenta, di tutto questo lavorarci addosso, per anni, a togliere strappare via e ricucire.

Ma io ora vi saluto.
Volevo solo cominciare un post, perché mi piace ancora parlare di libri.
Ma mi piace anche andare a bere birra.
E quindi, la finiamo domani o dopodomani, questa chiacchierata.

Ecco, siamo domani, e ho solo venti minuti prima di andare al lavoro fino a stasera. E li userò per finire di parlare di questo libro. Anzi… di cominciare.
Di che parla. Fenoglio… lo sapete, è prima partigiano e poi scrittore – sia per tempi, sia per essenza – e quindi sì, anche qui si parla di partigiani, ma non nel senso che credete. Ettore, partigiano giovanissimo, si trova a fine guerra a essere in cerca di un lavoro, ma di fatto, a non voler lavorare. Se ne sta a casa a fumare e a odiare i suoi genitori, a andare nei campi con la fidanzata Vanda e a passare il tempo in osteria, a odiare il mondo che non era più quello della guerra, con l’adrenalina che gli aveva lasciato e un senso di libertà, di scelta, di incapacità di rientrare nei ranghi del tempo di pace.
Il disagio, in Ettore, sembra molto mescolato a un personaggio che per metà ha da gestire un trauma, ma per metà ha pienamente le sue colpe. Il non volere entrare in un modo di lavorare quadrato e ordinario è giustificabile fino a un certo punto. L’atto di ribellione del non entrare in fabbrica quando il padre, alla fine, gli ha trovato un posto da quadro (e non da operaio) sa tanto di capriccio.
Ettore è comunque un personaggio agrodolce, perché alla fine la strada che prende è delle peggiori.
Ed è la strada che prendono gli ex-partigiano che sono delinquenti.

Bianco. Bianco fa dei lavori, gestisce un barbordello, fa la bella vita, è strapieno di soldi, me come se li guadagni… beh, non si sa. Anzi, si sa. Estorsione, furti, traffico di roba, minacce… tanto le pistole avanzate dalla guerra mica le anno buttate… E così Ettore, che è sveglio e se c’è da fare una cosa la sa fare, finisce lì dentro, in quei compagni di merende.
E oltre a questi tre, Ettore, Vanda e Bianco, c’è un contorno di personaggi che secondo me è davvero bello. Un piccolo universo deliziosamente descritto, di pianeti con la loro orbita, che vediamo magari solo per un capitolo, ma che sono particolari e descritti, secondo me, con tantissime sfumature. La madre di Ettore, e suo padre, tanto per cominciare, che vengono a segnare una frattura generazionale che la guerra e gli anni ’50 hanno ampliato ancora di più. E la famiglia di Vanda, poi, con quella scena memorabile che è il pranzo e quella altrettanto memorabile della scazzottata. E soprattutto il coprotagonista che alla fine deciderà la storia di tutti, Palmo, uno non molto sveglio, ma che a fare il delinquenti non lesina cattiverie.

Ci sono, in questi tre personaggi, ex partigiani, Ettore, Bianco e Palmo, tre modi di cogliere la guerra e soprattutto il dopo guerra. Molto poco sappiamo di loro durante il conflitto, ma abbastanza veniamo a sapere del loro modo di essere. E nessuno dei tre, alla fine, vi starà simpatico.
Solo Ettore, che ha del buono, dentro, e lo si vede a sprazzi, ecco, solo lui sembra intraprendere un percorso di riabilitazione, cerca e trova una strada per uscirne, assieme a Vanda.
Se ce la farà, non ve lo dico, ma sappiate che c’è una tragicità di fondo in tutta la vicenda, e il finale arriva inatteso, a completarne il senso.
Ma i venti minuti sono passati, bevo il caffè e lo finisco stasera, questo post, e non v’arrabbiate. 🙂

E invece no, ce la faccio a finirla adesso, questa recinzione.
E infatti, intanto, vi lascio questo link che ho trovato, dove se vi interessa potete leggere le prime righe (pagine) del libro, che mi avevano convinto così tanto. Io non ho voglia di scannare.

Ma vi posso salutare dicendovi altre cose.
Si parla, cita, tira in ballo, il neorealismo, per questo libro (c’è anche una trasposizione filmica del 75 se vi interessa) ed è innegabile che un senso di vita in bianco e nero, di provincia povera, di destrutturazione dei sentimenti, beh, sì, c’è. Ma io non la vedrei come opera da neorealismo. C’è una struttura del romanzo, e della storia, che cresce ed è forte, monta un senso di angoscia, andando avanti nella lettura, che è quella di vedere Ettore infilarsi in un buco sempre più profondo, cercando ciò che più gli sta a cuore, ovvero la libertà, quel brivido di scegliersi la vita, che nella provincia delle Langhe, misera e miserevole, come si vede ottimamente dalla malora, dicevo, in quella provincia passa necessariamente per i soldi.
Okay, dai, leggetelo questo libro, se volete leggere autori italiani del Novecento che non siano i soliti nomi. Poi, tra l’altro, è corto, una novella quasi, e si sta decisamente poco.
E io vi saluto con qualcos’altro… così tanto per.
Vediamo…
Ah, è uscito il nuovo Edda, finalmente. Non so… devo ascoltarlo meglio, ma le solite canzoni non mi dispiacciono, tipo Picchiami.
Ma voglio salutarvi con immagini. Tipo questi quadri surreali di Rob Gonzales… niente di che, ma le illusioni ottiche hanno sempre il loro perché.

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