“Kebar Krossè” di Stiefin Morat****
Questo è un libro che voi non potete, probabilmente, leggere, ma ugualmente io ve ne voglio parlare qui, perché è uno di quei libri che vuoi che si sappia che esistano, anche se uno non può leggerli.
Il discorso del non poter leggerli, riguarda la lingua usata, il friulano, o meglio, i friulani, perché ne usa tre, e il fatto che anche io, all’inizio, ho faticato un po’ a leggerlo subito… solo un po’, perché poi, grande, grande soddisfazione.
E quindi, anche se so di star facendo una cosa pressoché inutile, io la faccio. Di che parla questo piccolo romanzo distopico di una 140ina di pagine? Che cos’è il Krossè a cui si riferisce il titolo? E cosa sono i kebar, di cui si nutre l’interà società rimasta?
Ecco… non ve lo dico, ma non sono cose belle, come potete immaginare. Un lieto fine non ve lo dovete aspettare, ma come in tutte le distopie che si rispettino, Morat non è così cattivo da non lasciarci nemmeno una speranza.
Montag, è il nostro protagonista. Udine la città in cui vive. Lui cittadino, una casta di mezzo, non ai livelli di quelli che stan sopra, ma nemmeno disprezzabile come quelli che stanno all’esterno, in periferia, nella Cengle, operai senz’anima che mandano avanti la produzione della chimica che sostiene e placa il vivere di tutti. I papots, traducibile come i papocchi, che sono da droghe a cibo, e di cui tutti si nutrono. E Udine? com’è?
Una clessidra, muri che si sgretolano e diventano polvere. Intorno deserto, anzi, il nulla. E i treni. Misteriosissimi treni che vanno, non si sa dove e da dove. E una società di caste, gente che per lavoro spacca ossa, invece di aggiustarle, gente che non si chiede nulla. Acqua e aria limpide solo un ricordo. Il futuro un qualcosa che – nonostante tutto – pare quello di adesso.
Lingua che cambia, è cambiata. La curiosità, la voglia di. Finite… morte. E nessuno che senta il bisogno che siano vive ancora, soprattutto.
Montag che non solo viene da fahrenheit, ma che vive le sue avventure di lunedì, nei drogati lunedì sera. Montag che è l’ingranaggio che comincia a girare male, in questa macchina di nichilismo e spersonalizzazione che è la Udine del futuro.
E i libri? E l’economia? E la musica? E i rapporti umani? Cos’è diventato tutto questo? Ci sono le risposte. E c’è una risposta linguistica. I friulano standard è diventato lingua dei fighetti, dei boriosi che dominano. Una variante è quella dei normali, mentre i proletari delle periferie, ecco… si sono inventati una lingua nuova. Mescolata e sporca. C’è l’Africa, in questo libro, come lingua e come sentire ancora non contaminato. Montag e Mamì Manamà, un’unione fuori schema, che si sa… non porta a nulla di buono.
Ecco… basta, direi. Se poteste leggerlo, in friulano, questo romanzo post apocalittico, leggetelo. Se trovate qualcuno che ve lo legge… sfruttatelo. Fa pensare, e si soffre, e ci sbatte in faccia il nostro nulla. Certo… poi forse, come piccolo difettuccio, l’uso massivo del verbo “impirâ” inforcare, e la “solita” fine che ha fatto la natura, l’ambiente, inteso manicheamente come cosa buona e perfetta, chiaramente distrutta dall’uomo.
E io vi voglio salutare con un esempio di quel terzo friulano, quello dei sobborghi, però non quello sporco e neonato, ma la lingua nuova che ancora si capisce. E’ Mamì che parla, e in queste righe c’è tutto il significato del libro e non solo di quello. Ma non ve le traduco.
“Dulà che si croi che a sedi il nuia, al eis un sbisiâ di robis, ma bisugna tignî voia di cjalalis e no si viôt ator zent che a tignedi chista voia. No la tegnin chei che a stan ta la citât e no la tegnin chei che a stan ta la cengla. A eis la voia, che no si len pi! Chel albar al è fi di una voia che cualchidun nol riva a meti in banda. Par no murî ta chistu consumâsi lent di mùrs e di musis, di domandis no fatis.A son puoscj dulà che il polvar nol disfa, ma al fa’ sù. Noi eis facil, parcè che si a di tignâ voia di rivâ, ma al eis ulì che i ai cjatât chel albar. E al eis ulì che i provàn a viodi se a son altris trois four di chei che a portin tai slabilimints o ta la pica da la citât. Jo no sai se al eis cualchicjossa, se cualchicjossa al esist di cussi biel di ve la fuarça di fermâ un vuli, di glacâ una paravala, di rompi un pas. Cualchicjossa che al sedi pi fuart di una injustizia, parcè che encja l’injust nol ten pi la fuarça di fermâ un pas, una paravala, un vuli. Cualchicjossa di cussi biel di rompi e di ingrumâ, di fa jev i cjâfs e racuei, di tirâ dongja, di da acet a una musa o a una domanda.”
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