
“La malora” di Beppe Fenoglio***(*)
Oggi non è una gran giornata.
Non lo sarà nemmeno domani.
Allora faccio questa cosa, prima di andare nell’altra casa a pigliarmi una birra. O forse due.
Non esco nemmeno.
Questa cosa sarebbe liquidare questo libro che ho qui di fianco da sei mesi. Credo fosse tipo giugno o luglio.
Credo fosse Bibione.
A me, un tempo, piaceva il mare. Mi piaceva perché lì non dovevo parlare con nessuno. Ora purtroppo non è così. Non credo lo sarà mai più.
Comunque, altra cosa fastidiosa, che detesto, è muovermi inutilmente, al mare. Quindi, alla frase “mi accompagni in bagno” ecco che si mossero tutte insieme le imprecazioni che conosco per temporaleggiare burrascosamente nella mia anima. Poi, okay, va bene, dissi.
Perché? Dissi va bene perché a Bibione Pineta ci sono i libri, lì dei bagni. Una sorta di bookcrossing atipico, con sopra un po’ di tutto. E c’era questo racconto, anzi, romanzo breve, di Beppe Fenoglio.
Ecco… io ho letto Una questione privata, ai tempi di quando leggevo i classici, e l’ho trovato bellissimo. E anche i suoi altri racconti, mi sono piaciuti. Lo so… lo so… ci sarebbe Partigiano Johnny, ma sarà nella prossima vita, ormai.
Anyway, mentre aspetta fuori dal bagno e non essendoci fighe da guardare, ecco che adocchio questo libro, proprio come quello lì dell’immagine. Na roba del 1954, anno di pubblicazione della Einaudi, con una considerazione di Elio Vittorini, nel risvolto, che non è proprio di quelle che ti aspetteresti. Nel senso che mette in guardia il lettore sugli scrittore che escono dalle cose che conoscono (la guerra, in questo caso), dicendo che devono stare attenti. Quasi una critica, insomma.
Ecco… io penso che Fenoglio ci esce benissimo, qui, da quel seminato.
“La malora” è un racconto tragico, di mancato e impossibile riscatto, e per chi ha letto Pavese, il Pavese della Luna e dei falò, ecco, qui penserete di essere proprio lì. Sembra uno spin-off di quel libro. Alba, il Bembo, i mezzadri, il lavoro, la miseria, la miseria e ancora la miseria… anzi, la malora. Braida, il protagonista, è lui a raccontarci.
Ci racconta di come tutti i rapporti umani, le ingiustizie, o le gioie, quelle poche, siano travolte dalla miseria, dal lavorare per sopravvivere, dal essere abituati a subire, subire sempre e vivere in una condizione di perenne precarietà. Parte da quando torna a casa per la morte del padre, e subito dopo deve andare a lavorare da Tobia, mezzadro, a spaccarsi la schiena.
Suo fratello deve prendere gli studi ecclesiastici, e morire di fame in seminario, ed è cosa da spezzare il cuore a vedere come si riduce. E spezza il cuore anche sentire la sofferenza.
E’ il lavoro, a dominare, è l’avidità e ogni azione è guidata dalla necessità.
Per farla breve, insomma, non è un libro che fa gioia, ma è un libro comunque bello, anche molto, per quel modo di raccontare che ha Fenoglio, che sapientemente rende bene la prima persona del protagonista, ebbra di termini dialettali e di modi di vedere le cose a volte anche troppo “arguti” per uno della sua levatura. Comunque, io vi voglio lasciare l’incipit, che così capite di che parlo.
Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.
Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra glie-l’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa.
Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia.Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo, sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me. Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino.
Ecco… è proprio quest’ultima espressione il tema della novella. Il fatto che per quanto uno provi, a sfuggire al giogo della miseria, non ne ha le forze, né la cattiveria. E’ un vortice, la malora, che ti tira sotto quanto un maelstrom, e come armi, usa pure la sfortuna e il senso di colpa.
E allora come la chiudo… be’, vi dico che è un buon libro da leggere per farsi un’idea della grama vita contadina tra mezzadri serventi e rapporti dell’agricoltura della pianura del nord del secondo dopoguerra. Poi certo… non ha, questo, il pathos che aveva Una questione privata, ma non per questo non ti lascia emotivamente provato, dopo la lettura.
E adesso niente, io provo a sistemare qualche vecchio raccontino, ascolto un po’ di Radiohead e vado a prendermi due birre, anche se fa fredderrimo, e boh… sono un po’ stufo del mondo, mentre il mondo non si stufa mai di me.