"Jelly bean – La parte posteriore del cammello" di F. Scott Fitzgerald****

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"Jelly bean – La parte posteriore del cammello" di F. Scott Fitzgerald****

Belli! No, davvero… già il Grande Gatsby molto mi piacque, ma era un libro tragico, dove sì, a tratti c’è un po’ di ironia, sì, ma non c’è mai una vera e propria apertura allo spasso, tanto che credi che non sia possibile, per uno scrittore con un senso del dramma annunciato così forte, esserne capace. (anche se questi due racconti, non belli come questi qua, ma belli, dovevano mettermi in guardia)
E invece questi due racconti, Jelly Bean, ma soprattutto il più lungo “La parte posteriore del cammello” sono davvero due storie spassose, che mescolano al dramma ironia e un aperto dileggio a quei ricchi viziati americani spesso schiavi o succubi di convenzioni o modi di vivere.
Di che parlano?
Allora, il primo è un buon modo per capire che cos’è, un jelly bean, che non è solo una caramella di gelatina, ma anche un modo per definire un “michelaç” in friulano, o insomma, uno che non ha voglia di fare un cats, a parte, forse, essere bravo in qualche cosa che gli permetta di vivere senza fare un cats. 
E’ il caso del nostro caro Jim Powell, bravo ai dadi, e secondo me non c’è modo migliore di farvi capire com’è fatto il racconto e com’è lo stile di Fitzgerald in questo tipo di storie,che farvi leggere l’incipit del brano. Scrive incipit perfetti, Fitzgerald, sapevatelo!


Jim Powell era un “Jelly-bean”. Per quanto desideri farne un personaggio affascinante, sento che sarebbe disonesto illudervi su questo punto. Era nato Jelly-bean e sarebbe morto Jelly-bean, lo era al novantanove e tre quarti per cento ed era pigramente cresciuto per tutta la stagione dei fannulloni, che poi è ogni stagione, giù nella terra dei fannulloni molto sotto la linea Mason-Dixie.
Ora, se date del Jelly-bean a uno di Memphis probabilmente tirerà fuori una bella corda robusta dalla tasca per impiccarvi al palo del telegrafo più vicino. Se date del Jelly-bean a uno di New Orleans probabilmente farà un ghigno e vi chiederà chi porta tua sorella al ballo del Mardi Gras. Il particolare appezzamento di terra che ha prodotto il protagonista di questa storia si trova tra quelle due città – una piccola cittadina di quarantamila abitanti che sonnecchia da quarantamila anni nella Georgia del Sud e che ogni tanto si stiracchia e borbotta qualcosa su una guerra che è avvenuta un tempo, da qualche parte, e che tutti gli altri hanno dimenticato da un bel po’.
Jim era un Jelly-bean. Lo riscrivo perché suona bene – proprio come l’inizio di una fiaba – come se Jim fosse simpatico.

Dicevo… perfetti proprio perché ti sparano dentro la storia e lo fanno con quel sapere di colloquiale, di storia raccontata da un vecchio amico, che ti metti tranquillo lì, ad ascoltarla. Ne hai proprio voglia. E anche il secondo pezzo ha un incipit che funziona, dove il taglio “Vecchio Amico che ti racconta una storia” è ancora più marcato. Ma prima io vi faccio leggere ciò che precede il racconto, ovvero due righe dello stesso Francis che spiegano come perchè e quando ha scritto il brano. Eccovele:
Credo che tra tutti i racconti che ho scritto questo sia quello che mi è costato meno fatica e mi abbia divertito di più. L’ho scrìtto in un giorno a New Orleans, con il preciso scopo di comprarmi un orologio da polso in platino e diamanti che costava seicento dollari. L’ho cominciato alle sette di mattina e l’ho finito alle due di notte. È stato pubblicato sul «Saturday Evening Post» nel 1920, ed è stato poi incluso nel O. Henry Memoria! Collection nello stesso anno. E quello che mi piace di meno in questo volume.

Il divertimento che ho provato nello scriverlo deriva dal fatto che la parte del racconto sul cammello è letteralmente vera; infatti, ho preso un impegno formale col signore in questione di partecipare alla prossima festa in costume dove tutti e due siamo stati invitati, travestito da parte posteriore del cammello. .. questo per farmi perdonare in qualche modo di essere stato il suo storico.

Figo, vero? Che poi, è così credibile che anche se non fosse vero, questa intro è un racconto a sè. E anche l’intro del primo era bella eh. Anyway, vi lascio dell’incipit e vi dico che dei due questo racconto era a dir poco elisarante. Non ne esce bene nessuno, se non, forse, proprio la parte posteriore del cammello, che poi è un tassista che ci è stato ficcato dentro. Un poraccio, tra l’altro, obbligato e poi perculato ma alla fine chiave di volta della soluzione di una situazione al limite del non-sense, in cui non ne esce bene in pratica nessuno.
E inizia così:
L’occhio spento del lettore stanco, soffermandosi per un secondo sul titolo del racconto, presupporrà che sia puramente metaforico. Racconti di coppa e labbra, monete false e scope nuove, di rado hanno qualcosa a che fare con coppe, labbra, monete e scope. Questo racconto è un’eccezione. Ha a che fare con un tangibile, visibile ed enorme posteriore di un cammello.
Partendo dal collo ci apriremo la via verso la coda. Voglio presentarvi il signor Perry Parkhurst, ventotto anni, avvocato, nativo di Toledo. Perry ha dei bei denti, una laurea a Harvard, porta i capelli con la riga in mezzo. L’avete già incontrato – a Cleveland, Portland, St Paul, Indianapolis, Kansas City e via dicendo. La Baker Brothers di New York fa una sosta durante il viaggio semestrale verso ovest per vestirlo; la Mont-morency & Co. invia in tutta fretta un giovanotto ogni tre mesi per controllare che abbia il giusto numero di disegni punteggiati sulle scarpe. Possiede una spider americana adesso, se vivrà abbastanza ne avrà una francese, e senza dubbio un carro armato cinese se diventerà di moda. Assomiglia alla pubblicità del giovanotto che si spalma di crema il torace e va a est tutti gli anni per incontrare gli ex compagni di corso.
Voglio presentarvi il suo Amore. Si chiama Betty Medill, e non sarebbe affatto male come attrice. 
E io direi basta così, che qua è domenica e io ho da fare altro, ma volevo che il blog non morisse e poi questi due racconti d’autore erano carini, e magari vi viene voglia di leggerli, che credo siano racconti contenuti nel celebre, credo, I racconti dell’età del jazz. E se son tutti  come questi quattro, allora farei bene a leggerli.

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