“La solita zuppa e altre storie” di Luciano Bianciardi****
Tutti gli anni ai primi di novembre incontro la signora Argia vedova Fineschi, per la strada della Misericordia, il camposan-to vecchio. Mi ferma, mi abbraccia, e ogni volta mi chiede: “Dove vai, a trovare il tuo povero nonno, eh?” E resta lì, come sopra pensiero. “Te lo ricordi, vero?” continua poi. “Bell’uomo, il tuo povero nonno. Era un po’ piccoletto, questo sì, ma sempre un bell’uomo. Te lo ricordi, tu, il Chelli?” Io non le rispondo, come dovrei, che il povero nonno non me lo ricordo affatto: morì nel quattordici, e non ero ancora nato. Ma non importa, tanto so che la signora Argia parla come fra sé, e non pretende una risposta. Rimango lì in piedi, a fare di sì col capo, guardo i banchetti coi crisantemi e coi lumini di cera, rileggo la lapide scolpita vicino al cancello del camposanto: tutto è vanità tranne il sepolcro.
Poi ogni volta lei ricomincia: “Vai anche a trovare il tuo povero babbo, vero? Era un bel giovanotto, lo sai, il tuo (io-vero babbo. Te lo ricordi? Lui sì che era alto. Come statura tu hai preso da lui, ma gli occhi e il naso sono del povero nonno tuo, del Chelli, poverino. Tu sapessi il bene chi1 mi voleva.”Da quando la conosco, cioè da sempre, la vedova Fineschi, signora Argia, non s’è mai scordata di rammentarmi il bene che le voleva il povero Chelli morto nel quattordici, mio nonno.
Il secondo racconto è “Alle quattro in piazza duomo” e inizia così
Le feste ormai sono finite da un pezzo, ci siamo voluti bene fin troppo, ora basta, e infatti piazza del Duomo, che non rivedevo da allora, ha smesso il vestito buono, non c’è più addobbo né presepe mobile, e il campanile di tubi di ferro, con la musica artificiale di campane, è dimezzato, non sembra più per nulla un campanile e forse domani non ci sarà più niente. A mezzogiorno la piazza è quasi morta, ci comandano i piccioni che frullano via in branco di qua e di là dietro una manciata di granturco che buttano i fotografi a richiamo dei pochi stranieri. Gli spalatori della neve sono via a mangiare, e hanno lasciato allineate le carriole di ferro vicino ai monta-rozzi allineati della neve già sporca di fuliggine. Poca gente ai semafori, col fiato che fa vapore, tutti intirizziti nell’aria che è luminosa, ma diaccia.
Per Anna venire in centro insieme è sempre un po’ una festa, e allora batte i piedi negli stivaletti a mezza gamba e chiacchiera a ruota libera, senza aspettare risposte: “Mamma che freddo. Senti, ma gli operai ‘ndo’ stanno? Tu ci hai freddo ai piedi? Già che c’è tempo perché non ti compri un paio di scarpe alte anche tu? Ma pigliatele belle comode, magari un numero più alto, perché poi non voglio sentire lagne, che ti I.nino male le scarpe. Quand’è che te lo compri un bel paio di scarpe comode, eh? E quelle che hai ai piedi parola d’onore te le butto via, sono tutte rotte, ci entra il freddo si capisce.”All’angolo della Galleria sono fermi due della Celere, col cappottone e il moschetto novantuno a bracc’arm, ma rivoltato, col calcio in alto. Hanno freddo anche loro. “Vedi quelli”, dice Anna e li guarda male. “E questi operai ‘ndo’ stanno? Che diceva il Ferretti, verso mezzogiorno o no?”
Immagino che pochi di voi siano mai stati a Pitigliano, ed è un vero peccato, perché Pitigliano è un posto bellissimo, sulla strada che dall’Albegna, stretta e tortuosa, sale verso il centro della bassa Toscana e sfocia in Umbria. Il paese compare all’improvviso, sospeso a picco sopra uno strapiombo di roccia d’un rosso ferrigno, colore al quale par che non sia estranea l’assenza di fognatura in paese e l’abitudine di rovesciare dalla finestra i vasi da notte. Ma questo non conta, Pitigliano resta un paese bellissimo, e io ci sono nato quarantacinque anni or sono. Mi chiamo Montefiori, e la mia famiglia è pi-tiglianese pura da almeno cinque generazioni. Anzi, tempo addietro andai al tempio, e il buon hazan Servi mi fece dare un’occhiata ai registri della comunità, purtroppo ormai sfaldata perché molti si son trasferiti altrove, a Grosseto, a Orbe-tello, a Firenze, addirittura in America, e mi è parso di aver capito che i miei avi lontani vennero qui, ai tempi dei tempi, dalla campagna attorno a Cracovia, una campagna mezzo polacca, mezzo tedesca, di lingua prevalentemente yiddish, dove facevano i poveri bottegai, e si chiamavano Blumberg, che è poi il mio nome, tradotto in buona lingua italiana.