“La solita zuppa e altre storie” di Luciano Bianciardi****

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“La solita zuppa e altre storie” di Luciano Bianciardi****

Avevo aperto questo post tipo un mese fa. 
Poi non ho mai scritto nulla, ci sono state le ferie non ferie, lo stress, i propositi camionistici, un nuovo lavoro e primo, i pokémon, e altre cose che non ricordo.
Soprattutto cose che non ho fatto.
Adesso, oggi, c’è Friuli doc, e pomeriggio lavoro, ma la mattina no, la mattina ho un paio d’ore, che sono quelle di adesso. e adesso scrivo due righe qui, anche se dovrei fare altro. 
Sono tutte giornate piene di cose che non sto facendo, queste, e non è un bene, ma così è.
Comunque sia, di questi racconti, letti oramai a luglio, non so nemmeno perché, visto che sto continuando a comprare la collana dei Racconti d’autore, e c’è pieno di roba interessante da leggere, ma io leggo quasi niente, dicevo, di questi racconti, ricordo bene che erano belli. Tutti. 
Io di Bianciardi non ho letto il libro che dovrei e tutti dovrebbero aver letto, ma ho letto un libro curato da suo figlio, che tra l’altro, è raccontato, in via indiretta, dentro questi quattro racconti. 
Il libro curato del figlio era quello pieno di ebreitudine, Sholem Aleichem o come diavolo si scriveva, e mi piacque. Lo comprai a una presentazione in cui andai con Frank, che non mi cagò per nulla perché c’erano le sue figlie e ex moglie e io ero contentissimo che non mi cagasse (odio la gente, lo sapete) che così potevo stare in disparte as usual. Ma ora Frank non c’è più e Bianciardi, entrambi i, me lo ricordano e quindi anche adesso mi prende la malinconia.
Il suo non esserci mi manca quanto il suo esserci. Era una persona di quelle con cui si dovrebbe riempire il mondo, Frank, e invece il mondo si va riempiendo di razzisti analfabeti ineducati astiosi invidiosi intolleranti e stupidi… spesso tutte qualità contenute in contemporanea.
Ma vabbè. Torniamo ai racconti. 
Anzi, per farvi capire di cosa parliamo comincio con la prima pagina del primo racconto, “La vedova fineschi”, e ve la faccio leggere. Leggetela
Tutti gli anni ai primi di novembre incontro la signora Argia vedova Fineschi, per la strada della Misericordia, il camposan-to vecchio. Mi ferma, mi abbraccia, e ogni volta mi chiede: “Dove vai, a trovare il tuo povero nonno, eh?” E resta lì, come sopra pensiero. “Te lo ricordi, vero?” continua poi. “Bell’uomo, il tuo povero nonno. Era un po’ piccoletto, questo sì, ma sempre un bell’uomo. Te lo ricordi, tu, il Chelli?” Io non le rispondo, come dovrei, che il povero nonno non me lo ricordo affatto: morì nel quattordici, e non ero ancora nato. Ma non importa, tanto so che la signora Argia parla come fra sé, e non pretende una risposta. Rimango lì in piedi, a fare di sì col capo, guardo i banchetti coi crisantemi e coi lumini di cera, rileggo la lapide scolpita vicino al cancello del camposanto: tutto è vanità tranne il sepolcro.

Poi ogni volta lei ricomincia: “Vai anche a trovare il tuo povero babbo, vero? Era un bel giovanotto, lo sai, il tuo (io-vero babbo. Te lo ricordi? Lui sì che era alto. Come statura tu hai preso da lui, ma gli occhi e il naso sono del povero nonno tuo, del Chelli, poverino. Tu sapessi il bene chi1 mi voleva.”
Da quando la conosco, cioè da sempre, la vedova Fineschi, signora Argia, non s’è mai scordata di rammentarmi il bene che le voleva il povero Chelli morto nel quattordici, mio nonno.

Avete letto? Ecco… è un re dello stile colloquiale, del parlato, dell’accattivante bellezza della provincialità. Provincia, sì, quella bella, quella delle cose vere, delle piccole manie bugie invidie gentilezze e della purità di spirito. Che non è bello lo spirito umano, eh, intendiamoci, ma quando è semplice, quando non c’è cattiveria, non è nemmeno brutto.
E te lo fa vedere tutto con questo primo racconto, Bianciardi, dove ci racconta una storia di famiglia, di una zia che non è zia ma è come se lo fosse. Mi ha ricordato che pure io chiamo zia una che non lo era, da piccolo, e mi teneva soltanto mentre i miei erano al lavoro. Bruna, nome da racconto bianciardiano, come questa Argia. Ma andiamo avanti dai.

Il secondo racconto è “Alle quattro in piazza duomo” e inizia così

Le feste ormai sono finite da un pezzo, ci siamo voluti bene fin troppo, ora basta, e infatti piazza del Duomo, che non rivedevo da allora, ha smesso il vestito buono, non c’è più addobbo né presepe mobile, e il campanile di tubi di ferro, con la musica artificiale di campane, è dimezzato, non sembra più per nulla un campanile e forse domani non ci sarà più niente. A mezzogiorno la piazza è quasi morta, ci comandano i piccioni che frullano via in branco di qua e di là dietro una manciata di granturco che buttano i fotografi a richiamo dei pochi stranieri. Gli spalatori della neve sono via a mangiare, e hanno lasciato allineate le carriole di ferro vicino ai monta-rozzi allineati della neve già sporca di fuliggine. Poca gente ai semafori, col fiato che fa vapore, tutti intirizziti nell’aria che è luminosa, ma diaccia.

Per Anna venire in centro insieme è sempre un po’ una festa, e allora batte i piedi negli stivaletti a mezza gamba e chiacchiera a ruota libera, senza aspettare risposte: “Mamma che freddo. Senti, ma gli operai ‘ndo’ stanno? Tu ci hai freddo ai piedi? Già che c’è tempo perché non ti compri un paio di scarpe alte anche tu? Ma pigliatele belle comode, magari un numero più alto, perché poi non voglio sentire lagne, che ti I.nino male le scarpe. Quand’è che te lo compri un bel paio di scarpe comode, eh? E quelle che hai ai piedi parola d’onore te le butto via, sono tutte rotte, ci entra il freddo si capisce.”
All’angolo della Galleria sono fermi due della Celere, col cappottone e il moschetto novantuno a bracc’arm, ma rivoltato, col calcio in alto. Hanno freddo anche loro. “Vedi quelli”, dice Anna e li guarda male. “E questi operai ‘ndo’ stanno? Che diceva il Ferretti, verso mezzogiorno o no?”

E qua c’è un’altra cosa che esce. Milano. Milano che è la città. E c’è la provincia toscana dell’autore che oramai è scrittore conosciuto ed entra nelle logiche, nei movimenti, nell’effervescente vita della Milano operaia, città di ideali e idee. Ecco… è bello leggere storie personali che ti mostrano un po’ cosa succedeva all’autore una volta, quando le rivoluzioni non si facevano con l’indignazione e i comizi non si facevano con i condividi e i mi piace. Ti viene molta voglia di leggerlo, La vita agra, leggendo racconti come questo. E si vede anche che Luciano, forse, un po’ snob dentro lo era, da buon artista, che sì, racconta la fabbrica ma con un distacco parziale. Poi non so, quando lo leggerò meglio dirò ma per ora la sensazione data è questa.
Poi?
Poi niente, ieri riascoltavo il disco dei REM del 92, automatic for the people, e all’epoca sì, si ascoltava, ci piaceva, ma non avevo gli strumenti per capire che razza di disco fosse questo. Ecco, oggi che non è che ce li ho, ma son passati 25 e passa anni di musica ascoltata per 2-3 ore medie al giorno, ecco, posso dire che questo disco è una sorta di meraviglia. E magari riascoltatelo anche voi, col senno di poi, e scoprite se è vero.
Ma ho divagato, e stavo parlando dei racconti. Il terzo è ancora familiare, carino ma inferiore agli altri, e il quarto invece è molto bello, perché si mantiene il tono colloquiale, ma lo si mette a servizio di una storia semifantastica, molto particolare, e sghemba, direi, e io vi lascio l’ultimo incipit e poi basta, che sennò vi vizio. Ma questo incipit è molto bello. Il racconto si chiama “Un occhio a Cracovia”

Immagino che pochi di voi siano mai stati a Pitigliano, ed è un vero peccato, perché Pitigliano è un posto bellissimo, sulla strada che dall’Albegna, stretta e tortuosa, sale verso il centro della bassa Toscana e sfocia in Umbria. Il paese compare all’improvviso, sospeso a picco sopra uno strapiombo di roccia d’un rosso ferrigno, colore al quale par che non sia estranea l’assenza di fognatura in paese e l’abitudine di rovesciare dalla finestra i vasi da notte. Ma questo non conta, Pitigliano resta un paese bellissimo, e io ci sono nato quarantacinque anni or sono. Mi chiamo Montefiori, e la mia famiglia è pi-tiglianese pura da almeno cinque generazioni. Anzi, tempo addietro andai al tempio, e il buon hazan Servi mi fece dare un’occhiata ai registri della comunità, purtroppo ormai sfaldata perché molti si son trasferiti altrove, a Grosseto, a Orbe-tello, a Firenze, addirittura in America, e mi è parso di aver capito che i miei avi lontani vennero qui, ai tempi dei tempi, dalla campagna attorno a Cracovia, una campagna mezzo polacca, mezzo tedesca, di lingua prevalentemente yiddish, dove facevano i poveri bottegai, e si chiamavano Blumberg, che è poi il mio nome, tradotto in buona lingua italiana.

Vi viene voglia di andare a Pitigliano, vero? 
Poi dai, basta, uso quest’ora che mi resta per andare a portare la vecchia in cimitero, che è sempre tempo ben speso. L’ultimo racconto è “La solita zuppa” quello che dà il titolo al libretto. Parla di puttane, anzi, di cibo, che insomma, non sta bene mangiare certe cose. Racconto esilarante e divertentissimo, pieno di sarcasmo e ironia e un questa epoca di veganantiputtanazisti assolutamente attuale.
Recuperatevelo e divertitevi a leggerlo. E ciao!

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