“Va’ dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro****

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“Va’ dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro****

Devo fare millantaedodiciassette cose, ma voglio aggiornare anche il blog e mettere via questo libro nella piccola biblioteca scolastica che mi porto dietro nelle mie aule di Economia aziendale.
Perché Va’ dove ti porta il cuore è un libro PSF, questo, ma credo che sia anche un libro PEM, anche se poi in quella classifica mi pare non esserci finito e nemmeno mai citato.
Ed è un libro corto, soprattutto, e così sono riuscito a leggerlo pure io, in quest’ultimo mesetto in cui ho ricominciato a leggere.
In realtà non era nei miei programmi ma è capitato che mi è saltata un’ora, che avevo un costume in auto, che ho deciso di passare direttamente dagli indici di bilancio a greto del tagliamento e non avevo nulla da leggere in auto e quindi.
E mi è piaciuto. Non dico molto, quello no, ma mi è piaciuto.
Perché parliamoci chiaro, un libro così, con quel titolo, quelle tematiche, quella fama, quella gloria ottenuta, è fortemente a rischio di gnagnoseria. Cos’è la gnagnoseria, non lo so bene, o meglio, lo so ma non lo saprei spiegare. Diciamo una torta che mescola buoni sentimenti, scontatezze, metafore, tenerezze, e qualche pizzico di qualunquismo. Insomma… le cose che se le elevi al cubo diventano fabiovolismo, per capirci.
E invece no, non è un libro gnagnoso, perché tutto quel buono e giusto c’è, nascosto tra le righe, ma resta appunto nascosto, e c’è sempre misura e delicatezza, nel porre le cose, e soprattutto, che reputo la qualità fondamentale del libro, questa lettera-diario da nonna a nipote è credibile.
Ma ora faccio qualcuna delle cose che devo.
Tipo scrivere a Gianfranco che mi deve tradurre un incipit, ecco. Facciamo.
Ecco, alla fine tanto che ho fatte che è cambiato il giorno. E siamo domenica.
E piovicchia. Ha rinfrescato, e ti vien proprio voglia di stare davanti al pc a fare cose.
E tipo finire questo post su questo famoso libro. Che poi uno dice,,, era famoso tanti anni fa, ha venduto tantissimo, ma adesso, ora, nel 2016, vale la pena leggerlo?
Sì. 
La risposta è sicuramente sì.
Vi dico cosa ha fatto venire in mente a me, per esempio.
Ma prima vi devo anche dire di cosa parla.
E’ un romanzo epistolare, che in una lunga, unica lettera, scritta dalla nonna alla nipote, racconta di una famiglia, una famiglia che resta, alla fine, così pare, con una sola superstite, una ragazza, giovane, ingrata, verrebbe da dire, durante la lettura, ma forse, col senno, solamente normale, coi difetti di tutti i giovani che tante cose non le sanno e non le vedono.
La nonna abita da sola, a Trieste, nella casa di famiglia, è a causa di un incidente stradale ha fatto alla nipote da mamma. Non ci sono uomini, qui, se non narrati nelle lunghe analessi che la nonna fa, scrivendo. E scrive, la nonna, grande lettrice, e persona colta, e misurata, scrive alla nipote per salutarla. Perché questa sbattendosene un po’ il cats della vecchia se n’è andata in USA, a fare un anno sputtanando soldi per imparare la lingua o per cercare il proprio posto nel mondo. Che non troverà, lo capisci già dalle righe e da come la conosce la nonna. Lo capisci che è una giovanotta un po’ sciocca, mutevole di umore e inclinazioni, anche se di buon cuore, in fondo.
Ecco. Mi ha fatto pensare a mia sorella da giovanotta, che era proprio così, con la logica del contro, dell’anti, senza però avere alle spalle alcun fondamento per i suoi contro, come tutti noi giovanotti, più o meno. Tutto merda ciò che non conosce nemmeno, tutti stronzi ma i favori si tengono, ecc. Che poi a volte non cambiamo tanto. Non va a trovare sua e mia mamma da anni e manco gli porta le nipoti mai, e non si rende conto che mia mamma non cammina quasi più e via di questo passo, ma alla fine ci si pensa sempre dopo che la gente muore, alle cose che si dovevano fare. Ti irriti, leggendo le parti di questo libro che raccontano di come si comporta la nipote. Inutile. Ci sono passaggi che riesci a pensare che si merita il peggio. E lo pensi pur senza pensare che l’io narrante, la nostra vecchietta che, colta da ictus, decide di continuare a stare da sola anche se con un braccio in meno, e soprattutto sapendo che creperà prima che la nipotella torni.
Ecco… torniamo alla domanda. Ha senso leggerlo, questo libro, come romanzo di formazione? Sì, dicevo, e non è un libro solo per donne, anche se l’impronta femminile è forte, fortissima.
Il titolo, però, che poi è la tesi di fondo del messaggio lasciato dalla lettera, è un po’ fuorviante, nel senso che non è una direzione, quella del cuore, che va ascritta all’emotività pura e semplice, all’istinto delle emozioni, bensì è un qualcosa che non esclude la ragione ma la integra, nelle scelte della vita. La integra alle ragioni del cuore.
Ed è un messaggio che non ha sesso, anche se qui, alla fine, la maternità avrà un ruolo di colonna portante, nelle storie. Ah già, perché ci sono storie, sì, e sono spesso tragiche. Storie di donne, di lei, della nonna, di sua figlia morta, e della nipote orfana. Ma storie anche dei suoi due uomini, due padri, due modi diversi di intendere la vita. Le storie emergono a poco a poco, ed è anche questo a togliere la gnagnoseria. Il fatto che ci sia una trama drammatica, delle cose che sono successe e che ci vengono svelate a poco a poco, aiuta moltissimo l’attenzione, in un romanzo che è comunque per buona parte psicologico ed emotivo.
Dai, ho detto quanto dovevo. Vi lascio un pezzo di libro. Un pezzo che secondo me portava a capire che differenza c’è tra il fare una buona similitudine e non scadere nella banalità, nel gioco di parole, e lasciar quindi il lettore a riflettere, piuttosto che limitarsi alla similitudine a effetto, con un’immagine che colpisce magari, o un accostamento che potrà anche essere originale, ma che poi non lascia nulla, nessuna scia di pensiero.
Vi lascia questo:
Durante il viaggio di ritorno dalla Grecia avevo preso l’abitudine di passare parte della mattina vicino alla plancia di comando. Mi piaceva sbirciare dentro, guardare il radar e tutte quelle apparecchiature complicate che dicevano dove stavamo andando. Lì, un giorno, osservando le varie antenne che vibravano nell’aria ho pensato che l’uomo somiglia sempre più a una radio capace di sintonizzarsi soltanto su una banda di frequenza. Succede un po’ la stessa cosa con le radioline che trovi in omaggio nei detersivi: sebbene sul quadrante siano disegnate tutte le stazioni, in realtà muovendo il sintonizzatore riesci a riceverne non più di una o due, tutte le altre continuano a ronzare nell’aria. Ho l’impressione che l’uso eccessivo della mente produca più o meno lo stesso effetto: di tutta la realtà che ci cir

conda si riesce a cogliere soltanto un; parte ristretta. E in questa parte spesso impera la confusione perché è tutta piena di parole, e le parole, il pii delle volte; invece di condurci in qualche luogo più ampio ci fanno soltanto fare un girotondo.


La comprensione esige il silenzio. Da giovane non lo sapevo, lo so adesso che mi aggiro perla casa muta e solitaria come un pesce nella sua boccia di cristallo. E un po’ come pulire un pavimento sporco con una scopa o con uno straccio bagnato: se usi la scopa gran parte della polvere si solleva in aria e ricade sugli oggetti accanto; se invece usi lo straccio inumidito il pavimento resta splendente e liscio. Il silenzio è come lo straccio inumidito, allontana per sempre l’opacità della polvere. La mente è prigioniera delle parole, se un ritmo le appartiene è quello disordinato dei pensieri; il cuore invece respira, tra tutti gli organi è l’unico a pulsare, ed è questa pulsazione che gli consente di entrare in sintonia con pulsazioni più grandi. Qualche volta mi capita, più per distrazione che per altro, di lasciare la televisione accesa per l’intero pomeriggio; anche se non la guardo il suo rumore mi insegue per le stanze e la sera, quando vado a letto sono molto più nervosa del solito, stento ad addormentarmi. Il rumore continuo, il fracasso sono una specie di droga, quando ci si è abituati non se ne può fare a meno.


E ora posso davvero metterlo giù, sto libro. Magari aggiungo che ogni tanto, in certi passaggi, è del tipo Tipiacevincerefacile, nel senso che è fin troppo facile vedere un giusto – le cose che dice la vecchiarda – e uno sbagliato – le cose che fa la giovanotta e soprattutto quelle che ha fatto la madre morta – ma è un peccato che gli ho perdonato, anche perché credo che sia dovuto in buona parte a questo il suo successo planetario dell’epoca (che credo, ora come ora, non avrebbe, perché siamo diventati più cattivi, freddi e cinici, e non vogliamo che ci parlino al cuore) E ho aumentato di 1% il mio coefficiente di fighezza letteraria 🙂 E ne è valsa la pena.

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