“Dove si va da qui” di Simone Marcuzzi***

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“Dove si va da qui” di Simone Marcuzzi***

Ecco, l’ho finito. L’ho finito poco fa, qualche secondo fa, scrivo dal portatile, che non uso mai perché proprio non combino, con queste tastiere troppo delicate per le mie dita da boscaiolo mancato, e dopo aver finito la seconda lasko e dei crositini al bacon appena scroccati.
Ho finito questo libro, dico, “Dove si va da qui” di Simone Marcuzzi, che tra l’altro oggi ho visto su Il Friuli, con un raccontino che leggerò domani, se ho un attimo. 
Non credevo di finirlo, il libro, prima di martedì, 
E perché cats lo dovevi finire prima di martedì, direte voi, ma perché lo devo presentare, martedì sera, e io vado avanti imperterrito con quel vizio che presento solo libri che ho letto, o meglio, cerco di leggere i libri che presento. 
Sapevo che sarebbe stato un libro decente, ovvio, sennò col cazzo che chiedevo a Simone di muovere il cool da Pordenone a San Giorgio di Nogaro e venire a chiacchierare con me, portandosi dietro pure un pezzo di libro ambientato scritto di proposito (lo so, lo so, sono un cagacats) e facendosi pure tradurre in friulano alcune pagine.
Solo che il libro ne aveva trecento, di pagine, 318, a voler fare i pignoli, e io ho tergiversato un po, leggendo coi miei ritmi, ovvero bassissimi, di poche pagine al giorno. Tra oggi e ieri invece mi sono impegnato, come quando fosse un lavoro, e lo è, di fatto, anche se piacevole, e abusando di birre, crostini, cioccolata, caffè, e altre schifezzerie che han fatto da accompagnamento, l’ho finito adesso, mentre per ironia della sorte rispondo a domande in inglese della donna su meccanica razionale, esame che è stranamente in tema col libro, che parla di fabbriche e di ingegneri e di macchine in cui il clock è un concetto pertinente.
No, calmi, non è un manuale per lavoratori specializzati di fonderia. Certo, la fonderia c’è, ma è carta da parati, anche se molto ma molto caratterizzante. Poteva essere una qualunque altro tipo di industria e il tutto, anche se su sfondo di diversi colori, avrebbe funzionato.
invece di sfondo c’è questo: il nord-est, pordenone, una fabbrica, una crisi.
Sì, Crisi anzi, con la C, è la parola chiave.
La Crisi economica, ovviamente, ma solo in quanto strumento, specchio per descrivere, e filtro per indagare. Indagare cosa? Credo se stesso, nel senso di una buona parte dell’io dell’autore, perché sì, magari ricordo male, ma Simone è ingegnere, lavora(va) per un’impresa a fare proprio quello, nell’industria pesante del nord est, e anche l’età è la stessa. La stessa di chi? Di Gabriele, il protagonista al – diciamo – 60% del romanzo. L’altra parte se la prende Nadia, la sua fidanzata di sempre e da sempre, che assieme a lui attraversa cose comuni e, anche, fuori dall’ordinario.
Cosa? Ma la Crisi, naturalmente. 
Non quella economica ma quella dei rapporti umani tra due persone che stanno entrando nell’anticamera della mezza età, in quella fascia, 35-40, che li porterà dall’aver da dire all’aver specificato la direzione della vita. Il nodo cruciale, forse anche troppo sottolineato, a tratti, sarà quello della ricerca della maternità, che non vuol saperne di arrivare e che genera una tensione che acuisce le altre, latenti.
Per Nadia soprattutto, ovviamente, ma anche per Gabriele, che finisce per conoscersi e non ritrovarsi più nei suoi principi. Insomma, “Dove si va da qui” è un libro che racconta il vissuto, che indaga dentro di noi per come siamo, meschini ma non troppo, sinceri ma non troppo, egoisti ma non troppo, cercando di tirar fuori da quel non troppo il buono che c’è.
Ed è difficile farlo da soli, è questo il messaggio finale.
Ma andiamo per ordine dai.
Tanto per cominciare perché conosco Simone Marcuzzi? L’avevo letto e presentato ai tempi per la sua uscita per Mondadori di “Vorrei stare fermo mentre il mondo va“, romanzo di formazione pieno di riferimenti condivisi per quelli nati nel intorno agli eighties. Un buon libro, sicuramente, anche quello fondato sulla descrizione del vissuto. Poi ho letto anche un’altra sua cosa ibrida, gradevole, un quasi divertissment, e aspettavo, e non me ne sono accorto, e lui stronzetto non ha fatto pubblicità a sufficienza. Insomma… uscito per i tipi della Fandango, è già un bel po’ che è arrivato sugli scaffali, questo lavoro più maturo di Marcuzzi.
Com’è?
Un bel libro.
Frasi lunghe, ma ben costruite, così come è sempre presente una tendenza all’analessi e al pensiero, all’autoanalisi, di quasi tutti i personaggi. Quelli che non esprimono i propri pensieri li vedo espressi con il filtro dei nostri due protagonisti, senza darci modo di dubitare.
Ah, ecco. Questa è una grande qualità di Simone. Non si dubita mai. 
A uno, leggendo, viene in mente che tutto sia autobiografico. Ma proprio tutto tutto.
E molto lo è, si percepisce, ma ci sarà qualcosa che non è quel qualcosa è difficile da riconoscere, sarebbe difficile scommetterci sopra. Il gioco del conoscersi, dell’indagarsi, del confessarsi, Marcuzzi lo fa spesso e prende nota, poi magari aggiunge, cambia, sposta contesto, nome, fatti, ma le emozioni generate restano lì, indagate e descritte. Genuine, ecco.
La storia?
Si fa presto. Potrei fare copiaincolla ma faccio prima a dirla.
Gabriele e Nadia, abbiamo detto, il lavoro di lui e di lei, due entità forti, fortissime. Veterinaria in prima linea lei, ingenere manager coicontrocazzi lui. Si apre con una scena quasi fosterwallaciana, da cda americano ed eccessi del nostro eroe, e ce lo troveremo, a fine libro, estremamente cambiato. Nadia cambierà di meno, e forse, il suo essere donna descritta da un maschio, risulta essere stata colta meno in profondità di Gabriele, anche se comunque è un personaggio riuscito.
I due affrontano due Crisi, si diceva, economica, quella grande, fatta di mancati pagamenti e licenziamenti, di rinunce e disoccupazione, e quella di coppia, fatta di anni spesi a stare insieme senza essere insieme, a conoscersi senza comprendersi. 
Intorno la vita. Quella degli amici di entrambi, comprimari ben delineati, quella dei parenti, delle due famiglie, credibilissime, e quella dei colleghi di lavoro: donne piene di donnitudine per lei, maschi pieni di deformazioni professionali per lui. 
In qualche modo, dalla crisi, si uscirà. Avvicinandosi pericolosamente al baratro, e questa è la tensione che tiene vivo il romanzo, che però, si sabbia, non ha meraviglie stratosferiche da raccontare, ma ha la vita, il vissuto, i rapporti umani.
Poi, come già negli altri lavori, ci sono le cose dell’autore, la sua musica, il suo lavoro, la sua università (a padova) qualche suo aneddoto…. si percepisce, tutto ciò, e non dà fastidio. (A parte quando parla del Bose, che non so che cazzo sia, e secondo me lo usa solo lui quel termine, per definire un aggeggio per suonarci la musica).
Che dire poi? Niente, il libro è riuscito, sì, ha trovato un suo stile e una sua atmosfera, e forse, questo sì, essendo privo di grandi azioni e denso di emozioni, potrebbe essere più un libro adatto alle donne, che agli uomini. O meglio… diciamo che se ho una donna e un uomo, lettori, amanti dei thriller e dei noir stracolmi di cadaveri, alla donna potrebbe tranquillamente piacere anche questo libro, all’uomo quasi sicuramente no. Ovvio, considerazione mia, che tra l’altro smentisco da solo, essendo un amante maschio del libri pieni di cadaveri, ma sono, per l’appunto, un’eccezione.
Dai, è tutto… Gironzolando qua e là ho scoperto che si sa già il titolo del romanzo che Marcuzzi sta scrivendo e quindi mi dirà qualcosa. Alla fine soprattutto sono curioso di sapere se dopo il primo libro dove dentro ha messo il se stesso adolescente, e dopo questo dove ha messo il se stesso di oggi, cosa ha deciso di scrivere. 

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