Maestri del colore, 14: Gauguin

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Maestri del colore, 14: Gauguin

E domenica, okay. Dovrei fare altre cose, ma io voglio fare anche queste cose, tipo sfogliare il Maestro del colore dedicato a Paul Gaugin.

Da questo punto in poi, tra l’altro, ho deciso che mi guardo i pittori che mi interessano, senza badare troppo al numero, e poi, se non perirò entro l’anno, magari continuerò riempiendo i buchi.
Con questo mi è andata bene, resto dentro la seconda decina, quindi dopo i primi dieci, che ho finito, posso riempire con un’altra piccola storia dall’arte anche questa serie numero due.
E ordunque, leggiamo, mentre aspetto il pranzo.
Mi si dice che nasce proprio a Parigi, nel 1848, sotto il segno dei gemelli (7/6). E’ un borghese, borghesissimo. Passa l’infanzia a Lima, in Perù e ritorna in Francia solo per gli studi, che fa, diventando, dopo il militare fatto come marinaio, un affarista con buon fiuto per gli affari. Si sposa anche una quaglia danese agiata, il che non guasta. Protetto dallo stesso protettore di Pissarro, finisce per dover scegliere tra due carriere: l’impiego in borsa e la pittura (dipingeva per sport, la domenica, con un tale Schuffenecker, ed era riuscito a esporre un quadro al Salon).
Ecco, siamo nel 1883, e parte in trip. Manco informa la moglie, abbandona l’impiego e si butta a pesce sulla pittura. Molla la famiglia – e i soldi – a Copenhagen, vive attaccando manifesti per parigi, in miseria, sfrutta gli amici, si ammala e finisce in ospedale, ma dipinge, come un pazzo, senza compromessi, e infatti dice “finalmente dipingo tutti i giorni“. Per capirci, sta spesso in Bretagna, piuttosto che a Parigi, non tanto per i paesaggi che ammira, ma anche per le pensioni che costano molto meno.
Poi?

Poi niente,.. arriva il momento di osare, e con un altro pittore, Laval, parte, siamo nell’aprile 1887: Panama, Martinica… tutto bene? macché. Torna a parigi lo stesso anno – novembre –  e se non è quello di prima col nome impronunciabile a dargli una mano finirebbe su una strada. Ospitandolo, invece, gli fa conoscere Van Gogh

e infatti ecco qua che vi metto un suo ritratto.
La cosa di Van Gogh, e la storia dell’orecchio, è quasi fastidiosa per l’effetto monopolizzante che ha avuto sul “ciò che tutti sanno di Gauguin”, e infatti, non mi va nemmeno di leggere di quello perché è molto più interessante che sia la mostra organizzata dal Theo Van Gogh nel 1888 sia un’altra del 1889 sono due fiaschi totali. Però… interesse tra i giovani pittori lo suscita, e infatti arriva l’anno della svolta: 1890. Frequentatore abituale del Cafè Voltaire stringe amicizia con un sacco di gente importante, tra cui Mallarmè che presiede un banchetto in suo onore quando nel 91 decide di partire per i Tropici… anche qui, a Tahiti, rimane poco, non è granchè come periodo, ma quanto ritorna in francia è anche peggio:

la giavanese che si è pigliato, Hannah, gli devasta lo studio e ruba tutto prima di lasciarlo.

l’incontro con l’ex moglie un altro fallimento
i soldi dell’eredità dello zio si volatilizzano
la vendita all’asta della nuova mostra, niente…
insomma, parigi è solo fonte di dolori e quindi?
Nel 1895 torna a Tahiti e per restarci, almeno là c’è figa, evidentemente. E invece no, nemmeno quella basta, visto che nel 1898 tenta il suicidio, si riprende, ma le autorità locali non lo vedono bene (un bianco a contatto con gli indigeni non piace nemmeno un po’) e prima lo mandano via e poi lo mettono in carcere, praticamente – visto che è sempre stato ammalato – facendolo crepare (8 maggio 1903, a 55anni).
Insomma… una vita da sfigato, diciamocelo, ma anche idealista e incompreso. Giusto per far capire, aizzava gli indigeni a non pagare le tasse coloniali e non andare nelle scuole dei missionari, e alla morte, la tomba l’han scoperta ventanni dopo, e alcuni quadri, dai simpaticoni cattolici, sono stati bruciati per le troppe tette e culi, evidentemente.
Ma in tutto questo, salute permettendo, non ha mai smesso di dipingere.

E per la pittura? che dire… guardiamoci prima un po’ di quadri:


Ecco, a parte vedere tutto questo giallo, che è un po’ straniante, ma va detto che è figlio della luce dei posti dove li ha dipinti, a parte questo, dicevo, mi è piaciuta questa domanda: un superatore dell’impressionismo o un impressionista funebre?
Entrambe le cose, probabilmente. Ci sono tinte violente, a superare, ma un qualcosa di scolastico, di classico, che si mescola a ciò. Ingenuità mistica, dice, ed è effettivamente una definizione calzante come molti di questi lavori.
Che poi, pure nella vita non artistica, Gauguin diceva di essere un selvaggio ma poi parlava di armonie musicali, del valore dell’inespresso e dei simboli… insomma, c’è sempre contraddizione, nelle sue cose, fatte dette e dipinte. Da tenere presente, comunque, che lui si è appassionato alla pittura proprio nel 1874, data cardine per l’impressionismo, quindi, superata o meno, questa corrente lo plasma e stimola, senza dubbio.
Investe ben 15000 franchi, per dire, per acquistare dei Renoir, Monet, Sisley, Pissarro, Manet… e persino Cezanne, anche se lo derideva. Nonostante questo, non si può dire che aderisca alla poetica e stile impressionista, mai. Resta sempre ancorata, per un piccolo tratto, alla tradizione, alle masse di colore orchestrate in modo armonico e a un modo di cogliere la realtà che non è libero alla maniera degli impressionisti.
Poi tra le altre cose leggo di Emile Bernard, uno che avrebbe – uno tra i pochi – intuito le potenzialità di Gauguin (e lo aveva già fatto con Cezanne, Toulous Lautrec, Van Gogh…) e che era uno sperimentatore mezzo pazzo. Ebbene, proprio dai lavori di Bernard, ancora acerbi, Gauguin prende spunto e trasforma il messaggio, arrivando alle sue opere, che sono quelle che “affermano un colore arbitrario e antinaturalistico, suscitato direttamente dall’emozione, con partiture bidimensionali del colore”, rimandi simbolici e letterari, e spesso mistici, come nel Cristo giallo.
Poi che altro vi devo dire? Una cosa curiosa, per esempio, che gli disse Pissarro, a proposito della sua prima esperienza Tahitiana e dell’arte maori che si intrufolava nelle sue tele: lo accusava di aver saccheggiato il selvaggi dell’Oceania.
Ma a questi propositi vi devo lasciare qualche quadro famoso, quelli in cui c’è da dire, che poi magari non sono quelli che piacciono a me… Vi lascia quindi, nell’ordine, “La visione dopo il sermone” che mostra l’adesione al cloisonnisme di Bernarde, a cui si unisce il simbolismo estremo; poi vi lascio “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” che è un’allegoria estrema della vita; e infine, direi, “Vahine no te tiare – Ragazza con il fiore” che simboleggia gioia e giovinezza delle ragazze oceaniche ma usando la forza strutturale delle sculture lignee locali.

Poi vi lascio altre curiosità, per esempio che è tanto famoso il Cristo giallo, ma esiste anche un Cristo verde, che vi lascio qui sotto. E vi lascio anche una sua scultura, perché forse non tutti sanno che, Gauguin, qualcosa anche scolpiva… con risultati piacevolmente macabri, direi.
Bene. Non mi resta che scegliere il mio quadro e scriverci il racconto, che penserò, credo, mentre mi guardo Udinese – Juventus, per vedere quanti rigori danno ai gobbi e quanti non ce ne danno a noi poveretti. Volevo scegliere questo:

Ma poi ho deciso per questo: Le parole del diavolo, 1892.


Rossori
L’infido Taharu gonfiava gli occhi, sconcertato dal color porpora, intorno ai piedi della giovane Vanina; pareva lo stesso rossore della sua vergogna. Eppure l’aveva insidiata per mesi, aveva calcolato tutto: le parole dolcissime imparate a memoria e sussurrate, dopo averle rubate ai poeti; l’auto chiesta in prestito al ricco amico Ra’ita; le ore passate in palestra e i vestiti costosi, rubati dagli spogliatoi. E poi tutte le piccole bugie e gli inganni sottili, fili di una ragnatela sapientissima che aveva sprofondato Vanina tra i gemiti, inghiottiti dalle sue lenzuola. E adesso che era di nuovo nuda e sconfitta davanti a lui, proprio nell’attimo in cui una sensuale curva del ventre gli confermava d’averla fatta sua per sempre, ora la perdeva già, in rivoli sanguigni sciolti nell’acqua.
E lei ormai sapeva, l’avrebbe capito subito lui, da quel sorriso lieve, che ancora gli dava le spalle.

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