
"Il giardino del benandante" di Paolo Morganti***
Questa è una recensione complessa, nel senso che sono ancora combattuto su quanto mi sia piaciuto e quanto no, Il giardino del benandante.
Dovrei giudicarlo in due modi, da friulano e da lettore non-friulano, e quindi lontano dalle conoscenza che sono un po’ dentro a chi – come me – viene dai paesi e ha ascoltato i nonni.
Siccome non ho coioni di fare due recensioni semplicemente faccio questa con calma, la faccio lunga, forse, e vi dico però fin da adesso che è un libro che merita esser letto, secondo entrambe le visioni, anche se può darvi più o meno soddisfazioni, a seconda. (e anche qualche irritazione, ci sta)
Che poi, va detto, mi sono letto questo giardino giovedì scorso, per buona parte in una giornata di mare che da secoli non riuscivo a prendermi, con qualche accenno di noia (poca) nella lunga e descrittiva prima parte, e un abbrivio sempre più slanciato in tutta la parte centrale e finale. Le ultime cinquanta pagine me le sono lette il pomeriggio successivo, e benché oramai volessi sapere come andava a finire, indipendentemente che si fosse già capito dove si andava a parare, sono volate pure quelle.
Insomma… si lascia leggere molto volentieri.
Eccomi!
Le parole precedenti le ho scritte la settimana scorsa, continuo adesso dopo che è successa una cosa.
Allora, mentre leggevo, avevo un persistente senso di qualcosa di scorretto, di sbagliato, riguardo alla datazione e alla coerenza storica delle cose.
Puntavo il dito mentalmente sui dialoghi, molto lontani da quello che potrebbe essere stato il modo di parlare cinquecentesco, ma non era quello. Tra l’altro si era parlato pochi giorni prima con Carli di dialoghi del 500 proprio a proposito della Clessidra d’Avorio (A proposito, che aspettate a comprare un po’ di libri di XII, che voglio vuotare l’armadio? non la clessidra, però, che non c’è più) e di quanto fosse difficile riportare il parlato 500tesco, soprattutto se lo si va a cercare, aggiungo io, nella classe bassa, non colta, dove varie lingue e influenze si mescolano. (penso solo a come dev’essere stato parlare con il volgo in un friulano pieno di latinismi e volgari e why not, tedeschismi e slavismi… insomma…. è difficile). Per farla corta, potevo tranquillamente soprassedere sulla scelta di far parlare i personaggi, sia quelli ricchi, sia i villani, sia i colti, come ai giorni nostri, con pochissima “cinquecentizzazione”. Del resto è narrativa, e questo è intrattenimento soprattutto, quindi se i personaggi parlassero friulano del 500 o latineggiante un lettore medio ti spara o più probabilmente non legge.
Bene. Sappiate però che non era tutto ciò, quel senso di “sbagliato” che mi pervadeva. Infatti il buon Carli, nel week end, si è prestato a leggere il libro, notando bene o male le stesse cose che avevo notato io.
Però me ne ha detta un’altra, che col senno di poi, o meglio, col senno suo, che è uno storico, è poi la cosa che continuava a rodere anche me.
Nei dialoghi, ma in generale nella terza persona a focalizzazione esterna e anche in quella focalizzata sui vari personaggi, si continuavano a dare ripetutamente giudizi su alcune cose dell’epoca, dalle usanze alla religione ai fatti storici.
La più ripetuta, tanto da essere quasi fastidiosa, era quella sulle leggi della Natura (n maiuscola, sì) che vengono prima di quelle religiose e che sono più antiche ecc. Ecco, queste cose, questo soppressare i culti pagani con quelli cristiani, sia attraverso le festività, sia attraverso le tradizioni e la violenza inquisitoria, dicevo, queste visioni vengono dopo, moooolto dopo. Nel 500 uno non avrebbe mai bruciato l’erba contro i temporali dicendo “eh sì, lo so che è un culto pagano, ma la Natura ha la sua importanza, è più antica e blabla”. Lo bruciava e basta, convinto che si facesse così e servisse a quello. punto. Ecco. Detto questo, passiamo al romanzo.
Il giardino del benandante è gradevole. E’ un buon romanzo di intrattenimento che raccoglie una serie di tradizioni del folklore locale (e non) e partendo da fatti e luoghi esistenti (Varmo, Belgrado, Santa Marizza, la Pieve di Rosa, il quadro del Pordenone…) sviluppa una classica crime story con due detective improvvisati ma efficaci e, naturalmente, simpatici.
Parlo di un sacerdote, colto e soprattutto conscio delle falle della chiesa e quindi tollerante verso misteri e antichi culti, e di uno speziale, attività che si avvicina a quella dell’alchimista.
Michele e Martino hanno i loro difetti e anche se a tratti parlano più o meno allo stesso modo, sono complementari e mettono insieme le loro qualità. Sagace letterato e conoscitore dell’animo umano il primo, valente speziale e coraggioso deduttare l’altro. Certo, il prete è un mangione inveterato (lo si ripete ogni tre pagine ed è sempre lì a divorare qualcosa – che poi, è un disgraziato, visto il secolo di carestie e stenti che era il 500, dove si mangiava spesso l’erba dei campi) e lo speziale è uno scettico, e pure un po’ goffo musone.
Ma qual è il crimine? Omicidi! Cruenti omicidi in cui si strappa addirittura il cuore a dei poveri malcapitati che paiono scelti a caso. Lo saranno? No, ovviamente, e i nostri valorosi verranno a capo della matassa di intrighi e nefandezze che tramano contro il castello di Belgrado. In mezzo alla loro indagine c’è, sullo stesso piano, la guerra che ogni anno, alle quattro tempora, i benandanti – i nati con la camicia – combattono contro i malandanti, soprattutto per salvare raccolti e tutto ciò che aiuta una civiltà contadina a campare.
Si trasformano in animali, non possono violare il segreto della loro missione, trasmigrano dal corpo per volare in spirito a compiere le loro battaglie… sì, lo so cosa pensate, è tutto preso un po’ qua e là dalle solite folk-ghost storie, ma il metter in zona localizzata e ben riconoscibile è un valore aggiunto, ed è piacevole pensare di poter prendere la bicicletta e andare a fare un giro a vedere il quadro del Pordenone, o la Pieve di Rosa (ci son stato, tra l’altro, proprio qualche giorni prima di leggere il libro.
Tra l’altro, la scrittura di Morganti è ricca e colorata, anche adatta, per tutte le parti descrittive e per dare spazio al dipingere il secolo, con usanze, abitudini, e per dipingere la quotidianità dei castelli, che invero a me è sembrata un po’ romanzata (non è certo un secolo luminoso, quello, e la vita n
on era certo così facile e gradevole, tanto da far pervadere il tutto da un’aria di bellezza e gioia), ma era giusto così.
on era certo così facile e gradevole, tanto da far pervadere il tutto da un’aria di bellezza e gioia), ma era giusto così.
Poi magari finisce che vi seccate per certe cose, come dicevo, a seconda di chi siete. Vi spiego… quando ho visto il libro ambientato nel 1526 e seguenti, mi son detto, oh, per fortuna, non se ne poteva più di roba ambientata o che prende spunto dal 1511, e in effetti, da un po’ di tempo a questa parte, la crudel zobia grassa sta a alla storia friulana come l’olocausto sta a quella mondiale, e quindi via di libri e film che parlano o alla fin fine cascano su quello. Ma se invece di questa rivolta contadina galattica ne sapete ben poco, be’, allora gradirete anche tutti gli spiegoni che i personaggi fanno nella seconda parte. Io purtroppo li ho letti in fretta perché non ne potevo più e inoltre c’era sempre quel senso di sbagliato che mi attanagliava, che ora so essere la visione negativa sulla crudeltà di un evento che invece, all’epoca, non poteva esserci. (per dirne una, la violenza viene trattata in modalità “rabbia del web”, anziché in quella cinquecentesca, dove scoparsi bambine e massacrare gente era non così raro e non così demonizzato. Ma insomma… il libro va, ed è anche un ottimo prodotto editoriale (un paio di errori di battitura nelle ultime pagine, ma il resto è perfetto). Forse si poteva far dimagrire qualche descrizione, ripetuta più volte (il villain, per dire, il buon Prospero) ma son quisquiglie. A me, opinione personale, non è piaciuto il finale, che tira fuori troppo demonio (mentre pescando dalle divinità e usanze celtiche c’era per lo meno un’altra demonologia cui acennare) ma più che altro perché troppo fantasmagorico ed eccessivo, ma è una scelta, e accetto.
Bene dai, è ora di chiudere, anche se ne ho detta tanta. Mi sono anzi, anche pigliato il secondo della saga, Il calice di San Giovanni, e vediamo se l’indagine è un po’ meno scontata e magari scopro altre cose storiche ecc, che invece è l’aspetto del libro che più mi stuzzica. Vi saprò dire!