"Six shots" di Alfredo Mogavero**
Un annetto prima di lasciarci e non molto prima di figliare, io e la mia amica I. facemmo una spedizione in una scuola a Trieste, a parlare con dei docenti o cose simili, non è importante. Guidava lei e lungo la strada, inevitabilmente, finimmo a parlare di musica.
Tra le tante cose, ricordo gli aneddoti, sempre simpatici, che mi raccontò. Vada per Mike Patton che compariva a sorpresa per le sagre del medio Friuli (allora era ancora frontman dei FNM), cosa che ora è diventata usuale; vada anche altri piccoli pettegolezzi. Il più succoso, però, era quello sui Nirvana, che a un mese o poco più, prima dell’uscita di Nevermind, capitarono a una sagra di Tarcento (o Tricesimo, o Tarvisio… non ricordo bene, ma non è questo l’importante) per suonare il loro punk acerbo e casinaro insieme ad altri gruppetti davanti a una trentina di persone (al netto degli organizzatori della sagra e dei ragazzini dediti alla birra, e non al punk).
Bene.
Perché vi ho raccontato questa cosa?
Ve lo dico dopo.
E’ in parte difficile scrivere queste righe, perché non sempre è semplice scrivere di chi conosci.
Alfredo lo conosco. Certo, visto una sola volta e lui mi odia, ma resta il fatto quando ci si legge, ci si conosce, e quando si frequentano i forum dell’underground letterario, e ci si insulta i racconti a vicenza, beh, ci si conosce ancora di più.
Ecco perché quando ho letto dell’uscita di “Six shots” a firma Alfredo Mogavero, non solo ho gioito per lui, ma ho gioito per me. Sticazzi! mi son detto, finalmente un libro che divorerò e leggerò con stragusto. Poi vedo che parla di weird western (sì, okay, io prima gioisco, poi guardo di cosa parla il libro) e mi dico, ancora più gasato, “Yeah! saranno delle storione!”
Bene, insomma.
Ecco perché, ho lasciato passare ben poco tempo dall’arrivo alla lettura di questi sei colpi, nonostante il mio scaffale veda libri ormai ricoperti di muffe e organismi viventi dei più disparati.
Ma arriviamo al punto:
Mi aspettavo di più.
No, no. Altolà. Non fraintendiamoci. Non vi sto parlando di un libro del quale ti fai un sacco di aspettative e poi, magari, il libro è bello e tu lo volevi meraviglioserrimo. No. Io parlo di un’altra cosa.
Io conosco Alfredo, so come scrive Alfredo.
Se lo prendi a pezzi e lo valuti, lui non ha niente di straordinario. Non ha storie di straordinaria originalità, o un linguaggio di enorme ricercatezza, piuttosto che strutture narrative innovative e particolari. Il fatto è che una storia raccontata da lui diventa una storia divertente. I racconti di Bravecharlie, per dirlo alla sudamericana, tengono duende. Oppure fascino, appeal, spirito pop… chiamatelo come volete. Con un paragone che trovo tutt’altro che azzardato, godono dell’effetto Lansdale, ovvero di quella scrittura sciolta, scorrevole, ironica e colorita, che non ti dà il tempo di pensare a come è scritta, ma ti dà solo la voglia di leggere e la sensazione di non poterne fare a meno. Alla fine, quando si trattava di mettere sulla bilancia uno scritto di brave contro un altro, magari più elaborato e preciso, si arrivava alla conclusione che sì, carino l’altro, epperò quello di brave… è una figata!
Insomma, ecco da dove nasce la mia aspettativa parzialmente delusa. Questi six shots sono sei racconti godibili, leggeri, che si bevono in un piacevole pomeriggio o due, ma ti lasciano l’impressione che manchi qualcosa, anche se non sempre. Cosa? Non mi va di passare il post a dire cosa, che non è utile. Ne prendo uno solo.
Il primo, ad esempio, dove c’è un pistolero mostro chiamato “Sei pistole”. Bene, dopo una discreta costruzione dei personaggi primari e una buona ambientazione, ecco che deve arrivare questo mostro, e insomma, io lo voglio vedere, toccare, sentire, respirare, questo mostro dalle sei pistole. Invece non succede, viene descritto poco, o niente, e proprio quando il racconto ha bisogno di un fuoco che si scatena, mi sono trovato una scintilla. Certo, è un racconto godibile, ma cavolo, io so che (si) può fare di più. Ne ho la certezza assoluta. E se vi leggete le cose di Mogavero sparse in rete, come gli spin off sul blog di XII, per dire, o come Gloomville 1 e 2.
Poi, altra piccola nota, sulla scrittura. C’è quasi una sorta di timidezza, di scrittura a tratti non sempre rapida, che non colpisce allo stomaco, come so e come ho spesso provato. Ho quasi pensato, confesso, che qualche parte possa essere uscita dal cassetto e sia antecedente agli scritti di adesso. Anche qui, quindi, so che Alfredo sa fare meglio.
Fatta questa lunga, lunghissima premessa, passo a dirvi brevemente del libro.
Sei racconti, ambientati western con inserti di odd people (weird insomma). Spirito innegabilmente lansdaliano, inutile fingere che non siano collegamenti, perché la mescolanza di generi è quella e lo stile è diretto e rapido. Non è un difetto, ma una caratteristica. Manca la volgarità elevata, mentre si abbonda in similitudine spinde e frasi colorite. Il momento meglio riuscito credo sia in “La notte del poker”, il quarto episodio (dove si racconta di una rocambolesca notte di pistoleri, puttane, pianisti e, appunto, poker, in un saloon), e in “Twilight Jackson e Paddy McGee” il secondo pezzo (dove un fulmine colpisce un poveraccio che, non muore ma…). Il personaggio migliore è senza dubbio la vecchia pistolera, Patty.
Bene. Ho finito.
Ah, no. Dimenticavo di spiegarvi il perché dell’introduzione nel post.
La domanda più importante. E’ un libro da leggere, o no?
Mettiamola così, a quel concerto dei Nirvana quando ancora non li cagava nessuno e c’erano a malapena una trentina di persone, voi avreste voluto esserci, o no?
Io, decisamente, sì.
Nick
Ok mi hai convinto.
Lo cercherò così sulla fiducia. Per fortuna le Edizioni XII stanno cominciando ad essere distribuite anche in Veneto.
gelostellato
Ottimo,
vedrai come ci divertiremo quando faremo i fighi per trombarci le sue fan dicendo che lo seguiamo da "six shots" 😉
Noe
Io l'ho ordinato giorni fa, prima o poi arriverà! ^_^ Non vedo l'ora!
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