“Un uomo senza patria” di Kurt Vonegut***

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“Un uomo senza patria” di Kurt Vonegut***

Io so molto poco di Kurt Vonnegut.
So di Mattatoio n. 5, che mi piacque moltissimo. So dei suoi consigli sulla scrittura, che ho letto perché Astrid li ha messi sull’osteria, e son certo di aver letto un suo racconto non ricordo dove.
Non credo di avere altri suoi libri nel mio mucchio di libri da leggere e questo lo avevo preso al banco libro immediatly, perché era piccolo, perché era della Minimum Fax (Noi che amiamo Carver amiamo di riflesso tutto quelli che hanno provveduto a portarlo a noi) e appunto, perché Vonnegut mi è sempre sembrato un gran figo.
Ecco… Ve lo posso confermare: Vonnegut era un gran figo.
In questo piccolo libro non trovate un romanzo, e non trovate un racconto. Trovate una raccolta di editoriali scritti per non ricordo quale rivista e messi insieme nel 2005. Kurt era un vecchietto, e qui, nei suoi editoriali, ha proprio questa bellissima aria del vecchietto che vi racconta cose, magari un po’ brontolone, refrattario a qualche modernità, ma che è difficile non ascoltare, non lasciarsi contagiare dal suo umorisco freddo e malinconico e non riflettere sulle cose che dice. Quindi, siccome adesso devo andare al Center Casa, nuova apertura galattica, a comprare ammenicoli vari, tipo una tazzina per caffè della misura che dico io, o dei pennarelli, o salcazzo cosa diamine attrarrà la mia morbosa attenzione del colorato+inutile+inpromozione= Comprare!!! ecco… dicevo, la smetto qui e lo finisco più tardi, o non so quando, il post, così magari rileggo e vi scrivo qualche pezzettino che vi mi ci piacerà.

Ahahahaha dieci giorni. Dieci giorni son passati, da quando ho cominciato questo post. Nel frattempo, le mie sedicenni preferite, Greta e Billie, hanno fatto le loro cose, e pure io ho fatto le mie. Le loro sono migliori delle mie, ma vabbè, non mi ucciderò per questo. Anyway, Billie guardatela, che è una figata di show, soprattutto quando alla fine ride, contenta, esce dalla parte, ed è esattamente quello che è ed è giusto che sia, una ragazzina figa e talentuosa ma normale, senza tante menate. Ma fatemi leggere cosa vi avevo scritto su Vonnegut e sul suo giudizio sull’America. Niente, in pratica, solo che anche lui era un gran figo, e lo era anche a novantanni, scrivendo questi articoli.
Vediamo… vi vado a cercare qualcosa, perché anche io mi ricodo poco, mentre riascolto Badly Drawn Boy, che era una cosa bella di quando c’erano le cose belle che non avevano bisogno dell’estetica.
E già che ci siamo, a parlar di USA, vi dico che Franco Oceano sta arrangiando il disco nuovo, che a questo punto esce a inizio 2020, che è anche il nome dell’ultimo disco dei Timo, e vi dico anche che il disco della divinità Kanye West, dio Kanye, non è uscito. Tipo che sarà la decima volta che Kanye non esce. Evabbè. Era per dirvi cose inutili, mentre aspettate che vi parli del libro.

Ecco… dunque. Ascoltate l’attacco di questo pezzo. Ve lo copio. Siamo tipo intorno al 2004  o giù di lì. Siamo in USA.

Voglio darvi una notizia.
No, non ho intenzione di candidarmi alla presidenza degli Stati Uniti, anche se io lo so che una frase, per essere completa, deve avere un soggetto e un verbo.
E non sto neanche per confessare che vado a letto coi bambini. Ma dichiaro volentieri quanto segue: mia moglie è di gran lunga la persona più vecchia con cui sono andato a letto.
Ed ecco la notizia: ho intenzione di fare causa alla Brown & Williamson Tobacco Company, la ditta produttrice delle sigarette Pall MAll, per ottenere un risarcimento di un miliardo di dollari! Da quando avevo solo dodici anni, infatti, ho fumato come un turco sempre e soltanto Pall Mall senza filtro. E da diversi anni, ormai – c’è scritto proprio sul pacchetto – la Brown & Williamson ha promesso di ammazzarmi.
Ma ho ottantadue anni. Mille grazie, luridi bastardi. L’ultima cosa al mondo che avrei mai desiderato è essere ancora in vita nel momento in cui le tre persone più potenti del pianeta si chiamano Bush, Dick e Colon.

(Figa, cazzo e colon), che poi sarebbero George, Cheney e Colin Powell.

Ecco. Non è un gran figo, Vonnegut?
Secondo me sì. La verità è che più che articoli sono piccoli monologhi comici. La domanda iniziale, kg di sarcasmo, litri di disillusione dell’american dream e anche tanta saggezza. Metteteci che a dirlo è un vecchietto, e tutto va a mettersi sotto una luce diversa, viene a mancare la cattiveria, che non si palesa mai. E’ sempre bonario, Kurt, ma dice cose terribili con un’aria candida da nonnetto che è uno spettacolo. E non si dimentica di mescolare un’anima poetica e informazioni, anche se queste ultime non sai mai se prenderle sul serio o andar su google e verificare. Nel dubbio ti piace quello che ha detto lui. Vi lascio questo altro pezzo, come esempio di tutto questo, e poi vado a lavorare. Ah, già, perché il motivo per cui ho finito questo post è semplicemente che mi sono svegliato dopo due ore di sonno, ho fatto tutto di corsa e poi mi sono reso conto che cominciavo a lavorare un’ora più tardi. E ho usato l’ora per parlarvi di Vonnegut. Dunque:

Se mai dovessi morire – Dio non voglia – vorrei che sulla mia lapide ci fosse scritto: L’UNICA PROVA CHE GLI SERVIVA DELL’ESISTENZA DI DIO ERA LA MUSICA. Ebbene, durante la nostra guerra catastrofica e idiota in Vietnam, la musica diventava sempre più bella. Quella guerra, tra parentesi, l’abbiamo persa. E’ stato impossibile ripristinare l’ordine in Indocina fino a quando non ci hanno cacciati via a pedate. Quella guerra è servita solo a trasformare dei milionari in miliardari. La guerra di oggi trasforma i miliardari in triliardari. Questo sì che è un bel progresso.
E come mai gli abitanti dei paesi che invadiamo non sanno combattere da persone civili, con le uniformi, i carri armati e gli elicotteri corazzati?
Ma torniamo alla musica.  […] il dono inestimabile che hanno fatto gli afroamericani al mondo intero mentre erano ancora in schiavitù è qualcosa di tanto grande che ormai resta quasi l’uinico motivo per cui all’estero c’è gente che apprezza almeno un po’ l’America. La cura più indicata per l’epidemia mondiale di depressione è un dono che prende il nome di blues. Tutta la musica leggera contemporanea – il jazza, lo swing, il be-bop, Elvis Presley, i Beatles, i Rolling Stones, il rock, l’hip-hop e via dicendo – deriva dal blues.
Un dono al mondo intero? Non esagero. […]
L’ottimo scrittore Albert Murray, che fra le altre cose è uno storico del jazz e un mio amico, mi ha raccontato che in America all’epoca della schiavitù – un’atrocità dalla quale non ci potremo mai completamente riprendere – il tasso di suicidio fra i proprietari di schiavi era molto più alto del tasso di suicidio fra gli schiavi stessi.
Secondo Murray il motivo era che gli schiavi, a differenza dei padroni, avevano elaborato un proprio modo di reagire alla depressione: cantando e suonando il blues riuscivano a scacciare lo spettro del suicidio.

Bene. Ora sono contento. Ci voleva leggere qualcosa di non troppo celebre dai. Che poi ho letto altre due cose che non sono molto celebri ed erano piuttosto belle, di recente. Magari vedrò di muovermi, ad aggiornare il blog. Ho scritto anche una poesia bella, stanotte. Ma poi era bella quando l’ho finita, magari ora la rileggo e non lo è più. Vado a metterla sul blog pure quella dai. Così pure la traduco, e siete più contenti. Buona giornata! 

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