“Il Serenissimo borghese” di Alberto Frappa Raunceroy****

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“Il Serenissimo borghese” di Alberto Frappa Raunceroy****

Si può leggere un libro da settembre a maggio?
Sì, io può!
Eppure è un bel libro, eh, e certo, immagino ora provi per me anche qualcosa, almeno una infatuazione, viste tutte le volte che abbiamo dormito insieme. 
Perché sì, insomma, Alberto, povero, oramai mi odierà e penserà che caccio palle, nel dire che mi sono portato dietro il suo Serenissimo Borghese per sei mesi e passa, ma no, è tutto vero.
Certo… non ho letto due pagine al giorno, eh, (ne ha 221, ci avrei comunque messo di meno) ma diciamo che ho avuto lunghe pause, perché insomma… costastoria di due lavori, più eventi, più donne, più fallimenti e cambi lavoro e salcats cos’altro, devo dire che ho proprio smesso di leggere, o quasi.
Ho tentato di dare un giro di chiave e aprirmi una via giovedì pomeriggio. Non so per quale strana alchimia ma è saltato fuori un giovedì libero, e ho aggiunto ai 100km giornalieri una 70ina per andare al mare con l’unico obiettivo di spiaggiarmi e leggere.
Leggere questo libro.
E ci sono riuscito, da pagina 80 sono tornato indietro di una ventina almeno, ché non mi ricordavo una serenissima mazza, e sono partito fino a farmi mancare una cinquantina di pagine. Poi chiaro, quando erano le sei mi sono fatto prendere dai sensi di colpa per tutti i lavori che non stavo facendo e son tornato a casa, ma tra venerdì in pausa pranzo e notte l’ho finito.
E…
Bello!
Io non sono uno che legge tanti romanzi storici.
Non c”è un vero motivo, mi piacciono, ma non li ricerco, e soprattutto la mia impossibilità di affrontare libri grossi mi priva di buona parte dell’ispirazione verso molti di essi.
Resta che scrivere un romanzo storico è cosa che, per una buona riuscita, necessita di varietà ed equilibri. Bisogna mescolare, come in una ricetta, e non è che puoi seguire un manuale con le quantità di ingredienti per ogni storia.
Qui, per esempio, dove si racconta della decadenza di Venezia e dell’ultimo Doge, Lodovico Manin, è ovvio che vi dev’essere una forte parte storica fatta di fatti, ma è altrettanto logiche che se prevale rischi di far grippare la storia, e allora serve una vicenda, un amore, o meglio, più amori, che si incrociano alle gelosie, alle invidie, alla meschinità umana. E non basta, servono le domande, che portino avanti la narrazione, e che facciano arrivare all’ultima pagina.
Che fine ha fatto il bambino nato morto di Elisabetta Grimani, la moglie del Doge? E’ veramente nato morto? E che segreti nasconde questa famiglia borghese che ha così tanta voglia di salvare le apparenze? E alla fine, quando i fili sembrano tutti tirati, esce l’ultima domanda, che probabilmente è quella meno legata alla verità storica e più romanzata, ma che ci si gode, come sorpresa ed epifania narrativa, più che storica.
Insomma… il dosaggio di questi ingredienti, che non appesantiscono e lasciano la lettura lontana dagli echi da manuale storico, è decisamente riuscito, soprattutto nella seconda parte.
Anche perché dopo un po’ lo capisci, chi è il vero protagonista del romanzo.
Venezia. 
Venezia e una zona grigia d’Italia, che oscilla tra le tinte dell’impero asburgico e quelle delle idee rivoluzionarie giacobine, potenziate e sporcate da Napoleone e dal suo vento travolgente.
E’ un libro molto friulano, va detto, e nel conoscere i personaggi, soprattutto quelli minori, si ha un’idea precisa di cosa doveva essere il passaggio di consegne tra il dominio veneziano e quel non-dominio austriaco successivo alle manovre politiche di Napoleone, concluse con la pace di Campoformio e il suo alloggio a Villa Manin.
C’è soprattutto un’espressione, credo triveneta, ma che per me ha sempre avuto sempre un certo significato che mescolo sì un’accezione negativa – di superficialità e frivolezza – ma venata di una bonaria comprensione e simpatia: essere “une putane di Vignesie“.
Perché sì, è proprio Venezia, la puttana, che oramai ha perso di vista ogni senso della coscienza e della realtà e si è persa dentro il suo mondo, fatto spesso di carnevali e indolenza, di parrucche e lentezza, di sperperi e vizi, ma un mondo che è lontano da quello in rapido cambiamento, che la fagociterà, alla fine.
Ecco, è in questa trama che viene cucita la storia degli affetti attorno all’ultimo Doge, che più che protagonista è specchio del personaggio più emotivo e forte del romanzo, la Grimani, appunto, e il suo essere come persona quello che Venezia avrebbe dovuto essere come Repubblica. 
Alla fine saranno due fallimenti, o meglio, due modi diversi di soccombere.
Insomma… diciamo che se volete buttare un’occhiata ai fatti triveneti di fine ‘700, questo è un ottimo libro per.
Poi?
Ah, sì, poi è scritto bene. Va detto, con un registro che è adatto alla storia, a tratti lento e dettagliato, molto aggettivato, ma che rende molto bene il clima veneziano della borghesia e degli usi veneziani. Forse è un po’ meno credibile quando a discutere con il Doge sono alcuni personaggi minori e di basso rango, che forse parlano e intendono un linguaggio che non so quanto fosse alla loro portata; ma è una considerazione che è solo mia, e di certo uno non ci si perde.
Tra l’altro, un buon modo per capire il senso generale lo trovate nella quarta di copertina, dove si riporta una frase pronunciata proprio da Lodovico, e che vi copincollo pure io, appena la trovo.
«Ve lo ripeto: non si tratta di omicidio, ma di suicidio. Venezia si è uccisa. Ogni civiltà, ogni paese che non riesca più a trovare in sé le forze morali per reagire a grandi cambiamenti è destinata a soccombere.

(…) Nessuno che non sia suddito di Venezia o di qualsiasi altra sovranità di questa penisola può capire che la nostra indolenza è una forma di superbia estetica. Superbia, badate, non orgoglio… quello lo abbiamo perso da tempo…

Dio ha concesso agli italiani privilegi unici e di questa superiorità noi abbiamo prima goduto, poi abusato, e ora che non siamo più in grado di reggerci da soli, la superbia ci induce all’indolenza, perché sempre saremo satolli di bellezza.»

Ecco, questa qua. Ma io mi ero segnato un’altra, che mi pareva molto riassuntiva e ve la vado a cercare e ve la scrivo. 
“Sarebbe questa la cosa che chiamano democrazia, Eccellenza? Che tutto viene deciso da una minoranza di violenti e simulatori?” 

Il Doge tradì una lugubre compiacenza: i popolani sapevano sempre riassumere i fatti con schiettezza. “Nulla poi di tanto diverso da quello che era prima, non comprendi?”
Il cameriere simulò umiltà: “Sono ignorante, Eccellenza, come potrei?”

Ecco, poi sarebbe da copiarvi anche il pezzo dopo, ma non ho palle, e quindi vi bastino queste gattopardiane parole di Bernardo, il maggiordomo del Doge, che gettano, temo, uno sguardo anche al giorno d’oggi, e a queste democrazie da web bastate sulle simulazioni e le menzogne emotive. Altre decadenze, insomma, ma pur sempre decadenze.
E io direi che basta.
Il libro è delle edizioni Solfanelli, ho deciso che me lo tengo, anche se Alberto non è che lo voleva indietro, ma mi seccava farmelo regalare, ma me ne frego e mi va di averlo.
Fatemi pensare se c’è’ altro…No, direi di no. O meglio, sì, ma mi sono dilungato pure troppo, e ora ho da fare che sennò sto pezzo di tesi sulle minoranze linguistiche russe non lo finisco mai più.
Ecciao!

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