"Il muro dietro la porta" di Elisa Sala Borin***

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"Il muro dietro la porta" di Elisa Sala Borin***

L’ho finito stamane, dalle 4 in poi, prima di tornare a dormire, e ci ho ritrovato dentro mia madre. Per intero, credo.
Non sapevo di averlo, o meglio, me n’ero scordato.
E il terzo libro che Elisa (che penso sia l’unica lettrice di questo blog che son sicuro, adesso, che mi sta leggendo, e a cui posso dire Ciao sapendo che mi legge) mi ha regalato, ma non in ordine cronologico.
Stavo scorrendo le centinaia di “libri che non sto leggendo” per vedere di un qualcosa che potesse, come poi è accaduto, diventare il mio libro del primo dell’anno, e ho preso in mano questo e mi son detto, okay, lo leggo anche se diventano tre contemporaneamente (stavo leggendo Fontamara e ci sarebbe stato quello del primo dell’anno, appunto).
E ho fatto bene.
Intanto perché non va bene che le persone ti regalino i libri con il piacere di regalarti i libri perché sei tu (cioè io) e tu (sempre io) non li leggi. Non so se ne ho altri, di questo tipo… anzi, sì, uno di Noemi, forse due (della Ghinelli) e uno di Michela, che infatti leggerò a partire da… tra un paio d’ore. Ma torniamo a questo e al fatto che ci abbia trovato dentro mia madre, che ha – è vero – meno anni di Elisa (è del ’48) e non ha esperienze di guerra e la passione del teatro, e okay, quelle cose no, non le ho trovate, ma in tantissime altre cose sì.
Che ne so… le suore e il collegio, o la colonia, cose così.
Così come leggevo, qui, delle suore della colonia che ti fanno morire di fame, che ti rubano le cose, che ti lasciano poca dignità e trattano i bambini peggio che possono, così mi veniva in mente delle storie di mia madre, dalle suore, in collegio, con i vermi lunghissimi nel pentolone del latte, che ugualmente davano da bere ai bambini, e le caramelle rubate, e le pantegane che correvano per la dispensa e loro fingevano di non vedere o addirittura, a questo punto è tutto vero, mettevano una taglia (una caramella a esemplare) per ognuna catturata.

Ma andiamo per ordine… e torniamo al libro.

Sono ricordi. Ricordi senza filtri, di bambina, con il solo, unico, piacevole intento di essere quello che sono: ricordi raccontati, con le sensazioni del tempo che fu, la visione di bambina.
Ce li abbiamo anche noi, ce li abbiamo tutti, sono lì, fermi, immobili, scompaiono e riappaiono dalla nostra memoria, fossilizzati e li possiamo cambiare, ovvio, col senno di poi, ma non è che li cambiamo… semplicemente li vediamo con l’altro occhio, ma rivestendo un qualcosa che non muta forma. Ecco… Elisa ci racconta quel qualcosa. Credo sia una cosa che è stata molto sua, questo libro, perché non è l’opera che dici “vorrei mi leggessero, ho raccontato queste cose perché voi le leggiate”. No. Ho raccontato queste cose. Punto.
E io ci sto pensando, perché appunto, siccome i ricordi sono suoi, è logico che non sono anche miei. Io, per esempio, non sono stato mai in colonia, avrei sofferto le pene dell’inferno. Ci sarei morto. Io odio la gente, lo sapete, per me l’estate da piccolo era essere libero di correre scalzo per i campi dalla mattina alla sera rischiando la vita in settordicimila modi e passare le giornate senza mettere una maglietta mai. Figuriamoci a rinchiudermi con gente che non conosco a fare cose che non voglio in posti che non mi interessano con bambini con cui non avrei parlato mai. Seeee, sarei diventato un serial killer più di quello che già sono. 😀 Però, dopo aver pensato ai ricordi di mia madre, che sono di quelli, avete presente, che ti raccontano milioni di volte, e tu, che sei buoni, ascolti una volta sì e l’altra la sfanculi dicendo oooo, l’hai già detta questa e terminando la storia al posto suo. E insomma… ci siamo capiti.
Ecco, vi dicevo, che poi, il passaggio successivo, mi sono ricordato dei miei, nel senso, ho pensato: ma se dovessi tuffarmi io, nella memoria di bambino, senza mettere il filtro, che ricordi pescherei?
E me ne sono venuti, sì, ma non tanti, arrivano quando vogliono loro. E’ difficile farseli venire a comando. 
Ricordo per esempio un giochetto di quelli che si trovano nelle patatine, una sorta di rotellina di plastica da lanciare con una stecchetta di plastica che volava lontano. L’avevo appena trovata nelle patatine comprate dal nonno, credo, o nonna, non so, e un altro bambino, uno del loro cortile, si chiamava Nicola, della mia età, forse un anno meno, ma uno di quelli che adesso chiamano bulli (io ero buono ciccione e timido) me lo chiese per giocarci. Glielo diedi, e quello – non me n’ero accorto – stava per andare via, caricato dalla bicicletta di sua mamma, ci salì, ovviamente senza ridarmi il gioco, e guardandomi bello felice, ché mi aveva fregato. Lo odiai, ma in realtà rimasi più che altro sorpreso. Non capivo il come si potesse fare quel sopruso, credo sia il primo furto che ho subito in vita, e non riuscii a dire a nessuno “Nicola mi ha rubato la sorpresa delle patatine” o forse lo dissi, non ricordo, ma immagino che, essendo una cazzata, mi dissero di lasciar perdere. Ovvio che poi, ora, se vedo un bambino che ruba una cosa a un altro, lo prendo per il collo finché o la molla o lo uccido (cosa non molto gradita dai genitori, ho scoperto, ma me ne fotto). 
Ecco… il libro di Elisa è pieno di cose così.
Per questo, come a me è piaciuto scrivere e ricordare senza filtri quella che vi ho appena raccontato, ecco che a lei, immagino, dev’essere piaciuto scrivere dei suoi.
Poi, a dirla tutta, di riflesso, c’è una cosa bella, nei ricordi, che può dare un senso anche a chi non ha interesse nella memoria altrui. C‘è il contorno. C’è Treviso, tantissima Treviso, e ci sono lampi su quello che era nel dopo guerra: i bombardamenti, le AM lire, l’occupazione, la scuola di allora, il mercato… E sono quelle cose che magari hai immaginato sui libri di storia, ma non hai immaginato dentro. La città era distrutta dalle bombe è una frase vuota, una bambina che ti dice che mentre passeggia con un’amichetta tiene un lato della strada piuttosto che l’altro per le case distrutte o meno dalle bombe o che prova angoscia e spavento dove ci sono i fiori perché lì la bomba è caduta su un rifugio, be’, è diverso. Non è vuota, i ricordi non lo sono mai.
Bene, l’ho fatta anche troppo lunga.
Nel libro, 123 pagine, ci sono anche i disegni delle opere di Elisa, e a me va di mettervene qualcuno che ho trovato in giro per il post. Li potete vedere tutti sul suo sito. E ci sono, prima di ogni racconti, citazioni di poesie, o scritti, estratti… così ho capito perché tra le altre aveva un ricordo più denso di “ride la gazza” di Quasimodo, che tradussi in friulano, all’epoca. A me son piaciute, le citazioni.
E mi piacciono anche i disegni. Sto entrando nell’ottica che una storia, senza farci un disegno, non è una storia completa, per lo meno in questo periodo che faccio disegni per ogni storia che scrivo.
Bene. Non vi dico altro che per oggi basta blog. Dovevo preparare le lezioni, ma non so, oggi temo combinerò poco, ho voglia di fare un disegno. Ho visto che Elisa ha (avrebbe) un incontro pubblico il 15/1, ma io non ci posso andare, con questo lavoro che non mi pagano ma che non puoi fare niente, avendo tutte le sere impegnate (ma come cazzo vivono, gli insegnanti dei serali, senza avere le sere? ma… ) e quindi non so, mi offri una caffè un sabato? Ah, comunque, grazie per il libro. 🙂
E per voi che state là fuori, ora vi trovo una cosa da lasciarvi, un ricordo suo che magari è anche mio e che magari può accendere anche uno dei vostri.
Trovato, vi ho parlato della colonia e dei soprusi e ho deciso che vi lascio quello. C’è anche una canzone, che lo dice, una canzone che è tra le più belle mai scritte da gruppo italiano, che amo, ma che non posso ascoltare più senza intristirmi o piangere, proprio per i ricordi, non quelli di bambino, è quella degli Otto Ohm, fumo denso. Ascoltatela voi per me, mentre leggete questo:

Quale felicità? Io stavo vivendo in un incubo che
non finiva mai.
Le mie notti erano lunghe e difficili. Faticavo a prendere sonno e sognavo ad occhi aperti la mia fuga e al mattino, quando suonava la sveglia, non riuscivo a tenere aperte le palpebre dalla stanchezza. Alcune compagne di camerata mi prendevano in giro, perché di notte piangevo e urlavo nel breve sonno. Per fortuna erano poche.
Rivedo quell’enorme camerata: grandi porte a vetri davano sulla terrazza e tende bianche e leggere svolazzavano nel sole. Rivedo quelle brande, tante. In un angolo c’era un letto grande contornato da tende, era la camera della nostra vigilatrice.
Di quel tempo ricordo tutto anche i più piccoli dettagli, ma di questa ‘simpatica’ signorina non ho memoria.
Le nostre cose erano riposte dentro le valige nascoste sotto i lettini. La mia valigetta di cartone, comprata e riempita dalla mamma con tanto amore, in pochi giorni si vuotò. Ebbi una punizione perché avevo smarrito il suo contenuto! Non era vero, avevo la certezza di essere stata derubata, non sapevo difendermi.
Nessuno mi scioglieva le lunghe trecce, nessuno mi pettinava… E poi di corsa a lavarci, ma quando arrivava il mio turno… l’acqua era finita e riuscivo solo a pulirmi gli occhi con il gocciolio.
Si scendeva tutte in fila nella sala della refezione: le scodelle di legno, nere dall’uso, e i cucchiai di ano strano metallo opaco mi facevano schifo. Mi si rivoltava lo stomaco al pensiero di bere quel liquido giallastro col suo deposito melmoso sul fondo, Lo chiamavano latte in polvere, ma! Mi trasformai in fachiro, vivevo d’aria. E pensare che la mamma ci aveva mandati in colonia perché il nostro medico glielo aveva suggerito. Eravamo inappetenti.
Sì, c’era anche mio fratello. Non sapevo dove fosse andato a finire perché era proibita la promiscuità. Chiedevo di lui e non ricevendo risposta, pensavo fosse morto oppure, beato lui, tornato a casa.
La palazzina della Croce Rossa di lesolo era nata negli anni trenta e si capiva; lo stile inconfondibile ci riporta alle costruzioni dell’antica Roma e al fascismo che ne aveva colto l’esteriorità. Ricordo i parapetti a croce di pietra. Ci sono ancora!
In quel tempo non si usavano gli ombrelloni, solo poche tende a vela quadrata fissate con i paletti sulla sabbia, erano disposte in maniera ordinata davanti la scalinata, ad uso del personale della colonia. Per noi, ai lati della costruzione, c’erano dei portici sostenuti da colonne, che ci servivano da riparo nelle ore più calde della giornata.
Io non capivo il perché del comportamento della maggior parte delle compagne. Esse ridevano serene, mangiavano anche la mia porzione e cantavano felici… non tutte ovviamente, avevo alcuni compagni di sventura!

Comments

  • 5 Gennaio 2015

    Grazie!
    Hai ragione, quando pensai di mettere giù i ricordi era una mia necessità, e scrivendo ritornai bambina ridendo e piangendo a ogni ricordo. Fu una figlia a insistere per una eventuale pubblicazione.

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  • 5 Gennaio 2015

    Dimenticavo.
    Ti aspetto per il caffè!

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  • 5 Gennaio 2015

    E a questo punto ti mando Maria voleva le ali !!!!!!!!!!!!!!!!!
    Altra storia altro giro… anche questo scritto per ricordare la storia di una famiglia.

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  • 6 Gennaio 2015

    Scusami, come potevo dimenticarmi di "Suites da piccola musica notturna". Già ci sarebbe anche lui povero cristo… se trovo una copia te la metto via…
    E' bello scrivere!
    Ciao Prof.

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