“Una questione privata” di Beppe Fenoglio****

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“Una questione privata” di Beppe Fenoglio****

Non mi capacitavo di quanto fosse bello, questo libro, all’inizio, e anche verso la fine, continuavo a trovarlo bello, e poi, son rimasto di merda sul finale.
Ma come? Ma no. Ma sì, cioè… okay, non ho capito qualcosa io? Eppure era giusto succedesse quel che stava succedendo, mi pare, a Milton, il protagonista… mi sembrava una chiusura triste, doverosa e perfetta… forse, mi dicevo, sono io che non ho capito qualcosa? Mi sono perso qualcosa? No.
Ho anche riletto, le ultime pagine, e non mi ero perso niente.
Poi ho scoperto, andando a scannare un pezzo di libro che mi serviva, che è pubblicato postumo.
Ah, okay, mi son detto, forse magari non l’aveva finito. E infatti, sulla wiki del romanzo, si dice proprio che il finale è controverso. Che non si sa, che potrebbe essere stato un romanzo incompiuto.
Ora… no. Secondo me, se fosse incompiuto, ci sarebbero delle imperfezioni altrove, piccole discrasie, piccole cose a aggiustare. E invece non mi pare sia così. Io non ce lo vedo un capitolo aggiuntivo. forse un po’ di più in questo ultimo, ma capitoli in più mi sembrerebbero fuori dalla sua struttura. 
O certo… non sappiamo con certezza che fine fa Giorgio, l’amico di Milton, rapito dai fascisti. Ma essendo passati un paio di giorni, anche tre, diciamo pure che possiamo immaginarlo…
E non sappiamo cosa capita a Milton, dopo essere finito in bocca a un commando di fascisti ed essersi fatto sparare da tutte le parti. Ma la domanda è… si è salvato veramente?
Insomma…. è un dubbio che vi dovete tenere, voi là fuori che decidete di leggere questo libro, sappiatelo. Ma è un dubbio che non deve demotivare: questo libro è bello, molto bello.
Cominciamo dall’inizio.
L’inizio dice che dopo aver letto il libro normale e piccolino, oramai lo sapete, alterno un classico. Del normale e piccolino, quello di Paolo Nori, ve ne ho già parlato, il classico che veniva prima era invece questo “Una questione privata” di Beppe Fenoglio. 
Ora, voi dovete sapere che io, per pescare tra i libri classici e/o belli, ho tre fonti.

  • I miei libri da leggere che ancora non ho letto (che ne so, qui ho tanta roba, tra cui sia dei 100PSF, sia quelli delle collane di Repubblica, del Messaggero Veneto, del Corriere… andiamo da Cormac Mc Charty alla Christie, da Saramago a M.R. James, da Dick a Buzzati…)
  • La libreria di scuola che ho costruito. Là ci sono edizioni poco convenzionali di libri che fa bene leggere a scuola, e tra di essi molti li ho presi perché li voglio leggere io (Lessico Famigliare, Colazione da Tiffani, Una storia semplice. Quer pasticciaccio…)
  • La libreria assurda che ho costruito nella mia casa vecchia, con libri stranissimi ma anche alcuni classiconi (da 1000 pagine di Storia della Cina, alla biografia di Casanova, a Racconti giapponesi, ai brani di Borges e Casares con Isidro, a tutti i Calvini più conosciuti, a Moravia, Camus…)
Ecco… per questo libro non ho pescato da nessuna delle tre! Eh, lo so. Ma vedete, l’ho rubato per metterlo nella fonte numero due, ché io, Fenoglio, lo vedo spesso scritto nei programmi scolastici di V, ma poi mi son detto… Eccazz, è corto! Magari fa schifo, ma se lo fanno a scuola, qualcosa di buono c’è, e alla peggio lo uso per dare dei compiti. E così l’ho aperto per vedere di cosa parlava, e ho scoperto che Calvino adorava questo libro. Ah be’, mi son detto: se piace a Italo, dev’essere bello per forza. E così è stato: è un ottimo, ottimo romanzo, a metà strada tra la storia d’amore e il romanzo storico.

Perché sì, se dovete farvi un’idea migliore di come fosse la guerra tra i partigiani nel ’42, ecco, questo è il libro giusto. Forse il libro perfetto. La guerra è  vista dal di dentro, ma è comunque contesto, contorno, colore e ombra, e mai, come potrebbe essere in un romanzo storico, personaggio.
La condanna e il pacifismo che trasudano le pagine sono riflessi, non sono protagonisti.
Qui c’è Milton, l’eroe, e la questione privata è quella che deve risolvere con Giorgio, l’amico di sempre, con cui è cresciuto, ricco, viziato, ma partigiano anche lui, entrambi tra i badogliani, ed entrambi che – prima della guerra – frequentavano casa di Fulvia, una ragazzina, bella, bellissima, a modo suo delicata, viva… e insomma, si sa, l’amore è strano e diverso.
Già, perché Milton ama Fulvia e benché lui sia quello brutto, quello timido, quello che non balla, quello che traduce poesie dall’inglese, quello ombroso, ecco, c’è un rapporto speciale, tra i due. Aspettate, vi lascia un passaggio, tra quelli dell’inizio, nelle analessi, dove si mostra la vita prima del conflitto, a casa di lei.

Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. L’aveva chiamato su perché le traducesse i versi di Deep Purple. Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnò al cancello. «Potrò vederti, – domandò lui, – domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no». «Ma ci vieni ogni mattina, – protestò, – e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in città non siamo nel nostro centro». «E qui potrò tornare?» «Lo dovrai». «Quando?» «Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolò di fronte all’enormità, alla invalicabilità di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza? «Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu però nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?» «Certo una lettera. Scrivimela di notte». «Sì, ma che lettera?» «Una lettera». E così Milton aveva fatto e al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono… discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farò la prima volta che andrò a Torino? Comprerò un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverò tutte e mai nessuno le vedrà. Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età». E lui non potè dir niente, oppresso dall’ombra della terribile possibilità che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue. «La prossima lettera come la comincerai? – aveva proseguito lei. – Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?». «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?» <Sei tutto lo splendore». «Tu, tu, tu, – fece lei, – tu hai una maniera di metter fuori le parole… Ad esempio, è stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volti». «Non è strano. Non c’era splendore prima di te». «Bugiardo! – mormorò lei dopo un attimo, – guarda che bel sole meraviglioso!» E alzatasi di scatto corse al margine del vialetto, di fronte al sole.

Bello, vero? 
Amori d’altri tempi, lo so. E figuratevi cosa succede quando Milton scopre, visitando la vecchia casa, in fretta e furia, ché non li beccassero i fascisti, che lei usciva – a quanto pare – con Giorgio. Sapere la verità, sapere cosa e quanto c’era, tra i due, perché insomma… la guerra è una cosa che non si fa, per lui, e se devi farla, può essere solo perché hai voglia d’amare così tanto da volerla far finire e vincerla, questa guerra. Per Fulvia, più che per la nazione. E la questione con Giorgio, privata, privatissima, questa sì che merita rischiare, sparare, uccidere persino, se tocca.
Bene. Questa la storia. Un viaggio, quello di Milton, che lo forma e parecchio, soprattutto per il suo modo di cogliere e intendere la vita, l’amore, l’essenza del sentimento quando l’oggetto che lo provoca è lontano, e per quanto ne sa, potrebbe rimaner tale per sempre. In fin dei conti è molto umano, e molto maschile, questo amore perduto potenziale miltoniano. 
Ecco perché dico che qui, la guerra, è solo colore, contorno, sfondo, ombra. Noi la viviamo da dentro questa storia, il nostro disappunto iniziale, quando i rossi ammazzano i prigionieri fascisti quasi subito, privandosi di merce di scambio, è un disappunto soprattutto per Milton, ché vogliamo che la risolva, quella questione, vogliamo sapere e soprattutto vogliamo capire quanto è, questo amore. Se è tale da vincere una guerra o da cedere a essa. Ecco…
Vediamo, per esempio dove cogliete queste ombre.
Torno a ripescare un pezzo di libro, così voi leggete, che è molto bello, è.

Milton sbirciò
Sceriffo. Ora era grigiastro. Ma, pensava Milton, non era per il destino di
Giorgio, ma solo per il ter
rore retroattivo dei nemici sparsi a centinaia
nel nebbione, e lui Sceriffo che li passava in cieca rivista, tranquillo, in­cosciente,
tutto assorbito dal frullo di un uccello sperduto.
– Povero Giorgio, – biascicò Sceriffo. – Che porca ulti­ma notte si è passato. Chissà come
sta male. Avrà ancora quelle nocciole sullo stomaco.
– Forse è già tutto finito per
lui, – disse un tale alle spal­le di Milton.
– Piantatela, – disse Pascal, mentre il telefono squillava. Era
Diaz in persona. No, non aveva prigionieri. – I miei serpenti, – disse, – non
beccano da un mese
-. Ricordava benissimo
il biondo Giorgio e gliene rincresceva, ma non aveva uno straccio di
prigioniero.
Un partigiano col pizzetto, che Milton vedeva per la prima volta,
domand
ò in giro dove lo
facessero in Alba.
Rispose Frank: – Qua e là. Il più delle volte contro il muro del cimitero. Ma anche contro
la scarpata della fer­rovia o in un punto qualsiasi della circonvallazione.
– Non buono a sapersi, – disse quello col pizzetto. E si risentì. – Per me rose bianche.Morgan parlava già.
– Fottuted boys. Non ne ho. Chi era questo Giorgio? Dio sergente, vedi come
capita. Tre giorni fa ne avevo uno, ma ho dovuto smistarlo alla divi­sione. Era
un pulcino bagnato, e poi si rivelò un buffone di prima forza. Una rivelazione.
Ci fece spanciare per tutta la giornata che passò con noi. Pascal, l’avessi
visto imitare Totò e Macario. L’avessi visto suonare tutta una batteria in­visibile.
Lo spedii alla divisione raccomandando di non scorciarlo, ma lo sotterrarono
nella notte. Vedi come capi­ta, Dio sergente! Chi era questo Giorgio? 
– Un bel biondo, – rispose Pascal. – Se ne pigli uno fre­sco
fresco, non lo scorciare, Morgan, e non lo smistare nemmeno alla divisione.
Sono già d’accordo con Pan. Mandamelo in macchina.
Pascal agganciò
e vide Milton che premeva verso l’uscita.
– Dove vai?– Torno a Treiso, – rispose voltandosi a metà.– Resta a mangiare con noi. Che parti adesso per Treiso a fare?– A Treiso si sa prima.– Che cosa?Ma Milton si era già avventato fuori. Ma fuori cozzò in un’altra ressa. Facevano
cerchio serrato intorno a Cobra il quale si era accuratamente rimboccato le
maniche fin sui potenti bicipiti e ora si curvava verso un immaginario cati­no.
– Guardate, – diceva, – guardate tutti quel che farò se ammazzano Giorgio. Il
mio amico, il mio compagno, il mio fratello Giorgio. Guardate. Il primo che
beccherò… mi vo­glio lavar le mani nel suo sangue. Così -. E si curvava sul­l’immaginario
catino e immergeva le mani e poi se le stro­finava con una cura e una morbidità
spaventevoli. – Così. E non solo le mani. Ma anche le braccia voglio lavarmi
nel suo sangue -. E ripeteva l’operazione di prima sull’avam­braccio e sul
lacerto. – Così. Guardate. Se ammazzano il mio fratello Giorgio -. Parlava
con la stessa morbidità e nettezza con cui si lavava, ma in ultimo scoppiò in
un urlo altissimo: – Voglio il loro sangue! Voglio entrare nel loro sangue fino
alle ascelleeeee!

Milton partì di lì e si fermò non
prima dell’arco al prin­cipio del paese. Guardò lungo in direzione di Benevello
e Roddino. La nebbia si era sollevata dappertutto, in basso non ne restava che
qualche francobollo appiccicato sulla fronte nera delle colline. La pioggia
cadeva sottile e regola­re, senza disturbare minimamente la visibilità. Torse
la te­sta dall’altra parte e guardò in profondo verso Alba. Il cie­lo sulla
città era più cupo che altrove, decisamente violet­to, segno di una pioggia
molto più violenta. Pioveva a di­rotto su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio
già cadavere,
pioveva a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre. «Non potrò saperlo mai più.
Me ne andrò sen­za sapere».

Bello vero? Cioè… sei dentro, più che altro, dentro lì, in quella guerra.
Vi scannerei, quasi quasi, anche un altro pezzo, dove invece si tocca davvero la critica alla crudeltà del conflitto. Perché lo sapete che c’era la fucilazione vendicativa, e a volte, ci andava di mezzo chi c’era, anche i messaggeri, i ragazzini, 12-13 anni, che non sapevano nemmeno bene cosa stavano facendo, quando gli dicevano di portare un messaggio ai partigiani, eppure…
Ma non serve che vi scanno niente. Ho trovato tutto il libro uploadato in pdf sul sito della scuola per cui sto lavorando ora, dove sarò tra esattamente 3 ore, a far lezione. Non so se si può, ma metti che vi serve, eccovi il link. Dal quale copio il pezzo che mi interessa… una paginetta, bellissima. Sa tanto di libro cuore, ma crudo, e vero, e non retorico e gnegnoso.

– Avanti, Riccio, coraggio.
– No. Io ho solo quattordici anni. E voglio veder mia madre. O mamma. No, è troppo grossa.
L’ufficiale sguardò i tre soldati. Due, capí, la volevano presto finita, per pietà, l’altro, lo fissava tra il sarcastico e il furioso, pareva dirgli: – A noi non fanno tante cerimonie, a noi semmai fanno un prologo di sarcasmo e a questo tu stai facendo un prologo di compassione.
Bell’ufficiale. Ma tu sei di quelli che già pensano che abbiamo torto e che siamo finiti. Ma, e noi? Noi soldati del Duce nasciamo forse dalle pietre o dalle piante?
– Avanti, forza, – ripeté il tenente, adocchiando il terzo soldato che si era aperto in grembo come a ricevere Riccio, al contrario ed identicamente ad una madre.
– No, – rispose Riccio sempre piú calmo. – Io ho solo quat…
Allora il tenente serrò gli occhi e lo urtò forte nella spalla e Riccio piombò in grembo al soldato e gli altri due gli si serrarono addosso come un coperchio. Cosí soffocavano anche le sue grida e da quel viluppo non uscivano che le gambe sospese e mulinanti del ragazzino.
Cosí andavano verso la porta carraja e il tenente li seguiva coi piedi di piombo. – assassini!Mamma!Questi mi ammazzano!Mamma!– si sentiva distintamente urlare Riccio.
Non arrivavano mai a quella maledetta porta carraja, il sergente doveva già essere appostato perché la porta si socchiuse per una pressione dall’esterno. All’improvviso quel viluppo si disfece come se una
bomba dirompente vi fosse esplosa nel centro e nel vuoto apparve Riccio, quasi seminudo, e fissava l’ufficiale, col dito puntato.
– Non mi toccate!– urlò ai soldati che gli si ristringevano addosso. – Vado da solo. Ma non mettetemi piú le mani addosso. Vado da solo. Se fucilate anche Bellini, con chi starei io in questa vostra maledetta caserma?

Bene. Lo so… vi ho riportato troppe cose. Ma a volte parli parli e dici che un libro è bello e magari non si capisce bene cosa intendi. Questo libro è denso e vero, eppure è un gran bel prodotto letterario. 
Per come è strutturato, un romanzo breve teso, vivace, con un plot classico ma non scontato, senza momenti morti e con l’introspezione mescolata ai fatti, ai sentimenti, al paesaggio, alle Langhe (le stesse di Pavese, tant’è che parte si svolge a Canelli e c’è il Belbo, a portar via il sangue) è davvero un buon prodotto letterario e forse è svilito, temo, dall’essere scritto da un ex partigiano e dall’essere autobiografico, sicuramente.
Concludo dai, che ho da fare altro. 
Vi dico delle cose.
La moglie di Fenoglio è morta un paio di anni fa, nel 2012. Gli è sopravvissuta 50 anni. Lui invece è morto a 41. Com’è? Tubercolosi, cancro ai polmoni. Fumava tanto, tantissimo.
E onestamente, dove aver letto questo libro, dove le sigarette sono presenti in ogni pagina, dove sono il bene primario, dove sono moneta e personaggio, ecco, be’, come possiamo dire che non sia stata la guerra a uccidere Fenoglio?
L’altra cosa è di nuovo riguardante il romanzo, i personaggi.
L’amicizia, l’amore, la disperazione, la rabbia, l’odio, l’ottusità, la pena, il dolore, la bontà… c’è tutto, in questo libro. E tutto è gestito fra i personaggi in modo denso. Sono tanti, e le pagine sono poche, eppure noi finiamo per conoscerli tutti, e non solo Milton, Giorgio e Fulvia. No, anzi… Altri ci restano ancora più impressi. La maestra, Riccio, Alonzo, la vecchia che aiuta, Leo, Cobra… persino Diaz, diamine, anche se solo con una battuta al telefono; non ti rendi conto di com’era la guerra leggendo un libro di storia. In queste pagine sì.
Il difetto è quel finale. Non ci sta. no, proprio no. Sia ché si intenda un passaggio onirico, con Milton che muore ma da morto pensa di salvarsi, sia con Milton che davvero e incredibilmente si salva. 
Sarà pure triste, ma i fili devono restare aperti, perché è in linea con ciò che fa la guerra: recidere.
E poi basta, suvvia. Vi ho tediato tantissimo. 
Io son stanco, sto leggendo un libro brutto, e sono indeciso sul prossimo classico…. Potrei azzardare il pasticciaccio di Gadda, o la Ginzburg, non so… oppure Capote, che è corto. Oppure Brancati, altrettanto corto, ma ho appena finito Sciascia e non voglio restare in Sicilia. Suggerimenti? 
Vi lascio e vedo di preparare qualche lezione va. Oppure non so… anche ronfare, potrebbe farmi bene, ma tanto so che non lo farò.

Comments

  • 3 Dicembre 2014

    Concordo su tutto. Bello bello bello.

    reply
    • 4 Dicembre 2014

      🙂
      È stato una caso, ho aggiornato il blog dopo mesi e girando sulla bacheca di blogger ho visto che si parlava di un libro che ho amato molto, e quindi…

      reply
  • 4 Dicembre 2014

    Concordo su tutto con ciò che hai scritto, libro davvero bellissimo ma quel finale "sopseso" lascia un pò l'amaro in bocca…

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