
"Trilogia della città di K" di Agota Kristof****
Tardi abbastanza per andare a dormire. Sono le due meno un quarto. Di una giornata, poi, che ne ho fatte 12, di ore, e che siano più o meno faticose, alla fine, parlare per dodici ore è una cosa che paghi.
C’è qualcosa che esce da te, assieme alle parole.
E allora un bisogno di salvare qualcosa, a fine giornata, farsi una doccia, un caffè, ficcarsi una felpa addosso e andare a bere una birra e mezza, parlare di animalisti folli e crudelissimi, di nomi e semantica, di cose da cambiare… ecco, salvare qualcosa serve.
E pensare a cose belle, è anche questo salvare qualcosa.
La trilogia di K era un libro che comprai nel 2011. Ricordo ancora perché. Avevo vinto un concorso di poesia, avevo un buono in libri da acquistare. Acquista alcuni libri che mi interessavano, roba di criptozoologia e di folklore friulano che ancora non ho letto.
Poi vagai un po’ accazzo, perché il buono aveva una scadenza, e tra le cose che, ricordo, acquistai quest’opera di Agota Kristof.
Me ne avevano parlato bene, e prima o poi l’avrei letta, soprattutto pensando che – mi disse qualcuno – sono racconti, in qualche modo.
Era il giorno della sua morte, tra l’altro. Ricordo che pensai, scioccamente ma realisticamente, ecco, ora il mio acquisto finirà nella massa degli acquisti di chi ha comprato il libro perché è morto l’autore.
Che poi, aveva una certa età, la Kristof, e non poi ‘sta fama enorme, e quindi, forse non è accaduto.
Poi successe che mi capito un libro breve della Kristof, uno di racconti veri, minuscoli, fulminanti, deliziosi, per certi versi. Vendetta, si chiama, e già ve ne parlai, e anzi, se cliccate potete leggerne uno, di questi racconti, mi pare.
E poi succede anche che mi ricordo che era stata Cristina a dirmi che era un libro tra i suoi preferiti, e io e Cristina non abbiamo propriamente gli stessi gusti. Strumm… poi, si è aggiunto al coro dei sì dicendomi che La trilogia della città di K entra nella sua top ten.
Tre indizi fanno una prova, no? E allora ecco che nella mia lista di cose prima di morire, fatta di classici e libri importanti, che ne hanno e si sa che ne hanno, insomma, ecco che me la sono letta anche io, la trilogia.
E ve ne parlo, ora, che è tardi, anzi, tardissimo, e che la stanchezza mi si è gettata contro come una martire e io, per non salvarla e lasciarle gloria, sto mangiando nutella a cucchiai, ho mangiato una crema gialla di un dolce che pareva budino e sono da reduce da una cena abbuffante, che è quella cena che si fa quando torni a casa tanto affamato da non avere più fame e il corpo mangia in crisi bulimica tutto ciò che incontra, prima di capire che lo incontra.
Stasera, per dire, ho mangiato biscotti al formaggio, minestra, salsiccia, sgombro, palline cinesi piccanti, noci sgusciate e poi boh, basta direi.Solo che li ho mangiati alternati.
Resta che adesso sto cercando di tornare sulla Kristof,
Mi è piaciuto. Mi è piaciuto tanto, questo libro.
Quando l’ho finito, all’ultima pagina, ma già alle ultime, ed era chiaro l’inganno, anzi, gli inganni, ecco che già avevo una certo voglia di rileggerlo. Di ripensare e rivedere dove sono stato ingannato così piacevolmente e dolcemente. Perché sono tre storie, e sono storie che si leggo dall’esterno all’interno, ma mentre entri dentro ti cambiano anche l’esterno che hai appena letto.
Difficile da spiegare. E’ un libro che agisce per detrazione.
La prima, della trilogia, è la storia perfetta. Due bambini, gemelli, incredibili. Perfidi, stoici, inseparabili, inquietanti, ma anche teneri, nel loro essere privi di sentimenti. Entrano e crescono nella guerra, in un paese dell’est, non serve dire quale, ma un paese dell’est in guerra, sul confine, dove ciò che resta sono i vecchi, un paese vuoto, il prete, le donne, altri bambini, la povertà.
E la Nonna, personaggio cardine, attorno a cui la vita dei gemelli orbita, mentre loro fanno gli esercizi per sopportare la vita. Si picchiano, non mangiano, non parlano, per sopportare il dolore, la fame, la solitudine… Ecco. Sono perfetti, questi racconti, che costruiscono il racconto. Senza nomi, senza sentimenti all’interno ma che ne causano tantissimi in chi legge.
Ma adesso basta,… troppo tardi, andrò avanti domani….
a qualcosa di bello, questa verità detrattiva, ho pensato.
E siamo domani, e sono le 14.09 e io alle 15 devo andare a rip e dopo il rip a rubare un libro, spero, e dopo aver rubato un libro a lavoro per tre ore, e dopo quelle se son vivo vorrei andare a mangiare il panino gigante, se avrò forze e tempo e sperando non costi la lira di dio, strumento introvabile e quindi costosissimo. Insomma… ho una mezzora per finire questo post, e lo voglio finire, per mettere via il libro con giuoia.
Dicevo… pezzi perfetti, quelli del primo libro. Io credo a molto giovi anche la lingua, che è l’inglese, che non è la mother tongue dell’Agota, e questo, forse, l’ha portata a una prosa semplice, con delle strutture fisse, molto musicali, lapidaria. Un uso bello di paratassi su tutta la linea. Rubo da wikiquote un pezzetto, che vi lascio qui, per capire.
Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:– Non fa male.Colpiamo più forte, sempre più forte. Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:– Non fa male.Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre. Non piangiamo più.
E questo è per quanto riguarda l’innominata prosa de “Il Grande Quaderno“, che poi è il nome di questo primo lavoro della trilogia. Innominata perché qui a parlare è la prima persona plurale dei gemelli, senza nome, e senza nome sono anche tutti gli altri: la Nonna, la Madre, il Padre, l’attendente, il prete, labbro leporino… Una galassia immersa nelle spazio bellico, dell’est europa. Forse è Budapest, la grande città dove la madre se n’è andata, non sappiamo, ma non è importante.
Ho voglia di scannarvi qualcosa, per mostravi certe cose.
Sesso e violenza e mancanza di sentimenti. Vediamo se trovo un passaggio che ha tutto questo….
Andiamo dal curato. Abita di fianco alla chiesa in una grande casa che si chiama canonica.
Tiriamo la corda del campanello. Una vecchia apre la porta:
– Che cosa volete ?
– Vogliamo vedere il signor curato.– Perché?– E per uno che sta per morire.La vecchia ci fa entrare in un’anticamera. Bussa a una porta.– Signor curato, – grida, – è per un’estrema unzione. Una voce risponde da dietro la porta:– Arrivo. Dica che mi aspettino.Aspettiamo qualche minuto. Un uomo alto e magro, dal volto severo, esce dalla camera. Ha una specie di mantello bianco e dorato sugli abiti scuri. Ci domanda:– Dov’è? Chi vi ha mandati?– Labbro-leporino e sua madre. Dice:– Ditemi il nome esatto di queste persone.– Non conosciamo il nome esatto. La madre è cieca e sorda. Abitano nell’ultima casa del villaggio. Stanno per morire di freddo e di fame.Il curato dice:– Anche se non conosco assolutamente queste persone sono pronto a dar loro l’estrema unzione. Andiamo. Accompagnatemi.Diciamo:– Non hanno ancora bisogno dell’estrema unzione. Hanno bisogno di soldi. Abbiamo portato loro della legna, qualche patata e dei fagioli secchi, ma non possiamo fare di più. Labbro-leporino ci ha mandato qui. Lei a volte le ha dato dei soldi.Il curato dice:– È possibile. Do dei soldi a molti poveri. Non posso ricordarmi di tutti. Prendete!Fruga nelle tasche sotto il mantello e ci da qualche moneta. Le prendiamole diciamo:– E poco. E troppo poco. Non basta nemmeno per comprare un tozzo di pane.Dice:– Mi dispiace. Ci sono molti poveri. E i fedeli non fanno quasi più offerte. Tutti sono in difficoltà in questo momento. Andatevene, e che Dio vi benedica !Diciamo:– Possiamo accontentarci di questa somma per oggi, ma saremo costretti a ritornare domani.– Come ? Cosa vuoi dire ? Domani ? Non vi lascerò entrare. Uscite di qua immediatamente.– Domani suoneremo fino a che non ci lascerà entrare. Batteremo alle finestre, daremo dei calci alla porta e racconteremo a tutti quello che faceva a Labbro-leporino.– Non ho mai fatto niente a Labbro-leporino. Non so nemmeno chi sia. Vi ha raccontato delle cose che si è inventata. Le chiacchiere di una monella ritardata non verranno mai prese sul serio. Nessuno vi crederà. Tutto quello che racconta è falso!Diciamo:– Poco importa che sia vero o falso. L’essenziale è la calunnia. La gente ama lo scandalo.Il curato si siede, si asciuga il volto con un fazzoletto.– È mostruoso. Avete anche solo un’idea di quello che state facendo ?– Sì, signore. Un ricatto.– Alla vostra età… E deplorevole.– Sì, è deplorevole che siamo obbligati ad arrivare a tanto. Ma Labbro-leporino e sua madre hanno assolutamente bisogno di soldi.Il curato si alza, si toglie il mantello e dice:– E una prova che Dio mi manda. Quanto volete? Non sono ricco.– Dieci volte la somma che ci ha dato. Una volta la settimana. Non le chiediamo l’impossibile.Prende i soldi di tasca, ce li da:– Venite ogni sabato. Ma non pensate che lo faccia per cedere al vostro ricatto. Lo faccio per carità.Diciamo:– E esattamente quello che ci aspettavamo da lei, signor curato.
Ecco. Il pezzo si chiama “Il curato” e chiaramente si trombava, per soldi, una povera disgraziata che chiaramente era pure un po’ zoccola, ma per disperazione. C’è un po’ tutto. La freddezza, cattiveria prima di emozione, con cui i gemelli agiscono mi ricorda quel film là, il villaggio dei dannati, quello coi bambini biondi dallo spazio e gli occhi fosforescenti. Questi due sono anche peggio.
Poi c’è il secondo pezzo, La prova, che è poi quella con cui Lucas, ecco il nome di uno dei due gemelli, vive senza l’altro, essendosi separati. Siamo sempre in guerra, siamo in un regime, siamo in mezzo a violenze e crimini politici. Ma la vita, nel villaggio, è ancora strana. Si popola di personaggi nuovi, Victor, Clara, Mathias. C’è tanta, tanta tristezza.
Le storie, più sembrano vere, più diventano tristi. Se questa era mitigata, con i gemelli adolescenti, la vita di uno di essi, Lucas, è sempre peggiore via via che vive. Trova un’amante, si prende in casa un bambino deforme… ama, in un certo senso. E arriva la sofferenza. O meglio, c’è sempre stata, ma qui diventa visibile.
E poi si chiude, con La terza menzogna, e qui si ribaltano molte cose. La verità è brutta. La verità è più noiosa, la verità è pure malinconica, se non proprio crudele. Ecco… arrivi alla fine che una certezza del tutto non ce l’hai, su come stanno veramente le cose. Se stanno proprio come te le raccontavano i precedenti due racconti della trilogia. Anche perché qua arriva il partito, il comunismo del blocco orientale, le assurdità e cattiverie, la libertà scomparsa dentro quella apparente. E forse si potrebbe dire che è il meno riuscito, il terzo capitolo, ma non è vero. E’ semplicemente quello dove dentro c’è più verità.
E io dico che la chiudo così, con queste considerazione.
Ce ne sarebbe da dire, eh. Molto.
Alla fine sono libri come questi che fanno bene. Perché pur essendo una storia, una bella storia, cruda e terrificante, ma anche tenera, a sprazzi, come lampi, è anche una storia di guerra (come dimenticare la nonna, la strega, che ha avvelenato il marito, che chiama i nipoti figli di cagna, che li tratta come bestie, che non si lava, odia tutto, ma, come dimenticare quel suo inciampare col cesto di mele proprio quando passano i deportati, prendendosi un calcio di fucile in piena fronte e rischiando di restarci ma, con una frase, un moto di godimenti per essere riusciti a farne prendere qualcuna, ai poveretti, riabilitare totalmente il suo personaggio.)
E’ tutto. Lo ripongo. Non lo rileggerò. Se muoio nel ’15 devo leggere un sacco d’altra roba storica, ma questo, comunque, è un libro che non darò via. E’ bello averlo, tenerlo, poterlo rileggere.