"La luna e i falò" di Cesare Pavese*****
Fu una di quelle notti che sentii raccontare di Nuto. Da un uomo che veniva da Bubbio. Lo capii dalla statura e dal passo, prima ancora che aprisse bocca. Portava un camion di legname e, mentre fuori gli facevano il pieno della benzina, lui mi chiese una birra.
— Sarebbe meglio una bottiglia, — dissi in dialetto, a labbra strette.
Gli risero gli occhi e mi guardò. Parlammo tutta la sera, fin che da fuori non sfiatarono il clacson. Nora, dalla cassa, tendeva l’orecchio, si agitava, ma Nora non era mai stata nell’Alessandrino e non capiva. Versai perfino al mio amico una tazza di whisky proibito. Mi raccontò che lui a casa aveva fatto il conducente, i paesi dove aveva girato, perché era venuto in America. — Ma se sapevo che si beve questa roba… Mica da dire, riscalda, ma un vino da pasto non c’è…— Non c’è niente, — gli dissi, — è come la luna.[…]Quella notte, prima di scendere a Oakland, andai a fumare una sigaretta sull’erba, lontano dalla strada dove passavano le macchine, sul ciglione vuoto. Non c’era luna ma un mare di stelle, tante quante le voci dei rospi e dei grilli. Quella notte, se anche Nora si fosse lasciata rovesciare sull’erba, non mi sarebbe bastato. I rospi non avrebbero smesso di urlare, né le automobili di buttarsi per la discesa accelerando, né l’America di finire con quella strada, con quelle città illuminate sotto la costa. Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che come Nora e gli avventori mi facevano paura. Le uova al lardo, le buone paghe, le arance grosse come angurie, non erano niente, somigliavano a quei grilli e a quei rospi. Valeva la pena esser venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?Adesso sapevo perché ogni tanto sulle strade si trovava una ragazza strangolata in un’automobile, o dentro una stanza o in fondo a un vicolo. Che anche loro, questa gente, avesse voglia di buttarsi sull’erba, di andare d’accordo coi rospi, di esser padrona di un pezzo di terra quant’è lunga una donna, e dormirci davvero, senza paura? Eppure il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, aiuole finte come quelle delle stazioni, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. Non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: “Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere”. Era questo che faceva paura. Neanche tra loro non si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lì si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. Per questo un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto. E avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. Veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.Nora mi chiamò dalla strada, per andare in città. Aveva una voce, in distanza, come quella dei grilli. Mi scappò da ridere, all’idea se avesse saputo quel che pensavo. Ma queste cose non si dicono a nessuno, non serve. Un bel mattino non mi avrebbe più visto, ecco tutto. Ma dove andare? Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.
- Il romanzo è del ’50, scritto nell’autunno dell’anno prima, poco dopo la sua uscita Pavese si è suicidato, e il male di vivere, la depressione, la difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, ci sono, in questo libro, in molte righe. Sia da parte di Anguilla, soprattutto, ma anche in altri personaggi minori.
- Pavese vede questo romanzo come una “modesta” divina commedia, Anguilla è Dante e Nuto, l’amico di gioventù, il suo Virgilio. Il primo ha viaggiato, povero e orfano dalle langhe piemontesi fino in America, facendo fortuna e vedendo il mondo. L’altro invece è r
imasto sempre lì, ha conosciuto il suo mondo, ha una famiglia, un lavoro, suonava ma ora fa il falegname e a modo suo è di idee altrettanto aperte, - Il romanzo attraverso continue analessi salta tra presente e passato, ci racconta un grande grappoli di avvenimenti, mescolati, un acino vicino all’altro, e alla fine tutti i fili tornano perfettamente, ogni personaggio ha il suo posto. Si parla di Ritorno, di nostalgia, di malinconia, ma anche delle piccole cose, dei profumi, dei rapporti umani, del tempo che cambia e non cambia. Insomma… delle cose della vita, di tutte le vite.
Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero[1] io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina — e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna — e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo — tutto succede come a noi. Dev’essere per forza così. I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, danno il grano all’ammasso, le ragazze fumano — eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così — quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l’osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.
- al di là di tutte le etichette che scolasticamente si danno, neorealismo blablabla, o cose che io non so, vi posso dire invece che è un vero quadro, questo romanzo, fatto di tante piccole pennellate precise, non diluite, senza sfumature ma con tantissime, centinaia o forse migliaia, tonalità di colore. Vi leggete soprattutto la vita campagnola della valle del Bembo e il contesto storico pre e post guerra mondiale.
- E’ vero che si parla di fascisti, e guerra, e comunisti, e preti, e religione, e ignoranza della gente, ma queste cose sono come messe in secondo piano, o meglio, sono un sipario trasparente… filtrano la vita dei personaggi e noi vi guardiamo attraverso e scopriamo le loro storie.
- Oltre a Nuto e ad Anguilla ci sono personaggi fondamentali e dipinti benissimo sia nel presente sia nel passato. Cinto, il ragazzetto zoppo in cui Anguilla rivede sè stesso, è un seme delicato e rovinato, figlio del tempo cattivo, della terra secca e arida in cui cresce, ma che ha cose buone, dentro, che può essere salvato… Le donne invece sono personaggi ambigui, personaggi complessi, difficili, sfortunati, soprattutto. Santina, la più giovane delle tre sorelle da cui Anguilla viveva, è davvero il cuore della parte finale del romanzo. Bellissima e falsa, opportunista eppure verissima… incomprensibile, anche. Un bellissimo personaggio.
- La luna e i falò non è solo il titolo, ma è un filo che lega tutto. I falò sono quelli di San Giovanni, ma anche i roghi di guerra, ma anche l’incendio che distrugge la vecchia dimora di Anguilla… e la luna è personaggio sia quando c’è, quando illumina, sia quando non c’è, quando lascia spazio alle stelle, o al buio.
- E’ un romanzo sulle radici, questo. E tanto più amate le vostre, tanto più vi piacerà.