"Piccolo elogio della non appartenenza" di Michele Zacchigna****

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"Piccolo elogio della non appartenenza" di Michele Zacchigna****

Ti capita che ti diano dei libri, tipo senza motivo, tipo “toh, leggi questo” e te li prendi, e pensi che magari, il tempo, lo trovi, visto che sono piccoli.
E in effetti, questo elogio della non appartenenza, di Michele Zacchigna, è breve: delle 59 pagine, l’elogio va dalla 9 alla 41. lasciando ciò che resta a un breve glossario e a una meno breve e molto azzeccata post-fazione di Paolo Cammarosano, che con l’autore (è mancato nel 2008) ci ha lavorato.
E invece il libro non è breve.
Due, i motivi: uno suo, uno mio.
Il suo è la densità.
Dei concetti, e dei modi, e anche del respiro, dell’emotività che contiene, che bene o male ti porta a rileggere, certi passaggi.
Vediamo, ora apro e cerco un passaggio di questa densità… in realtà sono questi tutti così.
Ecco, Il trasloco, è il titolo del capitoletto.

Finimmo in un quartiere di periferia: piccola borghesia impiegatizia di orientamento democristiano e case popolari. Ma il trapianto rimase sempre incompiuto, come avvelenato dal miraggio di un “altrove” irrinunciabile, in grado di placare le miserie subite attraverso l’irrompere meraviglioso di una felicità rigenerante. Si continuò a respirare, insomma, un’aria instabile e densa di aspettative, immaginando l’eventualità di un riscatto collocato fuori dalle prosaiche strettoie del presente. Si respirava anche perbenismo eli poco prezzo: messa domenicale, senso della famiglia, rispetto delle autorità. In quel contesto “bianco” un terzetto istriano così scompaginato aveva poche speranze di integrazione.

Dicevo, quindi, che è denso, da leggere, e infatti, non era proprio un libercolo da un pomeriggio di relax. Secondo motivo per cui è più lungo delle pagine che ha, è tutto mio. E’ uno di quei classici libri che – quando li incontro – ne riconosco il valore, ma non fa per me.
Vuoi perché non riesco mai a farmi affascinare dalle questioni di confine, dagli esodi, dalle persecuzioni, dalle integrazioni. Per me, tutto è mondo, e ogni volta che leggo di patria e patrie, mi pare di essere in un contesto di fantascienza… ma è un problema mio.

E dunque di che parla, questo librettino?
E’ un’autobiografia, narrata, con brevi frammenti, istantanee di vita, scritta da uno che lungo la vita non ha mai scritto narrativa, ma solo testi di storia medievale del Friuli (lavorava in ambito CERM).
E il sottotitolo è eloquente: una storia istriana.
Il senso? Non so… a me è rimasta un’idea positiva, nonostante alcuni passaggi – legati magari a ricordi di ciò che ora porta tristezza, come la figura forte del padre, o la morte della madre – dicevo, nonostante alcuni ricordi siano malinconici.
Eppure il messaggio che mi è lasciato è che non serve avere un dove, per appartenere a qualcosa. Per fare questo Zacchigna mescola vita personale a osservazione del particolare, autoesami a decadenza voluta. E alla fine sì, certo che gli manca, l’avere una terra, ma sembra anche che non sia quella, il vero problema. Anzi, vi cerco un altro pezzettino… toh, ecco come descrive Zia Antonia, che è una zia, sì, ma come personaggio è anche altro

Nel mese di giugno arrivava la zia Antonia, con l’Alfa Romeo di colore rosso. Si narra che la sua bellezza giovanile avesse conturbato un ufficiale della finanza capitato per caso fra i litorali istriani. Strappata alla terra natia, la giovane contadina aveva avvicinato con disinvoltura una collocazione borghese, sperimentando orizzonti francamente preclusi al resto della famiglia. Quella seconda natura le stava a-pennel-lo, ma il parentado rimasto fedele alle matrici originarie non riuscì a perdonarle il tradimento. 

bene, capito più o meno come butta? Io no, ma non importa. Ho sonno e direi di chiuderlo qui, questo post, e restituire il libro. 🙂

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