“Ti sento, Giuditta e altri racconti” di Piero Chiara****

“Ti sento, Giuditta e altri racconti” di Piero Chiara****

Inutile, mi piacciono di più le uscite dei Racconti d’Autore che hanno più raccontini, anziché uno solo. Anche qui, come nello scorso, c’è n’erano sette, e ve li andate a leggere nel post riassuntivo delle uscite ventiquattroriche, visto che son così bravo da tenerlo aggiornato.
Vi dicevo, l’altro post, che Piero Chiara non sapevo chi fosse e devo dire, con onestà, che è stata una scelta azzeccata.
Scrittore italiano o ancor di più di Luino (1913-1987), che scrive racconti con l’idea di saper bene cos’è un racconto e l’intento di raccontare, e che non mi pare granché conosciuto, per lo meno al grande pubblico.
Un’ottima scelta, davvero, sia per diffondere, sia per allietare.
E l’esser lieti, credo, sia una condizione che discende da queste letture, brani brevi che raccontano la vita di provincia attraverso fatti personali, semplici, molto umani, ben descritti, pieni di leggerezza.
E magari no, non quella calviniana, o forse sì, ma travestita proprio di leggerezza vera, insomma, di cose ed eventi che non hanno momenti di tensione anche quando potrebbero.Una ricerca del sorriso, ecco, che quando arriva non è mai malinconico. Ma di cosa ci parla?
Qualche esempio.
Nel racconto di apertura, Ti sento, Giuditta, in un brano brevissimo c’è molto: meraviglia, malinconia, la magia lacustre, gli odori della provincia. Come non innamorarsi di quello stare in piedi, schiena al lago, a farsi portare dal vento cose che stanno sull’altra sponda, e anche più lontano? 
Usa sempre la prima persona e parla di sì, Pierino, e qui, in questo racconto è un ragazzetto, mentre è adolescente fatto nel successivo, dove Il bombardino del signor Camillo è testimone di una delle sue prime esperienze sessuali nientemeno che con la moglie, di detto Camillo. E ora, certo, si sorride, nel modo in cui la cosa accade, ma mentre la racconta, dentro, tra le righe, c’è il paese, inteso come l’anti-città, dove le persone si conoscono, quello dove la gente mormora, ma anche dove c’è il piacere e l’essere avvezzi all’umanità, intesa come vicinanza di altri essere umani. 
E molto belli, e ironici, anche i due pezzi che vedono il nostro pierino sfuggire  a una trappola terribile (leggi matrimonio, va, anche se assai strano) e, nel secondo, Dal fondo della mia timidezza, metterlo in quel posto a un marito gelosissimo ma dalla moglie bellissima… 
Pieno di ricordi, poi, il racconto-ricordo su Turati e sul comizio che fece a Varese, inviato dal duce in vece sua, ai tempo dello squadrismo, che se da un lato ci fa ridere quasi, per la disavventura che capiterà al politico, dall’altro ci dà un’idea della gioventù dell’epoca e di come si vedeva il mondo, e il Duce, e un po’ tutto il periodo pre-guerra.
Anzi, vi devo, come sempre, dare un esempio di questa scrittura, anche se davanti al libretto c’è scritto che se riproduci in qualunque modo pezzi di questo libretto vengono e ti tagliano le unghie col trinciapollo dopo averti depilato con le fauci di un drago. 
Dunque… fatemi cercare….
Ecco ecco… il penultimo racconto, dove si scopre che a Luino ci sono ben 4 tenori in ritiro, e uno di questi è Chiappini, e di lui, con cui ha fatto amicizia, ci racconta un’aneddoto. Mi è piaciuta assai, per dire, la sua descrizione. E ancora più pieno di sfumature sarà il seguito…

Giocatore di maggiore accanimento dei frequentatori soliti del caffè, il Chiappini non tardò a cercar spazio alla sua passione e osò mettersi, con me, sulle tracce di una delle due o tre piccole bische clandestine che fiorivano in città. Passò, sempre in mia compagnia, dall’una all’altra, finché finì col giocare, alle ore piccole, nei locali superiori d’un caffè del centro. Il proprietario a mezzanotte abbassava la saracinesca e consentiva a un gruppo scelto di salire nel locale del biliardo a tenere un banco di chemin defer che spesso durava fino all’alba.
Andando sempre insieme da un banco di chemin de fer a un tavolo di poker o di cocincina, si saldò la nostra amicizia e venne il momento in cui il Chiappini mi autorizzò a dargli del tu, sebbene fosse commendatore ed avesse quasi trent’anni più di me.

La confidenza che era nata tra di noi, rinforzata dai prestiti reciproci dopo le serate di sfortuna, lo indusse un giorno a farmi parte di un suo segreto. Benché ultracinquantenne, brutto e mal chiomato, si era invaghito d’una ragazza di vent’anni che lo ricambiava pienamente. Purtroppo si trattava di persona molto sorvegliata, al punto che gli era riuscito, in un anno, di parlarle solo un paio di volte. Mi confidò che la giovane era figlia unica d’un suo cliente, un barbiere siciliano pericoloso più d’un serpente.
Secondo un suo progetto che principiò ad espormi, avrei dovuto indurre qualcuna delle ganze che certamente conoscevo, preferibilmente quella con la quale mi accompagnavo solitamente, ad entrare in amicizia con la sua innamorata, ad acquistare la fiducia del barbiere siciliano e ad ottenere di portarsene dietro la figlia in una passeggiata domenicale.
Per quanto difficoltoso, il progetto andò m porto e venne la domenica tanto sospirata. Su di un tram diretto in Valganna, mi trovai di lianco un Chiappini irriconoscibile. Vestito di scuro, con rumina e cravatta, pareva dimagrito nelle ansie di quell’attesa e ridotto a poco nei larghi abiti sopra i quali il suo laccione sembrava posato come un vaso. Si guardava attorno smarrito con i suoi occhi neri e rotondi annidali sotto la gronda cespugliosa dei sopraccigli, ma non osava volgersi verso lo scompartimento di testa della carrozza, dove viaggiavano le due ragazze con l’aria di andare in gita da una nonna di campagna. Non parlava, ma mi fissava teneramente, ancora incredulo davanti a tanta fortuna.

Poi, ecco, tanto per chiudere i racconti, nell’ultimo, 4 pagine esatte, si racconta un ricordo. Un ricordo della fine del mondo, e di come si è felici prima e si fa cagnara. E’ sempre Pierino, ottenne, che ci dice di come stette con suo fratello ad aspettarla, questa fine del mondo, con coraggio, davanti al campanile, ma tremando di paura. Premesso che questo pezzo, brevissimo, è davvero un gran racconto, e fosse per me ve lo scannerei tutto, ma non si fa, e allora vi scanno mezzo e avvoi vi resta la gola di vedere come finisce l’altro mezzo 🙂
Eccolo
L’inevitabile, sicura, per quanto lontanissima ora della morte, per ciascuno di noi è quella terribile ora che tutti c’immaginiamo. Ma una morte collettiva, generale, quale potrebbe verificarsi con l’abuso della forza atomica, c’è pericolo che finirebbe coll’essere quasi una festa. L’egoismo dell’uomo è tale, che i mali comuni sono – come dice il proverbio – un mezzo gaudio. I mali, sono veramente tali quando ci colpiscono singolarmente, consentendoci il confronto con l’immunità degli altri.
Che sia veramente così è provato dalle gran baldorie che si sono fatte in tutti i tempi quando si credette prossima la fine del mondo; per esempio ad ogni fine di secolo, o tutte le volte che qualcheduno riuscì a far credere che stava per scoccare l’ultima ora.
Di questi tempi si parla spesso di esplosioni che potrebbero estinguere la vita sulla terra, e di guerre che riuscirebbero distruttive per l’umanità intera; l’idea di una possibile fine del mondo torna ad affacciarsi, ma gli uomini sembrano impensierirsene fino ad un certo punto. Proprio per la ragione che ciò che tocca a tutti è facile a sopportarsi.
Così è sempre stato. E i vecchi, che ricordano la grande e quasi carnevalesca paura della fine del secolo scorso possono confermarlo. Mio padre, per esempio, che è nato nel 1867, e che nel 1899 era a Napoli, ricorda le mangiate del 31 dicembre di quell’anno. Ma ancora più vivo ha il ricordo di un’altra paura, forse circoscritta a pochi villaggi del Meridione, e che si diffuse nel suo paese nell’anno 1875, quando lui aveva otto anni soltanto. Anche allora all’avvicinarsi della fine dell’anno si era sparsa la voce che il 31 dicembre il mondo sarebbe andato in rovina,,proprio allo scoccare della mezzanotte. Perfino i più scettici se ne convinsero nel tardo pomeriggio di quel giorno; e tutti, uomini, donne e bambini, al venir della sera abbandonarono le case e se ne andarono a bivaccare nelle campagne intorno al paese. Forse per morire all’aperto o nella vaga speranza di scampare sottraendosi al crollo delle case, o semplicemente per l’abitudine ai terremoti. Andandosene per le campagne ogni famiglia si portò dietro tutto quello che aveva di più prezioso, ma specialmente il bestiame; e accesi dei grandi fuochi si cominciarono a scannare maiali, agnelli, capretti e pollame, e a far girare spiedi improvvisati. Botticelle di vino furono fatte rotolare per i campi e sventrate per inaffiare quelle mense notturne.
Racconta mio padre che il ciclo era stellato e l’aria tranquilla come se nulla dovesse accadere. Insieme ad un suo fratello già grande di nome Peppino ed altri giovani fatti audaci dall’inevitabilità del disastro, egli non era rimasto nei campi; ed un’ora prima di mezzanotte con quella compagnia era rientrato in paese. Il piccolo gruppo era deciso ad affrontare la fine del mondo nella piazza della chiesa. Traversate le strade deserte andarono a porsi nel mezzo della piazza, in un luogo dal quale era possibile decifrare l’ora del campanile.
Piace? Volete sapere come finisce? Il racconto si chiama Fine a mezzanotte, e vedete un po’ voi se lo trovate in giro, sennò mandatemi namail che vi mando le due pagine che mancano.
Poi… che dire? Che Piero Chiara era amico e coetaneo di Sereni? Che il suo libro famoso che ha figliato il film famoso è La stanza del Vescovo? Che è scappato in svizzera perché ha simpaticamente ficcato ” il busto di Mussolini nella gabbia degli imputati del tribunale in cui lavorava”? Che ha lavorato per anni in Friuli (Pontebba, Cividale), sempre nelle cancellerie del tribunale? Che recitava piccole parti compresa una nel film di Risi? No, dai, non vi dico niente.
Gli avevo messo tre stelline, ma rileggendo, tutti i racconti, ma proprio tutti, mi son piaciuti. E quattro stelline se le meritano tutte.
Prossima domenica c’è Virginia Woolf… siete avvertiti.

Comments

  • 5 Ottobre 2012

    Chiara, letto a suo tempo, è stato un grande.
    Questo è il motivo che non mi ha permesso di apprezzare un libro di Andrea Vitali letto per la prima volta quest'estate.

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    • 5 Ottobre 2012

      Capisco! Laddove qui era classe, là era furberia piaciona, anche se magari fatta bene. Però lasciami dire chi in vitali gli intenti erano molto più superficiali, molto più intrattenitivi. Qui si vuol proprio dipingere e pennellare, e gli obiettivi sono alti. Raggiunti, per altro. Bello, comunque. Da riscoprire.

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