“Ti sento, Giuditta e altri racconti” di Piero Chiara****
Giocatore di maggiore accanimento dei frequentatori soliti del caffè, il Chiappini non tardò a cercar spazio alla sua passione e osò mettersi, con me, sulle tracce di una delle due o tre piccole bische clandestine che fiorivano in città. Passò, sempre in mia compagnia, dall’una all’altra, finché finì col giocare, alle ore piccole, nei locali superiori d’un caffè del centro. Il proprietario a mezzanotte abbassava la saracinesca e consentiva a un gruppo scelto di salire nel locale del biliardo a tenere un banco di chemin defer che spesso durava fino all’alba.
Andando sempre insieme da un banco di chemin de fer a un tavolo di poker o di cocincina, si saldò la nostra amicizia e venne il momento in cui il Chiappini mi autorizzò a dargli del tu, sebbene fosse commendatore ed avesse quasi trent’anni più di me.
La confidenza che era nata tra di noi, rinforzata dai prestiti reciproci dopo le serate di sfortuna, lo indusse un giorno a farmi parte di un suo segreto. Benché ultracinquantenne, brutto e mal chiomato, si era invaghito d’una ragazza di vent’anni che lo ricambiava pienamente. Purtroppo si trattava di persona molto sorvegliata, al punto che gli era riuscito, in un anno, di parlarle solo un paio di volte. Mi confidò che la giovane era figlia unica d’un suo cliente, un barbiere siciliano pericoloso più d’un serpente.
Secondo un suo progetto che principiò ad espormi, avrei dovuto indurre qualcuna delle ganze che certamente conoscevo, preferibilmente quella con la quale mi accompagnavo solitamente, ad entrare in amicizia con la sua innamorata, ad acquistare la fiducia del barbiere siciliano e ad ottenere di portarsene dietro la figlia in una passeggiata domenicale.
Per quanto difficoltoso, il progetto andò m porto e venne la domenica tanto sospirata. Su di un tram diretto in Valganna, mi trovai di lianco un Chiappini irriconoscibile. Vestito di scuro, con rumina e cravatta, pareva dimagrito nelle ansie di quell’attesa e ridotto a poco nei larghi abiti sopra i quali il suo laccione sembrava posato come un vaso. Si guardava attorno smarrito con i suoi occhi neri e rotondi annidali sotto la gronda cespugliosa dei sopraccigli, ma non osava volgersi verso lo scompartimento di testa della carrozza, dove viaggiavano le due ragazze con l’aria di andare in gita da una nonna di campagna. Non parlava, ma mi fissava teneramente, ancora incredulo davanti a tanta fortuna.
L’inevitabile, sicura, per quanto lontanissima ora della morte, per ciascuno di noi è quella terribile ora che tutti c’immaginiamo. Ma una morte collettiva, generale, quale potrebbe verificarsi con l’abuso della forza atomica, c’è pericolo che finirebbe coll’essere quasi una festa. L’egoismo dell’uomo è tale, che i mali comuni sono – come dice il proverbio – un mezzo gaudio. I mali, sono veramente tali quando ci colpiscono singolarmente, consentendoci il confronto con l’immunità degli altri.
Che sia veramente così è provato dalle gran baldorie che si sono fatte in tutti i tempi quando si credette prossima la fine del mondo; per esempio ad ogni fine di secolo, o tutte le volte che qualcheduno riuscì a far credere che stava per scoccare l’ultima ora.
Di questi tempi si parla spesso di esplosioni che potrebbero estinguere la vita sulla terra, e di guerre che riuscirebbero distruttive per l’umanità intera; l’idea di una possibile fine del mondo torna ad affacciarsi, ma gli uomini sembrano impensierirsene fino ad un certo punto. Proprio per la ragione che ciò che tocca a tutti è facile a sopportarsi.
Così è sempre stato. E i vecchi, che ricordano la grande e quasi carnevalesca paura della fine del secolo scorso possono confermarlo. Mio padre, per esempio, che è nato nel 1867, e che nel 1899 era a Napoli, ricorda le mangiate del 31 dicembre di quell’anno. Ma ancora più vivo ha il ricordo di un’altra paura, forse circoscritta a pochi villaggi del Meridione, e che si diffuse nel suo paese nell’anno 1875, quando lui aveva otto anni soltanto. Anche allora all’avvicinarsi della fine dell’anno si era sparsa la voce che il 31 dicembre il mondo sarebbe andato in rovina,,proprio allo scoccare della mezzanotte. Perfino i più scettici se ne convinsero nel tardo pomeriggio di quel giorno; e tutti, uomini, donne e bambini, al venir della sera abbandonarono le case e se ne andarono a bivaccare nelle campagne intorno al paese. Forse per morire all’aperto o nella vaga speranza di scampare sottraendosi al crollo delle case, o semplicemente per l’abitudine ai terremoti. Andandosene per le campagne ogni famiglia si portò dietro tutto quello che aveva di più prezioso, ma specialmente il bestiame; e accesi dei grandi fuochi si cominciarono a scannare maiali, agnelli, capretti e pollame, e a far girare spiedi improvvisati. Botticelle di vino furono fatte rotolare per i campi e sventrate per inaffiare quelle mense notturne.
Racconta mio padre che il ciclo era stellato e l’aria tranquilla come se nulla dovesse accadere. Insieme ad un suo fratello già grande di nome Peppino ed altri giovani fatti audaci dall’inevitabilità del disastro, egli non era rimasto nei campi; ed un’ora prima di mezzanotte con quella compagnia era rientrato in paese. Il piccolo gruppo era deciso ad affrontare la fine del mondo nella piazza della chiesa. Traversate le strade deserte andarono a porsi nel mezzo della piazza, in un luogo dal quale era possibile decifrare l’ora del campanile.
gigi
Chiara, letto a suo tempo, è stato un grande.
Questo è il motivo che non mi ha permesso di apprezzare un libro di Andrea Vitali letto per la prima volta quest'estate.
gelo stellato
Capisco! Laddove qui era classe, là era furberia piaciona, anche se magari fatta bene. Però lasciami dire chi in vitali gli intenti erano molto più superficiali, molto più intrattenitivi. Qui si vuol proprio dipingere e pennellare, e gli obiettivi sono alti. Raggiunti, per altro. Bello, comunque. Da riscoprire.